venerdì 28 maggio 2010

”… sei in grado di far suonare la campana!”

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Prologo

Nel rispetto di quelle persone
passate a “miglior vita” e alla
salvaguardia della privacy di
alcune altre presumibilmente
esistenti, eviterò che nel corso
della narrazione vengano
menzionati i loro cognomi,
di conseguenza milimiterò a
sostituirli con dei pseudonimi
degni di fede. La medesima strategia sarà adottata per l’azienda coinvolta, involontariamente, per l’istituto finanziario e, ove possibile, i luoghi in cui si svolsero i fatti. E sebbene il racconto sia limitatamente romanzato, farò del mio meglio per non stravolgere la veridicità di quanto sto per narrare.

Accadde esattamente nel decennio 1950-60. Avevo 15 anni quando, allo scadere dei 5 anni d’accoglienza, lasciai l’orfanotrofio Salesiano Santa Chiara di Palermo.

Il Signor Trazzera, (don Totò) mio maestro, sia di musica che del settore ebanisteria, Salesiano laico per l’esattezza, porgendomi la mano e stringendomela quasi come se si fosse messo d’impegno a staccarmi il braccio, disse:
«Vai Giovanni, sei in grado di far suonare la campana!» con questo intendeva dire che ero in condizioni tali da poter provvedere al mio sostentamento. Quanto da lui asserito, scaturiva dal fatto che erano i Salesiani, con i loro sacrifici, a provvedere al fabbisogno giornaliero di 140 ragazzi.

Un triennio più tardi, risultavo essere ancora minorenne soprattutto per l’anagrafe; e pur avendo superato la prova d’arte sostenuta al cantiere navale del capoluogo in presenza di eccellenti “cabinet makers”, non venni assunto in quanto “under 21”. Frattanto per disporre di qualche Lira ad utilizzo “Argent de poche”, che mi consentisse di poter andare al cinema la domenica sera, davo una mano a zio Tano, piccolo imprenditore del settore armatoriale da diporto, che nell’approssimarsi della bella stagione, eseguiva il comune rimessaggio ai suoi dieci natanti.

Mi verrebbe, quasi, la voglia di elencarne i nomi! Il lavoro consisteva nel dover calafatare accuratamente tutto il fasciame delle barche e poi secondo i criteri prestabiliti dal maestro, fondati nella più rigorosa osservanza di una ben ponderata linea policroma, venivano dipinte ad olio di lino cotto. Sconfinare fra un colore e l’altro, oppure fingere di non aver notato l’inizio di una scolatura di vernice, sarebbero stati guai seri. Esigente per com’era zio Tano, quel lavoro ci teneva impegnati da marzo a metà giugno.
E nel frattempo, Eolo permettendo, prendevo qualche ora di lezione di vela impartitami da Nino, il figlio maggiore. Confrontarsi con i venti, soprattutto misti e le onde frangenti, era il nostro basilare test di coraggio, che più tardi – se pur continuando ad essere maldestro – m’invogliò a progettare e costruire la mia barca: un Beccaccino classico, a deriva mobile, lungo 5 metri, con 14mq. di superficie velica, fra fiocco e randa, s’intende.

Che, detto senza l’ombra della spocchia, fu valutato inaffondabile. E una valida ragione esisteva: l’interno dei gavoni delle sue fiancate, erano zeppe di palline da ping-pong, (una mia eccellente idea) mentre gli altri due gavoni, (poppa e prora) equamente zavorrate, davano al natante l’ottima tenuta di mare senza che venissero alterate quelle leggi imposte dall’idrodinamica: (fendere le acque con minimo beccheggio e zero rollio).
Non era facile per un principiante affrontare da solo il giro di boa, rallentavo troppo l’imbarcazione, soprattutto quando il vento soffiava di bolina e le acque, proprio in quel tratto di mare noto come il “golfo degli angeli”, non facevano sconto a nessuno.
A quel punto era Nino che prendeva i comandi: il quale con sangue freddo disinseriva la deriva e, mollando le sartie del boma, attuava la sua elegante strambata chiudendo
l’angolo a non più di 37/38°. Furono necessarie un paio di ventose stagioni autunnali, affinché io imparassi questo stratagemma.
Nino, con una barca adeguata, sarebbe stato capace di circumnavigare da solo le acque del pianeta. A soli 15 anni, forse, aveva imparato a comandare imbarcazioni da diporto nelle acque agitate dai forti venti, tanto da esser considerato il più giovane skipper del Mediterraneo.

* * *
1956.
Maturai la maggiore età. E allorquando mi pervenne la cartolina relativa al selezionamento per il sevizio militare non ero in Italia, bensì in giro per l’Europa in autostop. Pertanto, tacciato del disonorevole appellativo di disertore, fui ricercato dalle forze dell’Ordine. Quando 45 giorni dopo feci ritorno a casa, non fu piacevole, credetemi, trovare i carabinieri che mi attendevano. Sottoscrissi a malincuore la diffida, in cui mi veniva imposto di recarmi con urgenza presso gli uffici del Distretto Militare di mia pertinenza.

“La notte porta consiglio”, diceva mia madre dandomi il bacio della buona notte quando i miei problemi erano solo quelli della paura del buio. Poi morì mio padre e in orfanatrofio dovetti imparare a farmi consigliare davvero solo dalla notte. Anche questa volta, affinché ascoltassi in maniera inequivocabile il consiglio che mi avrebbe portato la notte, non chiusi tassativamente occhio, meditando come infliggere il necessario scacco matto ad un paio di persone considerate molto affidabili.

Quasi tutte le mattine incontravo, in autobus, un eccellente viaggiatore: un giovane Prete, Sottotenente Cappellano, il quale si recava all’Università degli Studi del capoluogo. Lo attesi nelle vicinanze della fermata dell’autobus, a pochi passi da Piazza Pretoria, e da lì lo vidi sopraggiungere. Lo seguii a passo sostenuto, pari al suo d’altronde, e da quel momento provai a mettere in atto il consiglio portatomi dalla notte. Mi affiancai dicendogli:«Buongiorno signor Tenente, mi chiamo D’Amico, desidererei parlarle.»«Riveste carattere impellente, la cosa?» rispose lui.
«No, no, oserei dire urgente!» volli fargli osservare, non avendo fatto mai impiego dell’aggettivo impellente.

«Ritroviamoci qui alle ore 11,30» rispose, provando a dare uno sguardo all’orologio posizionato in alto sulla parete centrale del Palazzo delle Aquile. Ebbi la piena convinzione che quell’incontro, più che al caso, era d’attribuirsi ad un segno del destino. Puntuale come l’arrivo dei “treni del Duce”, lo vidi uscire dal portone dell’Ateneo. Io ero lì, con quel foglio in mano, ad attenderlo.

«… Qual è il problema che ti affligge?» esordì con tono rassicurante.«Ecco!» risposi. Mentre gli porgevo copia del mortificante documento che avevo sottoscritto il pomeriggio del giorno precedente. Lui lo divorò con lo sguardo e lì per lì aggiunse:
«Beh, cosa vuoi che faccia!?»
«Gradirei, ove possibile, essere esonerato dall’indossare la divisa militare.» risposi.«Dimmi tu con quale pretesto?» «Con una valida giustificazione, più che un pretesto.» ribadii.

