“… Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e
cano- scenza” (Dante, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)
*
Sì…! Ne è passata d’acqua sotto i ponti.
Chi può, mai, negarlo…!!!
Spesso, più che sporadico, durante
l’inverno, dopo aver fatto i miei compiti, andavo a rinchiudermi in una delle
cabine balneari di per- tinenza ai Petrucci; e ivi rintanato, ammiravo
l’elegante volo dei gab- biani che sospinti dall’impetuoso grecale restavano
surplace pronti a sferrare l’attacco all’ingenuo pesciolino travolto dal mare
in tempesta.
A parte l’airone, stupendo piumato dall’apertura
alare stimabile in cm. 170 e l’albatro con quella sua di tre metri e mezzo, non è
da sottova- lutare il gabbiano comune con
una lunghezza corporea che va dai 40 ai 60 cm, e un'apertura
alare dai 98 ai 105 cm, da me considerato il volatile più
affascinante che madre natura abbia potuto creare.
Ed era su questo pennuto che venivano concentrati i
miei studi allo scopo di costruire e far decollare un minuscolo aereo senza
motore.
Progetto, questo, che dovetti rimandare per circa un
quinquennio, cau- sa il mio essere stato accolto in un orfanotrofio Salesiano.
*
Fugge
irreparabilmente il tempo
… Ne venni fuori, cinque anni dopo, forgiato, tornito,
alesato e abile a far suonare la campana, come sostenne don Trazzera, mio
maestro, salesiano laico. Con l’aver espresso quel suo pensiero, era chiaro il
concetto: io sarei stato in grado di provvedere a me stesso, mentre all’interno
di quelle mura erano i salesiani che, alle 12.30 di tutti i giorni, suonata la
campana provvedevano a sfamare ben 240 orfani…
… Per l’intera durata di quel lustro, il progetto di
far volate un piccolo aereo sospinto dai venti, aveva preso forma nella mia
mente.
Era necessario, in primo luogo, avvalermi della
materia prima: il legno. Della tipologia di alcuni legni e della loro
biodiversità, durante quei cinque anni di scuola, ne avevo acquisito non poca
consapevo- lezza. Era essenziale, tuttavia, avvalermi di un tronco morbido,
sfi- brato, senza nodi, quindi, ma soprattutto leggero.
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Ciò ponderato, la mia scelta cadde su tre tipi di
legni: il canfora, il tiglio e il massello
di Balsa, ideale, questo, per il modellismo e gal- leggianti da
pesca. Ma dove sarei andato a trovare un tronchetto, considerato che tutti e
tre le specie sono degli alberi esotici dalle non ordinarie dimensioni. Mi
attaccai ad un telefono pubblico e chiesi del mio maestro, don Totò Trazzera.
Mi è doveroso avvalorare che mi diede ascolto con peculiare coinvolgimento
chiedendo alcuni giorni di tempo.
Il raggiungimento di alcuni traguardi, avevano preso
nella mia mente forma e determinazione. A parte quei possenti bombardieri
americani e britannici che volando ad alta quota nei cieli di Palermo,
seminavano distruzione e morte, io non avevo mai visto un aereo a distanza
ravvi- cinata. Spinto da questo desiderio, non esitai a salire sui mezzi pub- blici
e recarmi all’aeroporto civile Boccadifalco.
Il
mio stato emotivo nel vedere un aereo della compagnia di bandiera LAI toccare
la pista fu insostenibile, avvertii per tutto il corpo una vigorosa scarica di
adrenalina, che mi diede la spinta giusta per sapere affrontare
e raggiungere anche quello che mi sembrava impossibile. La sosta non si
protrasse per le lunghe, giusto il tempo di scaricare bagagli e passeggeri, che
ne imbarcò degli altri con destinazione Fiu- micino. Ma in fondo alla pista,
proprio sotto i miei occhi, il coman- dante effettuò ciò che, sicuramente, era
di comune routine: il corretto funzionamento dei flaps e del timone di coda.
Ricevuto l’okay dalla torre di controllo prese il volo con la stessa eleganza
di un gabbiano. Feci ritorno a casa avendo raggiunto uno degli obiettivi
prestabilitomi: aspetto della fusoliera, l’attaccamento delle ali ad essa e lo
snodo del timone di coda.
Alcuni
giorni dopo, avvertito dal verduraio fornitore dell’istituto, presi contatto
con il mio maestro. M’invitava a recarmi da Scannapieco, il maggiore fornitore
di legnami esotici e chiedere del Signor Di Stefano Il tempo è oro, non rimandare mai a domani ciò che potrebbe esser
fatto oggi. Diceva spesso mia madre. Non esitai un solo istante ad incontrare
la persona indicatami. In un angolo del magazzino giace- vano accatastati
quattro tronchetti di legno balsa dalle dimensioni con- facenti le mie
necessità. Fui invitato a sceglierne uno dando rilevante importanza alla loro
decennale stagionatura.