«Intanto, per prima cosa, dovrei salvarti dal carcere militare, poiché, a fronte di ciò che si evince da questo documento, risulti essere disertore, e poi vedremo dove arrivano le mie conoscenze. Sentiamo questa tua valida giustificazione!» «Sono orfano di padre a sostentamento di mia madre e due fratelli.» «Sei il primogenito?»
«No, il secondo.»«Niente da fare!, trattandosi di questi casi la legge prevede che sia il primogenito a beneficiare dell’esonero.» «Ma il fratello maggiore si trova in seminario, e non prima di un quinquennio terminerà gli studi di teologia.»


Annuì, rendendosi conto che sotto non c’era del marcio. Tacque alcuni secondi girando quel foglio fra le mani, poi alzando un braccio, compresi che stava per fermare un taxi. Indi rivoltosi al conducente, disse:
«Al Distretto Militare, Via Quintino Sella.» e come in una partita a scacchi lo vidi costretto ad arroccare la torri.Giunti in loco, chiese del Colonnello responsabile di quel servizio, proprio colui il quale aveva apposto la firma su quell’attestato. Venne bene accolto, e mentre io fui invitato a prendere posto in una sala di attesa, lui varcò la soglia della stanza destinata al più alto in grado: il Colonnello D’Amico. Un puro caso di omonimia. Parlarono a lungo.




Uscì accompagnato da un distinto signore in abito civile, al quale fui presentato e, seduta stante, questi mi sottopose una dichiarazione da firmare. Mi avvidi che si trattava di una domanda di esonero. Firmai felice senza esitare un solo istante.
Giù, all’ingresso dell’edificio, chiesi al giovane cappellano quali decisioni sarebbero state adottate circa il mio comportamento trasgressivo accaduto in totale buonafede.

«Si è tenuto conto di questo, principalmente, e come vedi stai tornando a casa.» rispose. Poi aggiunse: «Entro pochi giorni ti perverrà una lettera proveniente dal tuo distretto. Dopo di ciò, gradirei poter conoscere tua madre e i tuoi fratelli.»
Si accomiatò porgendomi il suo biglietto da visita. Notai che il cognome non era siciliano, come non era siciliano il suo accento. Stava di fatto, però, che senza essersi messo sotto scacco aveva preso a cuore la mia supplica.

Pochi giorni dopo, giunse una raccomandata postale con ricevuta di ritorno, con su impresso “MINISTERO DELLA DIFESA, DISTRETTO MILITARE DI PALERMO”. Fu mia madre ad aprirla. Talmente emozionata da non riuscire a leggere il contenuto. Ero stato esonerato dal servizio di leva con la seguente motivazione:
“Per sostentamento di madre vedova, e dei suoi due fratelli”.
Dopo un primo formale incontro tra mia madre e il tenente cappellano avvenuto in Seminario, la signora D’Amico e i suoi tre figli ebbero il piacere di averlo ospite, a cena, nella propria abitazione.
Frattanto vengo a sapere che ero stato cercato da un portavoce del signor Trazzera. Lo chiamai da un telefono pubblico, e da lì mi fissò un appuntamento in centro città.
Era giunta l’ora di far suonare la campana… Don Totò, stava per farmi ottenere un impiego presso una nascente azienda costruttrice di arredo a livello industriale. Avrei dovuto far parte dell’ufficio “Studi e Progettazioni”.

Ero bravo nel disegno: passavo tra i banchi della classe del mio corso per correggere i compiti di quei compagni, che di bio-architettura, tecnologie del legno e i suoi incastri, prospettiva con relativi punti di fuga, di proiezioni ortogonali, e di disegno geometrico, ne masticavano ben poco. Ma alcuni di loro, non molti in verità, erano dei veri artisti nell’ornato, che con le loro matite sanguigne o carboncini, nel corso di quel quinquennio, crearono autentiche opere d’arte. Il fatto di non dover rispettare (nell’uso del bianco) quelle leggi imposte dalla geometria, – materia, questa, che insegna a ragionare – dava loro ampio spazio e maggiore incentivo al loro straordinario estro.

* * *
…Una mattina fu lo stesso signor Trazzera a presentarmi al titolare dell’Azienda. Una grande Società per Azioni, questa, con punti vendita del prodotto finito in buona parte del meridione peninsulare. Notai che gli occupanti quel salone, tutta gente del Nord che indossavano giacca e cravatta, mi vennero incontro dandomi il benvenuto. Dopo un breve colloquio sostenuto nell’ufficio privato del futuro datore di lavoro, disse: «Ecco le tue spettanze.» indi, porgendomi copia del regolamento organico dell’azienda, aggiunse: «Hai dieci giorni di tempo per accettare o rinunciare.»
«Accetto sin d’ora,» risposi in presenza del mio maestro «ma gradirei, in ogni caso, potere usufruire di quei dieci giorni». Assentì inclinando con molta signorilità il capo in avanti.

Mi recai per la confezione del mio primo vestito presso colui che, più tardi, sarebbe divenuto il mio sarto. Uno dei migliori “couturier” della Palermo bene: tale Vincenzo Angellotti. Dell’incontro avuto, quella mattina, ne riferii a mia madre. È superfluo dirlo. Ne rimase commossa e soddisfatta.«Sia ringraziato il Signore!» esclamò «come vedi, la campana di cui parlò il tuo maestro, sembra che stia per suonare.» e come se stesse udendo realmente il suono di una campana, da buona cristiana che era, si segnò.

* * *

Eravamo giunti in prossimità delle festività natalizie. Quando il Commendatore Righi, economo dell’azienda, (persona molto dinamica, ma non più giovane) mi chiese di accompagnarlo in banca per il prelievo delle spettanze mensili e della tredicesima da retribuire ad impiegati e operai di quella intrinseca sede.
E , considerato che l’uomo addetto all’auto di servizio era assente, m’invitò a fare uso della propria auto: una Lancia Aprilia cabriolet, con targa TO, un po’ superata, ma di carrozzeria ancora nuova e con poche migliaia di chilometri in corpo non passava inosservata.

L’Istituto di Credito “SANT’EUSTACHIO” ubicato al centro città, disponeva di un ingresso sul lato posteriore dell’immobile, riservato a quei correntisti che prelevavano delle somme considerevoli. Fu lo stesso economo a suggerirmi cosa avrei dovuto fare: discendere lo scivolo, parcheggiare l’auto, e attendere il suo ritorno. Mi accorsi che ai piani superiori si accedeva attraverso una porticina taglia fuoco, di cui si servivano soltanto coloro i quali erano in possesso della chiave data loro in consegna dalla direzione dell’Istituto di Credito.

Un ristretto numero di danarosi correntisti, quindi. Però mi stranizzò il fatto che la saracinesca che dava accesso al sottostante garage, rimanesse aperta e chiunque avrebbe potuto accedervi e mettere in atto i più malavitosi progetti, come quello, per esempio, di una rapina. Perché no! Pochi minuti dopo fece ritorno dicendo:
«C’è una moltitudine di gente lassù, è preferibile tornare domani all’apertura degli uffici.» Facemmo ritorno in sede.

Quel genere di lavoro era riuscito a trascinarmi, non guardavo mai l’orologio. Presto divenni un impiegato modello. Ma il mio ideale rimaneva sempre il turismo. Aveva la supremazia su qualsivoglia attività. E le domeniche mi recavo nelle chiese o nei musei ad ascoltare ciò che le guide spiegavano ai loro gruppi di turisti, in prevalenza francesi e americani. Appresi molto attraverso quei contatti, di cui più tardi ne trassi grandi benefici. Anche quelli economici.

…Come il dì precedente, l’enorme saracinesca che dava accesso al garage di quella Banca era sollevata. Entrai a passo d’uomo e memore dell’afflusso di auto del giorno anteriore, e di quanto dovetti tribolare per effettuare la manovra d’inversione di marcia, parcheggiai la macchina in posizione avvantaggiata, pronto per uscire.


Pochi minuti dopo, fece ingresso un’auto dei telefoni di stato attrezzata di scale ad innesto fissate sul tetto con delle cinghie. Ne vennero fuori due uomini sulla trentina, i quali indossavano regolare tuta da lavoro.Uno dei due teneva in mano un mozzicone di matita, un metro a bobina e un blocco per appunti. E, seguendo la traccia di un obsoleto impianto, diedero inizio a fare dei rilievi non concedendomi la benché minima opportunità di afferrare una sola parola di ciò che stessero dicendo. Ma qualcosa m’insospettì. Quel tizio che annotava ciò che diceva sempronio, mi era sembrato di conoscerlo.

Io per natura sono un irriducibile fisionomista, e lo raffigurai in Matteo, colui che circa 15 anni prima era il più temuto ladro di polli del quartiere Torrealta, successivamente divenuto topo d’auto. E, per i frequenti reati minori, faceva l’andirivieni dal “Grand Hotel Ucciardone”. C’incontrammo con lo sguardo. Abbassai subito gli occhi.

Non ebbi la certezza che mi avesse riconosciuto, poiché ero sparito dal Sant’Uffizio da oltre un lustro, e inoltre a quel periodo trascorso in orfanotrofio, in aggiunta ad un paio di anni che lui, con molta probabilità, aveva dedicato al servizio militare e, perchè no!, alla forzata reclusione in un riformatorio come Malapena, per esempio, mi autorizzavano a sperare che un così lungo lasso di tempo avrebbe potuto cancellare in lui il ricordo della mia faccia.

Sì, perché non aveva avuto modo di vedermi crescere e io non ero più il ragazzetto che si era salvato miracolosamente dal rogo della “Taverna del Tiro”, mi ero fatto uomo oramai, ed inoltre, alla scaltrezza dei nove anni, avevo aggiunto un po’ d’intelligenza in più e tanta esperienza. Mi accostai a loro e dissi:
«Fra poco da quella porticina uscirà un signore anziano, se cortesemente poteste dirgli che attenda pochi secondi, vado qui all’angolo della strada a comprare una focaccina con le panelle. Volete che ne compri un paio anche per voi?»
«Nenti dumannari e nenti rifiutari!» ma nel modo in cui venni osservato, mi resi perfettamente conto che ero stato individuato “nto frati du Parrìnu”.

Accesi il motore dell’auto e sgommando sulla la rampa, mi portai nelle vicinanze dell’ingresso principale della Banca. Varcai la soglia e andai in cerca dell’economo. Lo trovai in una stanza che inseriva nella borsa diverse mazzette da 10.000 Lire.

Il prelievo era stato eseguito. Avevo fatto appena in tempo ad evitare la rapina.
Feci presente che avevo notato un guasto all’accensione, e sarebbe stato necessario l’intervento di un elettrauto, un lavoretto della durata di circa un’ora; perciò che si servisse di un taxi per fare ritorno in sede. Tale messa in scena sarebbe stata utile a farlo desistere dall’andare giù in garage. Certo non fui così ingenuo di ottemperare alla parola data, cioè quella di andare a comprare le due focaccine per tizio e sempronio. Circa 30 minuti dopo, anch’io feci ritorno in ufficio. Ma lo capirete!, la partita non si era chiusa lì…

«Ch’è successo alla mia macchina?» «Oh, nulla di grave!» risposi, «tutti e sei gli elementi della batteria erano a secco, è stato sufficiente colmare i livelli con dell’acqua distillata, e con una spintarella è stata messa in moto.»

“Il ferro si batte mentre è caldo”. Da una breve indagine effettuata nel luogo giusto, e al momento giusto, appurai dove abitava Ugo: in zona mattatoio, “‘o macellu”.
Il suo indirizzo, in aggiunta di alcune dritte, mi erano stare date da un sedicente maestro di scuola. Una persona avanti negli anni alquanto ponderata, che mi diede la quasi certezza che Ugo sarebbe strato idoneo a risolvere il problema che si era venuto, indubbiamente, a creare fra lo scrivente e i presunti operai delle linee telefoniche di stato, capaci di mettere in atto le più imprevedibili rappresaglie.

… Mi recai al numero 6 di quel vicoletto ceco suggeritomi dal canuto insegnante, e bussai un paio di colpi con un battente di bronzo a forma di muso di cane mastino. Udii lo “strack” della serratura elettrica azionata dall’interno. Mi presentai dicendo chi ero, e da chi era stato mandato.

«Hahhh!! Trasi! Assettati!» disse, scostando una sedia dal tavolo. Intanto che inserito un tovagliolo da cucina al collo diede inizio al pasto della sera.
«A favorire!» esclamò, mettendosi davanti ad una fondina stracolma di margherite al sugo che ricoperte di caciocavallo davano la vaga impressione dell’Etna innevata.

Gli narrai brevemente qual era il mio problema. Mi ascoltò senza fiatare.
Cinquantenne, single, “lupucuviu” per antonomasia, era una sorta di lottatore di “sumo” che per la corporatura di cui era costituito, – molto più del necessario – sarebbe stato più facile saltarlo che girargli intorno. Si diceva di lui che era cresciuto di pane e risse. In verità il suo cognome non lo si seppe mai, ma di nomi ne aveva una caterva.

Si ricordava di mio padre e dei suoi cugini, – importatori di bestiame – distinguendo, soprattutto mio padre con l’appellativo: “una perla di galantuomo”
Allungatosi i pantaloni mise da parte il nome di battesimo, acquisendo quello di Francesco, indi Ciccio, per gli amici “Ciccineddu” o semplicemente “Neddu”.

Ma per molti altri della sua stessa età era noto come “u suca 'nchiostru”: sopranome, questo, coniato dal fatto che, durante la frequenza alle scuole elementari, che ultimò con diversi anni di ritardo, lo si vedeva sempre con la bocca e le dita imbrattate d’inchiostro.
Da adulto si diceva che si occupasse di compra-vendita, ma in effetti null’altro era che uno sconsiderato ricettatore. Nel frattempo aveva finito d’ingurgitare il suo fumante chilogrammo di pasta asciutta. Poi, dopo aver fatto un rutto animalesco, disse:«Amunì!»
Mise in moto la sua Fiat 1100, andando in direzione Torrealta.
Giunto che fu in un fatiscente caseggiato, bussò ad una porta con su scritto: “portoncino fresco di pittura”. Si udì la voce di una donna, chiedere:
«Cu èhhh!!» il colloquio si svolse grossomodo così:
«Io sugnu, c’è Mattiu?»
«Nohh, me frati Mattiu nu’ c’è, è partutu!»
«Sì!!!, di ciriveddu è partutu.»
«Vossia lu sapi, ca’ me frati fa lu rappresentanti, e nu’ c’è mai a casa. Chi voli di mia!!»
«Fall’affacciàri, ca’ cc’haiu a parràri, cretina.»

Io attendevo poco distante da lì, seduto in macchina, e in base al loro modo di esprimersi, mi sembrò di capire che i due si conoscessero più che bene.