“Stanno
messi lì da prima che scoppiasse la guerra, né gli ebanisti né i falegnami
sanno che cosa farne, è un legno stupido, privo d'interesse, troppo leggero. A
te a che cosa serve!?” Risposi che avevo in mente la concretizzazione di un
progetto, costruire un aereo giocattolo e farlo volare senza motore. Rise di
pancia, esclamando: “è pazzesco!“
Il
giorno successivo, nella falegnameria di zio Ciccio Gargano, era stato
spogliato dalla sua corteccia e ben sezionato. A conferma di quanto era stato
detto dal signor Di Stefano - circa la decennale stagio- natura di quei tronchi
di balsa - la segatura prodotta dalla sega a nastro aveva l'apparenza del
borotalco: impalpabile. Sbozzai quelle parti che sarebbero divenute le ali e la
fusoliera e mi accinsi a dar loro le ap- prossimative dimensioni stimate con
quelle di un gabbiano. Il succes- sivo stratagemma fu quello di separare la
fusoliera in due parti uguali e nella maniera in cui si taglia uno sfilatino al
quale viene tolta la mollica, svuotai le due componenti limitando lo spessore
della scocca non superiore ai tre millimetri. Lo soppesai con le mani e mi
accorsi che la loro pesantezza non superava quello di un paio di pacchetti di
sigarette. Ne gioii. Poi, allo scopo di evitare delle incrinature, centinai il
loro interno con delle strisce di seta e incollai i due segmenti. Alcune ore
dopo, tolti i morsetti lo mostrai a zio. Il quale dopo averlo girato
ripetutamente fra le mani, esclamò: “lo hai svuotato per ren- derlo ancor più
leggero, sei imprevedibile!!” Con il pialletto e la lima, prese le auspicate
conformazioni. La costruzione delle ali, nella loro intera struttura, (unico
pezzo) richiesero molto più tempo e impegno. Le parti soprastanti vennero
predisposte un po’ convesse, mentre le parti sottostanti, per un principio di
aerodinamica, appresa dal volo dei gabbiani, richiesero d’essere predisponete
in forma concava. Nulla doveva essere sottovalutato. Fissai, provvisoriamente,
con del cerotto le ali sotto la pancia della fusoliera e provai a lanciarlo ad
altezza d’uomo. Il risultato fu non poco deludente. Scese in picchiata, ma ne
compresi la ragione: le ali erano state collocate molto in punta alla
fusoliera. Era indispensabile farle retrocedere, ma di quanti centime- tri!!!
Tolsi l’adesivo e le arretrai di un paio di centimetri. Il secondo test mi
stappò un sorriso. Di prove ne effettuai diverse, nell’ultima inserii anche le
ali posteriori e il timone di coda, la gioia fu indescri- vibile: lo vidi
planare sulle piantagioni di piselli come un autentico aereo.
Effettuai
i dovuti incastri, ad asola, nella pancia della fusoliera, e bloccai le ali in
maniera temporanea, indi caricai al 10% la potenza della molla e collocai il,
già, velivolo sulla rampa di lancio. Con un colpo d’ascia troncai di netto il
tirante di gomma e l’aereo si librò come sospinto da motori jet. Mi venne la
voglia di mandare un urlo di gioia, ma la forte emozione mi consentì a malapena
di deglutire. Volò con compostezza a circa tre metri dal suolo per poi planare
non oltre 200 metri distante dalla base di lancio. Lo mostrai a zio Ciccio,
senza avergli detto del test effettuato. Lo vidi sorridere compiaciuto. E men-
tre me lo porgeva formulò questa domanda: “in una scala da uno a dieci, quante
sono le probabilità che questo giocattolo possa volare?!” Dieci, risposi.
“Pazzesco!!!” Aggiunse. Ma non seppi leggere nel suo pensiero se quel pazzesco
era stato detto per la mia tracotanza, oppure per lo stupore di quel geniale
giocattolo. Passai all’allestimento e lo dipinsi color bianco con la testa
nera, come un vero gabbiano. Era stato levigato come un vetro. Ipotizzai che
l’attrito con l’aria sarebbe stato alquanto limitato.
Era il tardo pomeriggio del 24 giugno. (lo ricordo
perché lo associo al giorno del mio onomastico) Il cielo era in maggior parte
terso, ma con delle nubi alte cirrostrati e una tenue brezza marina dava un
certo refrigerio a quelle anziane donne che, avvolte nel loro scialle nero,
ciarlavano a mezza voce standosene sedute sull’uscio delle loro case.