Aprì la porta e venne fuori una donna sulla quarantina, dall’aspetto trascurato, obesa e talmente miope, che nella montatura dei suoi occhiali le erano stati inseriti due fondi di bottiglie. Matteo era in casa, e udendo la voce del rissoso lottatore di “Sumo” venne allo scoperto adducendo un pretesto che non è il caso precisare. Si allontanarono alcuni metri e parlottarono. Io per quanto potei affilai il più possibile le orecchie.

E dal tono concitato con cui parlava mi resi subito conto che il “tecnico della telefonia” era parecchio risentito, poiché dalla sua bocca venivano fuori delle contumelie volte al sottoscritto.

Sentii dire pure: “u pani chi panelli!!… a mia sta pigghiàta pu’ culu!!… Sì l’hav'a pagari!!... l’hav'a pagari com’è veru Diu!!” E molti altri anatemi che non sto a descrivere. Andarono al Bar a bere sicuramente qualcosa, indi si strinsero la mano e tutto finì lì.
Io non facevo parte di quella “casta”, pertanto il “paciere” non ebbe nulla da relazionarmi.
Disse soltanto:
«Fusti servitu, giannuzzu.»
Ebbi terrore di questa frase.
In realtà stavo avendo a che fare con degli incalliti malavitosi.

Ritornando all’amico dell’amico, un maestro di scuola elementare, come anzidetto, gli raccontai dell’incontro.
A dir vero non mi sembrò molto compiaciuto.
«…Questo è un capitolo da chiudere» disse «tieniti lontano da questa gente.
“Nuddu fa nenti pir nenti!!”
Oggi ti hanno fatto un favore, domani pretenderanno averlo restituito.»
«In che maniera!» interloquii «io non sono un malvivente come loro!»
«Ma loro non t’indurrebbero mai a dover commettere un crimine, mettendoti una pistola in mano, ma sono capaci di ficcarti in casa un temuto latitante, costringendoti a dover dire ai tuoi bambini che quello è uno zio.

Ma attenzione, “giannò!,” sarebbero loro ad accollarsi tutte le spese necessarie, anche quelle della pigione. E non è il primo caso, sai! “Tu e to’ mugghèri” vi sentireste di condividere il bagno, anche per un solo anno, con un uomo che non avete mai incontrato?!»
Da quest’ultimo abboccamento ne uscii ancor più inorridito.

Mi ero battuto a spada tratta per evitare che quella rapina fosse stata messa a segno, poiché qualcuno, anche della stessa azienda in cui prestavo servizio da pochi mesi, avrebbe potuto sospettare che fossi stato io a fare da basista.

Epilogo

Era un’afosa serata di un fine settimana d’agosto del ‘60, quando in una gremita pizzeria di uno splendido entroterra collinare, ombreggiato da conifere secolari, m’imbattei in un tizio che dall’aspetto fisico dava l’impressione di essere un lottatore di “Sumo…” mi venne incontro, e stringendomi la mano m’invitò a sedere con lui, – accettai a malincuore, credetemi!, – e dopo alcuni stravaganti, quanto insulsi, convenevoli, bisbigliò al mio orecchio:

«Hai sentito di Matteo?» la cosa mi parve strana, lui oltre ad aver detto “trasi, assettati” che mio padre era una perla di galantuomo, “amunì” e “giannzzu sei stato servito”, non ricordo che abbia detto altro. Tuttavia volendo essere garbato, risposi:«No, che cosa gli è accaduto!?»
Mandò giù d’un fiato un boccalone di birra e dopo essersi asciugato le labbra con il dorso della mano, raccontò che il proprietario di una pizzeria, usciva a notte fonda dal suo locale con il “sostanzioso” incasso del giorno, quando un giovinastro, a viso coperto, gli si parò davanti e con una pistola alla mano gli chiese il portafogli.

L’imprenditore lo vide indeciso, vacillante e lo esortò ad abbassare l’arma, dandogli la garanzia che avrebbe trattenuto per sé i soli documenti e che invece gli avrebbe consegnato tutto il malloppo, ripetendogli con saggia sollecitudine che la vita è un bene prezioso, molto più prezioso dell’incasso di una serata di lavoro.

Il rapinatore fidandosi delle parole paterne dette da quell’uomo abbassò il braccio. L’altro inserì la mano nella tasca esterna della giacca e da lì lo freddò con una pallottola in pieno petto.

«Considerato che Matteo morì sul colpo, com’è vento a sapere lei, don “Ciccineddu”, del dialogo tra lo stesso Matteo e il proprietario della pizzeria!?» chiesi io incuriosito.

«Chi dumanna mi fai, giannuzzu! L’ho saputo dal mio amico che stava per subire la rapina. Vedi, quel signore là in piedi che discute con dei clienti».
La sua risposta era stata ben altro che laconica. Indi atteggiando la bocca a quella di una cernia, aggiunse:
«fici ‘a fini ca’ ci spittava fari.
Stu gran delinquente!!»
Parole dure, le sue, come le pietre, che non mi andarono giù.
Frattanto, insieme ad un gruppetto di amici, arrivò la mia ragazza, anche lei come tutti gli astanti in cerca di una brezza.
Appariva pimpante, radiosa, acqua e sapone. Indossava “quella sua maglietta fina”, più tardi magnificata da Bagloni in un suo motivo… che attirò su di sé “l’attenzione” di non pochi avventori.

Mi separai da quell’uomo con gran senso di sollievo e le andai incontro. Prendemmo posto in un tavolo apparecchiato nelle vicinanze di un roseto, il cui profumo misto a quello della resina dei pini, sembrava che desse maggior refrigerio.

E mentre lei ad occhi chiusi annusava la fragranza di quella particolare frescura, presi in considerazione l’ultima frase detta dal rude mediatore, bisbigliando:
«…Stu gran delinquente!! Il bue dice all’asino cornuto!»

«Come dire da che pulpito viene la predica, no! Con chi ce l’hai, Giò Giò!?» chiese Maria Adelaide ironizzando. Tergiversai parlando subito d’altro, fuorviandola da ogni sua arguta illazione.
Il luttuoso avvenimento appena appreso, mi lasciò non poco turbato. Ne conclusi che la temporanea esistenza su questa terra, di ognuno di noi, ha una ineluttabile fine. Si sa come, quando, e dove si nasce, ma fortunatamente non sapremo mai dove, come e quando si cessa di vivere.


Lo sciagurato Matteo, aveva
finito di riferire “Ciccineddu”,
aveva programmato che dopo questo
“lavoretto” si sarebbe ritirato
definitivamente da quella
attività, e sarebbe convolato
a nozze con Agatina.

Ma non aveva messo in conto
che in quest’ultimo faccia a
faccia, avrebbe pagato con
la vita. Giorni dopo, così,
anche per Matteo suonò la
campana: non quella di cui
aveva parlato don Totò, il
mio maestro, cioè quella
dal suono affrettato e
gioioso che invitava noi
ragazzi a recarci al
refettorio.
Per Matteo ora stava suonando quella dai rintocchi lenti, lunghi, commiserevoli: la campana di Hemingway. "E allora,non chiedere per chi suona la campana.Essa suona per te".

Però nella storia di quel grande romanziere si trattava di una guerra civile e non di infima delinquenza, come in questo caso in cui io, “reductio ad absurdum” mi ero andato a ficcare dentro, sia pure con il mio sano ruolo civile.Ma senza avere avuto la cognizione di quanto ci sarei stato stretto.

Cordialità. Gianni D’Amico © Riproduzione riservata

Ho vissuto un giorno da leone!”

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«…I’ve lived a day as a lion!»

Prologo
Avevo 15 anni quando uscito che fui dall’orfanotrofio, mi resi subito utile a zio Francesco restaurandogli un’antica poltroncina, alla quale la donna di servizio, non poco maldestra, era riuscita a spezzare una gamba. Dopo avermi liquidato con 250 lire, importo sufficiente all’acquisto di un biglietto per l’ingresso al cinematografo, aggiunse qualcos’altro. Un’agenda prodotta per la banca di cui, lo stesso, ne era direttore.
«Di queste agende» disse «ne vengono realizzate poche dozzine bastanti ad omaggiare una ristretta Casta Gattopardiana». Disse proprio così, “Casta Gattopardiana” e devo pensare che fosse la Jet Society degli anni ’50.
L’agenda si presentava solenne, raffinata, esclusiva, e sicuramente utile per coloro, tra i quali certamente non potevo venire annoverato, ne avrebbero saputo fare il giusto impiego. Profumava di pelle conciata. A centro sulla copertina, a carattere in oro, vi era impresso: Anno Santo 1950. In basso, Nazareno Gabrielli. Stupito ed ammirato, la rigiravo fra le mani.
«Che cosa ne faccio io di questa agenda.» gli chiesi.
«Le agende stimolano a scrivere,» disse «inventati delle storielle e le butti là dentro, quando sarai nonno li racconti ai tuoi nipotini! Oh!, se non ti piace mica devi prenderla per forza! Io me ne sto privando per fartene omaggio!»
Nella mia memoria conservo ancora l’immagine dello sfondo alle sue spalle: la grande bookcase luccicante di argenti e cristalli. Se fossi un pittore non avrei difficoltà a rappresentare quei ricordi su di una tela!!
«Sì, che mi piace! Intendevo dire che è molto importante, e nelle mie mani la trovo sprecata!» risposi, annusando a pieni polmoni quell’odore di scarpe nuove mai calzate. La tenni rinchiusa nella sua custodia di flanella per oltre un decennio. Quando un giorno presi la decisione d’imbrattare le sue pagine.
Negli anni ’60 prestavo, già, sevizio presso l’Avis Autonoleggio e, per esplicito desiderio di un’Agenzia di viaggi, mi era stato affidato un particolare turista straniero, e da un Hotel di Palermo lo stavo trasferendo ad un altro di Catania, laddove per motivi di lavoro si sarebbe fermato per alcuni giorni. Durante il viaggio mi sono accorto che parlava discretamente bene la mia lingua, ma quando si trattava di sostenere qualche dialogo un po’ più impegnativo sfoderava la sua ineccepibile conoscenza della lingua di Guy de Maupassant. Quando una sera, prima che lo lasciassi in albergo, mi chiese:
«…Che cos’è che scrive, la vedo da giorni con quell’agenda in mano.»
«Sto rivedendo la bozza di due miei racconti nei quali narro alcuni episodi di quando ero monello di strada.» risposi.
Rimasi lusingato dalla sua richiesta. Avrebbe desiderato leggerne uno.
E mentre gli porgevo l’agenda, feci presente che la mia calligrafia era poco comprensibile. Lui dopo aver sfogliato velocemente qualche pagina, scosse il capo in disaccordo con quanto avevo appena affermato. La mattina successiva nel restituirmela, dichiarò:


«Li ho letti entrambi, e li ho trovati suggestivi. Faccia una bella raccolta, quando si ritirerà dal lavoro li faccia pubblicare, avrà il successo che merita».
Il suggerimento spassionato datimi anni prima da zio Francesco e quest’altro da un turista straniero, oggi danno quella sensazione che dopo oltre mezzo secolo qualcosa stia per concretizzarsi. Animato da quella teoria, ho espresso un pensiero che da alcuni giorni mi si agitava nella mente:
«Maestro! Perché alla Sua veneranda età va ancora in giro per il mondo ad assolvere ai Suoi impegni di lavoro, anziché passeggiare per i Boulevard della Sua amata Parigi?»
«Que ce que vous voulez mon vieux! Que je reste chez moi pour attendre la mort!!»
È del Compositore Igor Stravinskij, di cui vi ho parlato. Il quale, amante del nostro Paese, volle che le Sue spoglie mortali riposassero nel Cimitero di San Michele, a Venezia.
Oggi leggendo i polizieschi di Andrea Camilleri, meditando su quell’incedere in vernacolo siciliano, mi è venuto spontaneo chiedermi: È così che si scrive, oggi! Se è questa la maniera di scrivere, anch’io sono capace di cimentarmi nella realizzazione di un libro. Ed ecco che custodisco sette miei manoscritti in una “pen drive da 4Gb.“
Oltre a quegli incontri casuali avuti con dei personaggi descritti nei miei cenni autobiografici inseriti nel sito culturale “Operanarrativa,” me n’è sfuggito qualcuno di cui gradirei parlare in questo mio sesto racconto. Mi auguro vorrete ancora tributarmi la stessa fiducia ad oggi accordatami. Leggetelo, non vi deluderà!
  * * *
Quando nel lontano 1963, il romanzo di Tomasi di Lampedusa dal titolo “Il Gattopardo” prese il via per la realizzazione del film, fu lo scrivente a fare da guida all’attore americano Burt Lancaster, alias “don Fabrizio di Salina”.
Il protrarsi del “ciack si gira”, durato quattro mesi, mi trasformò nell’ombra del succitato attore, dandomi l’opportunità di conoscere l’intero Casting, tanto per citarne alcuni: Luchino Visconti, Alain Delon, la Cardinale, la Morelli, Paolo Stoppa, Romolo Valli etc. Sarebbe poco deferente non tener conto della famiglia del protagonista e i suoi ospiti che, provenienti da diverse parti del mondo, m’impegnavano in qualunque ora del giorno ad incontrarli in aeroporto e trasferirli nella sua dimora. Molti furono i festeggiamenti di fine settimana ai quali parteciparono personaggi del Cast e No.
Assiduo frequentatore presso la Villa settecentesca, presa in locazione con la correlativa servitù, era l’inseparabile amico Kirk Douglas, (sì, papà di Mikael) nota Star Hollywoodiana. Fra Kirk e lo scrivente nacque una non indifferente simpatia che più tardi, pungolato da determinate rettitudini, mi dispensarono per suo esplicito desiderio dal chiamarlo Mr. Douglas, accorciando le distanze con Kirk, come d’altronde lui chiamava me Johnny. (Jani)