Predisposi la rampa di lancio dando una ragguardevole inclinazione: un buon
20%, a mio avviso! Agganciai il duro elastico ad un incavo sottostante
l’estremità della coda e, nel dargli un bacio sul muso, gli augurai buon
viaggio, indi nella stessa maniera in cui erano stati eseguiti i test, troncai
di netto il tirante. La spinta fu tale, che in meno di un secondo percorse quei
quattro metri di pista, guadagnando sempre più quota. Non mi fu facile
quantificare a che altezza stesse volando, ma sicuramente oltre i 200/250 metri. Presto mi resi conto d’aver
perso il mio giocattolo. Era stato risucchiato da quelle masse d’aria, in
movimento, meglio note come correnti ascensionali. Pochi minuti dopo quel
puntino bianco divenne invisibile. Feci ritorno a casa con l’aspetto di un cani
vastuniatu. Passando per il centro abitato, il vecchio Sant’Uffizio, le
vecchiette mi salutavano dicendo: Giannuzzu!
Pirchì fai sta faccia, oji è lu to’ santu, avissi a éssiri cuntentu…!!!
Non appena varcata la soglia di casa, trovai mia madre
molto in pena e senza aver risposto al mio saluto, esordì dicendo: “è
venuto a cercarti il signor Di Marzo, ti sta aspettando a casa sua. Che cosa
hai combi- nato!?” Nulla che abbia potuto offendere quell’anziano gentiluomo,
le risposi. “Vai, renditi utile, lo sai che da quando ha perduto la moglie e
rimasto solo come un cane!”
Stavo per bussare alla sua porta, quando la vidi
schiudere, sicuramente mi aveva intravisto da una delle persiane retrostanti il
cortile interno.
“Trasi,
Giannuzzo!” disse, tendendomi la mano per la robusta
stretta.
Senza alcun
indugio apri il discorso chiedendomi com’era andato il decollo del mio aereo.
La domanda non poco mi sorprese, come aveva fatto lui
a sapere che circa un’ora prima io avevo lanciato il mio prototipo!, tuttavia
gli risposi con verità, dicendo che il decollo si era svolto meglio del
pre-visto, in compenso l’aereo era andato smarrito. “Seguimi!!” Aggiunse, con il sorriso sulle labbra di colui che la
sapeva lunga.
Mi condusse dal lato posteriore dell’abitazione,
laddove la moglie era solita sciorinare i panni, e sollevato il lembo d’un
lenzuolo, disse: “ecco il tuo capolavoro!.” Giaceva penzoloni, con il muso
incastrato fra gli intrecci di fili di una rete che delimitava la sua
proprietà.
Rimasi senza respiro, chiedendogli chiarimenti sul
come, quando è perché la sua trasvolata era andata a concludersi proprio lì. Lo
estrasse con molto garbo evitando scalfitture e m’invitò a sedere sotto quel
patio, dando inizio alla sua rassicurante magniloquenza.
E mentre con una mano lisciava il dorsale della
fusoliera, sostenne che stava per stendere quei panni ad asciugare e con la
coda dell’occhio vide la sagoma di un oggetto bianco prendere velocemente
quota, la seguì ad occhio nudo fin quando decise di osservarlo con il binocolo.
Un antico cimelio austriaco risalente al periodo bellico, tenne a pre- cisare.
E mercé a questo strumento ebbe modo di osservare una strana manovra effettuata
dal velivolo: una rapida variazione di rotta, che attribuì a due tipi di
correnti d’aria che s’incontrano, detti per l’appun- to venti misti.
Il ponentino, originato dal calar del sole, aveva
avuto il predominio sulla brezza marina, causandogli un netto mutamento di
direzione.
Il resto era facile intuirlo. Scemato il vento di
ponente, diede inizio alla discesa, terminando, qui, il suo volo inaugurale. Se
non fosse stato per questa minima inclinazione data al timone di coda, chissà
dove sarebbe andato a finire. 5
Tirò le somme sostenendo che: “in linea d’aria si era
allontanato per il diametro di circa un chilometro, il quale moltiplicato per
3,14, in poco meno di trenta minuti era riuscito a dar forma ad una rozza
circonfe- renza non inferiore ai tre chilometri.” E mentre cadenzava la sua
forbita maniera di esprimersi, altro non faceva che osservare la car-linga e la
parte concava delle ali, ma soprattutto gli incastri ad asola praticati sulla
fusoliera, tale tecnologia consentiva di estrarre le ali in qualunque stato di
cose. Poi atteggiando la bocca verosimilmente a quella di una cernia, volendo
manifestare stupore, metteva le mani ovunque: sul timone di direzione, sulla
deriva, sugli stabilizzatori orizzontali ed altre componenti. Ma ciò che
maggiormente lo sor- prendeva, in quello specifico caso, era che un ragazzetto
di soli 15 anni, sfidando le leggi dell’aerodinamica e i suoi principi di
sosten- tamento, era stato in grado di progettare, costruire e far volare un sì
complesso capolavoro. Per concludere mi restituì il “giocattolo” escla- mando:
“è semplicemente pazzesco!!! Se oggi non conoscessi un Dio adorerei questo
aereo!”
Ad
maiora.
(Gianni D’Amico)