Quando all’allestimento del film i coniugi Lancaster lasciarono la Sicilia, posso garantirvi che un pezzo del loro cuore rimase in quell’Isola. Lo stesso dicasi dell’amico Kirk, il quale porgendomi un suo biglietto da visita aggiunse:
«If some day you’ll come to America, don’t hesitate to give me a call!!»
(Se un giorno venissi in America, non esitare a telefonarmi N.d.A.)
Orbene! Come già fatto cenno nel precedente racconto, nell’aprile del ’68, fui assunto all’Ente Nazionale Italiano per il Turismo di Roma. A fronte delle ristrettezze economiche di quegli anni, principale causa l’impennata dei prezzi sugli affitti, con l’aggiunta della propria moglie e due figli a carico, optai come molti colleghi per il trasferimento all’estero. Alcuni anni dopo, convalidato il Ruolo Unico, ed essendo in possesso di quei requisiti richiesti dal Regolamento Organico del Personale: “titolo di studio, esperienze all’estero e conoscenze lingue,” ottenni il trasferimento per gli States con destinazione Chicago. Città questa dallo skyline più bello d’America e il Michigan Lake, oltre che navigabile, è sì grande da non scorgere la sponda antistante e, per buttare là un termine di paragone, atto a poter contenere l’intero territorio svizzero.
Amante del Jazz e della vela quale altra città, nello stato dell’Illinois, avrebbe potuto soddisfare le mie ambizioni!! Come di dovere mi recai nelle Sedi delle Istituzioni Italiane per porgere un saluto al Console e a tutti i Delegati. Alcuni giorni dopo ero lì, “full immersion” dietro il banco informazioni a contatto con il mio pubblico.
Era una tarda mattina di fine settimana, quando un signore parlandomi al telefono mi disse che dovendosi recare a Palermo, quale sarebbe stata la maniera più sbrigativa per raggiungere Bagheria. Gli risposi d’acchito che dal Terminal di Viale della Libertà, poteva servirsi di collegamenti ferroviari, o di un’auto presa a noleggio, ma la cosa più veloce sarebbe stata quella di pigliare un taxi.
«How far is Baarìa from the Air Terminal?»
«Circa 15 miglia» risposi. Chiese se disponevamo di una carta stradale, e in quel caso inviargliela presso la sua sede amministrativa. Dopo aver fatto richiesta del suo indirizzo, diedi conferma dell’immediato inoltro. Soddisfatto del servizio ottenuto mi chiese con chi aveva avuto a che fare. Risposi che ad aver accolto le sue richieste era stato Gianni D’Amico.
«What did you say!!» rispose con tono stupito.
«Yes!, you have been speaking to Gianni D’Amico!»
«Are you meaning that your family name is Di-ei-em-ai-si-o?!»
«That’s for sure, Sir!!» esclamai, dando conferma di quanto detto.
«I’m Gianni D’Amico as well!» disse lui ridendo di gusto.
La conversazione si prolungò per ancora pochi minuti, indi mi chiese se avessi potuto attendere ancora mezz’ora e saremmo andati a consumare il lunch insieme. Accettai, e lo attesi passeggiando sui larghi marciapiedi della Michigan
Ave., là all’ingresso del Wrigley Building, sede dei magnati del chewing gum, per chi conosce Chicago. E nel rispetto dell’orario fissatomi giunse in loco alla guida di una Ferrari Testarossa.



Cinquantenne, (?) alto, fisico asciutto, affettato, ma cordiale. Dopo una calorosa stretta di mano, mi condusse in un popolato locale e ordinò due pepati Nottingham. Nel rendermi partecipe che era un imprenditore dell’industria dolciaria, aggiunse che lo scopo della sua partenza per Palermo era quello di fare rivedere Bagheria all’anziana madre; non esitando un solo istante ad estendere anche a me l’invito al party, il quale si sarebbe tenuto in onore dell’ottuagenaria signora il weekend a venire. Apprezzai quest’altro invito mostrando la mia gratitudine. E poiché abitava a Winnetka, mi diede garanzia che qualcuno sarebbe venuto ad incontrarmi. Abbigliamento casual, mi aveva raccomandato.
Era fine maggio, la temperatura oscillava fra gli 85 e i 90 Fahrenheit, e il consistente tasso di umidità prodotto dalle acque del lago, rendeva il respiro soffocante e greve. Ma era questo il clima estivo di Chicago. Decisi d’indossare pantaloni in cotone bianco, camicia e mocassini, ma senza calze.
L’appuntamento con chi sarebbe venuto ad incontrarmi era stato fissato, ad una certa ora, accanto al Sweet Water Restaurant and Bar, sulla North Rush Street, laddove al decimo piano avevo trovato un confortevole appartamento meublé.
Quando in fondo a quella strada deserta, vidi profilarsi un’auto rossa. La stessa che due giorni prima era stata guidata da Mr. John D’Amico.
Questa volta, però, il conducente era di sesso femminile. Indossava una canottiera bianca, (reggiseno-esente) con su stampigliato “sex therapy”, ero così imbarazzato che non sapevo dove posare gli occhi, concentrandomi – con scarso successo – a distogliere il mio sguardo dal suo procace davanzale.
«My name is Kelly! Nice to meet you, Gianni.» disse lei lasciando il posto di guida, ed eseguendo un gesto con la mano che stava ad indicare: a te il volante.
«Nice to meet Kelly.» Risposi io ricollegando quel “No problem” detto da Mr. D’Amico, allorquando sulla Michigan Avenue, complimentandomi di quel gioiello di macchina, avevo esclamato “non ho mai guidato una Ferrari!”
Non ero sprovveduto per quel tipo di guida, avevo già condotto delle macchine sportive, oltre 3.000 di cilindrata, ma ciò non tolse che l’adrenalina contenuta nel mio organismo, scatenasse una sì forte scarica ormonale da avere un quadro esatto di quel corpo femminile totalmente nudo. Una Ferrari è sicuramente una Ferrari, ragazzi!! E le “cose belle” sono fatte per essere ammirate…
La velocità massima consentita sull’autostrada era di 65 miglia/h, si rese semplice mantenere mansueto quel “cavallino rampante”, La sua progressione era veramente straordinaria, e inserire le merce sembrava di stare su di un aereo, vista la tecnologia del cambio di cui era provvista. Mi ha dato l’impressione di essere in pista con un motore alle spalle. Non lo nascondo, ma in quei momenti percepii il mio ego gongolare.


Winnetka, distante 80 Km, con le sue Ville da milioni di Dollari, era lì ad attenderci. Johnny era in piedi accanto a sua madre. Diedi un saluto generale agli ospiti, e mi accostai all’anziana donna dandole un bacio.
«Queste sono per lei.» dissi, porgendole un fascio di rose rosse.
«Tu poi parrari cu’ mmia madri in sicilianu.» Disse il figlio americanizzando la pronuncia di quella frase. Mentre mi ero accorto che della lingua siciliana, Kelly ne biascicava quanto io di quella finnica: pressoché zero.
Fra una portata e l’altra di quel pantagruelico buffet, l’anziana donna mi parlò tanto della sua infanzia. Ma ciò che maggiormente mi colpì, fu nel sentirle dire:
«’Ntrà sta terra, figghiu miu, nun è facili truvàri la filicità e quannu la trovi nun havi prezzu!» (In questa terra, figlio mio, non è facile trovare la felicità, e quando la trovi non ha prezzo. N.d.A.) Come d’altronde nel corso del party mi aveva esternato la stessa Kelly.
La ragazza poteva avere fra i 25 e i 28 anni – era figlia unica di John e della sua seconda moglie. Mentre una coppia di gemelli, che senza sosta saltavano addosso al loro papà, erano gli ultimi eredi concepiti da Johnny con la sua terza moglie, che non ebbi occasione d’incontrare.
Alcune ore dopo, al calar del sole, accompagnato da Kelly per i campi da golf, ebbi modo di osservare le ricchezze di quella famiglia, e feci un raffronto con la
Villa di JR, personaggio dalla lunga serie – soap opera – Dallas, dall’elevato share televisivo, deducendone che la residenza di Mr. D’Amico, nascosta fra una fitta vegetazione di salici piangenti e sequoia secolari, edificata ai bordi di un lago, e incorniciata da una autentica pista da formula uno, non aveva nulla da invidiare a molte altre Ville, i cui proprietari risultavano essere Stars Holliwoodiane. E li, soppesando le parole della longeva donna, mi resi conto quanto l’America fosse davvero la terra delle opportunità.
Nel frattempo, al disopra dei lampioni che illuminavano quello sfarzoso ambiente, era calata la sera.
Erano circa le due del mattino, quando il lungo intrattenimento celebrato in onore della signora Rita, vivacizzato da ricche libagione di ottimi vini d’annata, ma soprattutto dall’esibirsi del noto cantautore Paul Anka, volse alla fine.
«Se vuoi fermarti a dormire qui puoi farlo, non sussistono problemi, abbiamo alcune camere riservate ai nostri ospiti.» disse Kelly «altrimenti Papà ti farà accompagnare a casa tua da qualcuno». Colto un po’ dal plausibile imbarazzo, devo pur ammetterlo, scelsi la seconda proposta. Circa un’ora dopo ero letto fra le braccia di Morfeo.
Nel corso di quel triennio ci siamo rivisti altre volte, sia con Johnny e la signora Rita che con Kelly. Difatti era stata proprio lei ad avermi invitato a visitare le Cascate del Niagara, e per deduzione la breve sosta a Cincinnati per rendere visita all’Avvocato Pitcairn. Argomento, questo, trattato nel mio primo racconto, se bene ricordate.
* * *


“Le onde emotive spengono l’intelligenza.” È così che, quand’è necessario, lo scrittore Salvatore Parlagreco porta a termine un suo capitolo. In effetti, non fu facile dare un colpo di spugna e cancellare dalla mia mente l’incontro avuto con quella famiglia, soprattutto con Kelly, ragazza da non sottovalutare anche per il suo quoziente intellettivo. Continuare a restare inerte era qualcosa che mi faceva sentire sul serio senza cervello. Ma l’occasione per dimostrare ai D’Amico le virtù cavalleresche di colui che scrive, non tardò a presentarsi.
Una mattina di piena estate i cartelloni pubblicitari, sparsi per l’intera Chicago, propagandavano in maniera martellante una campagna promozionale a favore di un’associazione medico-scientifica, la quale si occupava della ricerca e la cura della distrofia muscolare, che inesorabilmente colpiva alcuni bambini dello Stato dell’Illinois. Sponsor Ufficiale, una grande Star di Hollywood: tale Kirk Douglas. Per raggranellare un bel po’ di Dollari da devolvere a codesta associazione, era stata avviata una sottoscrizione, a numero chiuso, per partecipanti ad una gara di ballo dalla durata “no stop” di 30 ore; i cui costi per coppie, particolarmente selezionate, erano accessibili ad una certa Élite.
Mentre per un pubblico, anche questo, di un certo fior fiore il biglietto d’ingresso costava 100 Dollari procapite. Considerato che una cena in un buon ristorante era poco inferiore, la suddetta cifra lasciava un po’ riflettere. Ma Mr. Douglas contava sulla qualità più che la quantità. Non ci pensai più di tanto e deliberai l’acquisto di un paio di biglietti (con tariffa al pubblico) votando Kelly come mia partner, ciò ponderato decisi di sentirla per sapere i suoi impegni presi per quel fine settimana otto giorni a venire. In quello stesso istante squillò il telefono e, per un fattore prettamente telepatico, me la sono trovata dall’altro capo del filo.
Lei venuta a conoscenza dell’anzidetta iniziativa, ed essendo distante dal luogo laddove veniva effettuata la vendita dei biglietti, mi esortava a prenotare due posti a nome D’Amico, con il corrispettivo acquisto dei biglietti, s’intende.
«Cerca di far presto,» mi raccomandò «poiché non sarà facile poter avere accesso a questo incontro istituito a scopo di beneficenza; soprattutto se lo sponsor, come dicono, sia davvero Kirk Douglas. Purtroppo papà è anche fuori sede, altrimenti gliel’avrei passato a lui la patata bollente. Come tu sai in questi casi influisce molto la persona e la carica che riveste.»
«Mi stavo dando da fare, poiché avrei il piacere d’incontrare una persona molto influente.» dissi io.
«Hai trovato una partner!?» interloquì lei.
«Sì, una certa Kelly, titolare di un negozio di abbigliamenti, figlia di un ricco imprenditore dalla megagalattica Villa posseduta a Winnetka». Proruppe in una risata. Facendo leva sulle quattro iniziali I.G.T.B. senza alcun se né ma, ottenni i due biglietti.


Kelly, alta 1,76 proprietaria di una Boutique di pregiati capi femminili, con sede nel lussuoso John Hancock Center, sapeva dare gli opportuni suggerimenti sul come saper vestire. Ma chi, quella sera, le aveva consigliato di vestire in quella maniera destinata a pochi!!
Indossava un completo femminile nude look, colore ecru, cucitole addosso, talmente attillato da mettere in risalto le sue forme mozzafiato. Era raro che io potessi guardare gli occhi di una donna a livello dei miei, ma in questo particolare caso dovetti alzarli di alcuni centimetri.
Entrammo in un vasto salone addobbato a festa. Circa un centinaio, o poco più, di coppie, che dietro la maestria di un giovane DJ, si cimentavano già in quell’arduo tour de force.
«What do you like to drink!» le chiesi, dirigendoci verso il bar.
«Martini and Jin for me, what about you!» ho sempre detestato il Jin, sentivo dire che era un gran calcio di mulo inferto ai reni. Optai per una bibita rinfrescante, un long drink, lo storico Bellini, al quale si associò anche lei, e con i bicchieri in mano, tintinnanti di ghiaccio, ci avviammo in zona DJ, che proprio in quegli attimi intonava “Somewhere over the rainbow”.
Non vi furono occhi che non “accarezzassero” le rotondità di Kelly... Ed io, ancor più di lei, ne andai in brodo di giuggiole.
Fu da lì che, indirizzando i nostri sguardi infondo al vasto salone, intravedemmo
un uomo in abiti da Imperatore Romano, il quale sdraiato su dei grandi cuscini in una sorta di triclinio, era attorniato da una dozzina di belle donne negli abiti da Vestali. Nella parete alle sue spalle un gigantesco arazzo, narrava un’impresa eroica di Enea che, rimasto ferito da una freccia, era sorretto dal figlio Ascanio. Sebbene il suddetto arazzo fosse di dubbia fattura, aveva la presunzione di adornare quel locale esattamente come in una scena teatrale.
«In qualche maniera si dovrebbe far vivo la sponsor!» disse Kelly in un discreto italiano. Ma con scarso self control nel non aver saputo mascherare la frenesia d’incontrare la star del cinema, che nonostante avesse avuto l’occasione non aveva saputo distinguerla nel costume di Cesare.
«Stammi accanto, presto ti presenterò una persona amica» dissi io, fuorviandola dal presentarle Kirk Douglas negli abiti imperiali di Numa Pompilio.
Provammo a varcare un’area recintata da un cordone, ai fini di avere un contatto più ravvicinato con l’amico Kirk. Quando un uomo, più largo che alto, ci sbarrò il passo, dicendo:
«Sorry Sir and Meam, no body is admitted in this area.» non prestai attenzione su ciò che gli rispose Kelly, ma udii la risposta del bodyguard:
«No, I can’t!» Lo pregai se poteva passare una mia ambasciata a Mr. Douglas. Accondiscese. Avvicinando la mia bocca al suo orecchio, gli spiegai che ero un suo amico proveniente da Palermo. Aggiungendo “The Leopard”. Il titolo del film lo avrebbe ricollegato al mio nome. Kelly mi chiese che cosa avevo bisbigliato all’orecchio di quell’uomo. Le risposi che presto l’avrebbe saputo.



Intravidi, fra le tante teste delle coppie danzanti, il colossale portavoce chinarsi sull’attore sponsor sussurrargli poche parole all’orecchio, e nel contempo puntare un dito nella nostra direzione che, essendoci mossi, non fu più in grado di identificarci. A quel punto vidi Kirk levarsi dal suo assetto da Imperatore e rivoltosi in direzione della platea urlò:
«Hi “Giani” where’re youuu!!!!!» e frattanto con un semplice gesto eseguito con due dita, comunicò al DJ di sfumare il volume della musica. Un po’ intimidito alzai il braccio per aiutarlo a focalizzare la mia posizione.
Rapita nello spirito, Kelly, fissava attonita quell’immagine. Quando il cordone che circoscriveva quell’area riservata venne fatto calare e avemmo modo di andargli incontro.
Quella sgomitata cordiale inflittami sul fianco, seguita dalla V con due dita dalle unghie smaltate, non proveniva di sicuro dal mio angelo custode... Raggiunto il triclinio tesi festoso la mano per la robusta stretta, e le presentai la mia amica, dicendo:
«Kelly D’Amico».
Lui, invece, allungando lo sguardo verso gli astanti, mi presentò in questa intraprendente maniera:
«Ladies and Gentlemen, this is “Jani Di amico”, Sicilian great friend of mine, descendent from the Gattopardo’s Family. And this is Kelly, his wife».
Era comprensibile che, per causa dello stesso cognome, nascesse il malinteso, in questo caso avrei dovuto omettere il cognome, e dire soltanto Kelly; se avessi agito in questa maniera, forse, non l’avrei indotto a cadere nell’equivoco. Cioè quello d’aver detto: “e questa è sua moglie.” Non sono in grado di saper descrivere quel genere di acclamazioni dirette a noi. Ma furono torrenziali, interminabili, calorosi. E dando il via alla danza, mi diede una gran pacca sulla spalla e parlò dicendo:
«Welcome to Chicago, Sir!!» Quelle stesse parole che avevo pronunciato io nei riguardi di un turista americano, 16 anni dopo una grande Star del cinema, le espresse nei confronti di colui che oggi lo narra.
Si baciò con Kelly, la quale dal dì che era certa di assistere al singolare evento, non stava più dentro la sua pelle. Quel “beauuutiful” udito, sussurrato da alcune “vestali”, non era sicuramente diretto a me…



Epilogo
La cerimonia riguardante l’assegnazione dei premi, alle tre coppie vincitrici la gara, ebbe luogo il sabato a notte fonda. Dopo di ciò Mr. Douglas invitò a cena un ristretto gruppo di collaboratori. Kelly ed io, – se pur non facendo parte di quel ”Cast” – venimmo parimenti invitati.
Fu ardua la risolutezza di Kelly, che volendo sostenere d’essere mia moglie, inserì una fedina nuziale al suo anulare sinistro, correndo il rischio di essere comunque riconosciuta nella titolare della boutique “Kelly’s Fashion” ma lei mi diede garanzia che raramente si occupava delle PR, bensì era dedita, più che altro, alle sfilate, alla scelta dei capi da indossare, e al settore amministrativo.
Venuta a conoscenza del costo dei biglietti, mi assicurò che se fossero stati distribuiti allo stesso prezzo di quelli venduti ai partecipanti alla gara, cioè 500$, quelle persone privilegiate che ebbero accesso a quello speciale convegno, si sarebbero sottoposti non importa a quale salasso, pur di stringere la mano a Mr. Douglas.
«Correndo il rischio» dissi io «di trasformare questo gesto di beneficenza in un caso parecchio speculativo.» ma lei mi smentì dicendo che: quando le due squadre di basket Chicago Bull e New York Knicks, rivali per antonomasia, disputavano la finalissima, i prezzi dei biglietti di tribuna salivano ignobilmente alle stelle. Le feci osservare che gli incassi di quegli incontri agonistici, raramente venivano devoluti ad opere di beneficenza, da non poter fare, perciò, un termine di paragone. In un certo modo ne convenne, considerando quest’altro caso un’autentica alienazione.
«This is my America!» esclamò, stringendosi nelle spalle.
Tenendo i suoi occhi incollati ai miei, espresse la sua gratitudine e baciandomi furtivamente sulle labbra, ribatté:
«It's better to live one day as a lion, than a thousand years as a lamb».
(E’ meglio vivere un giorno da leone, che mille anni da agnello.)
La vidi deglutire asciutto. Ebbi l’impressione che stesse per reprimere qualche luccicone, indi aggiunse:
«It’s very sad being alone! “Gratsi” Gianni! I’ve lived a day as a lion!»
Vidi un sorriso malinconico apparire sulle sue labbra e i suoi occhi gonfiarsi di lacrime. Ma non seppi mai per quali sensazioni.
Ad maiora!!
Gianni D’Amico.

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Le interessa sapere la quotazione?

Trovandoci per lavoro o semplicemente per vacanza in una qualsiasi città della Finlandia, Helsinki a titolo d’esempio, ed osservando una vetrina che espone dei fiori, è facile intuire che quell’attività commerciale è di pertinenza di un fioraio.
Ma se la saracinesca del medesimo negozio è abbassata e in alto ad essa si legge “Kukkakauppias ” vi sembrerà ancora facile ed intuitivo capire

che si tratti di un fioraio? Temo proprio di no!
Diverso se girovaghiamo per Londra, Parigi o Madrid dove, leggendo rispettivamente “Florist, Fleuriste, Fiorista”, ci renderemo subito conto che proprio lì vi è il negozio che stiamo cercando, ed entreremo per effettuare i nostri acquisti. Chi più o chi meno, ognuno di noi mastica qualche parola della lingua di Shakespeare che, arricchita dalla nostra tutta mediterranea capacità mimica, ci lascia portare a buon fine questi ed altri ben più difficili casi.
Fin qui la cosa è semplice!
Ma proviamo ad andare in vacanza in Asia, in Giappone nel caso nostro, dove attratti dalle artistiche “Ikebane” cercheremo la giusta descrizione in un display a luce stroboscopica, che ci mostrerà degli originali ghirigori.
Noi non saremo mai in grado di poter definire il loro significato, ma per chi ha una minima infarinatura della scrittura “Hiragana” capirà che quelle quattro sillabe stanno per “i-ke-ba-na”.
L’idioma nipponico non è caratterizzato né da lettere maiuscole né minuscole, e da nessun tipo di punteggiatura.
Questa una delle tante ragioni per cui noi occidentali non riusciamo ad imparare la loro lingua, poiché non sappiamo dove ha inizio e dove ha termine la parola. Chi scrive, avendo risieduto tre anni in Giappone, è riuscito – grazie ai Frati Francescani di Roppongi nota area residenziale della città – ad imparare a leggere e scrivere i due tipi di scrittura Hiragana e Katakana, ma Dio mi protegga d’imbattermi nei Kanji, ovvero la scrittura a ideogrammi, alla presenza della quale ogni mio sforzo di comprensione risulta assolutamente vano.

Tuttavia, vi posso garantire che con quelle poche ore di presenza fra i banchi son riuscito a far mia una conoscenza del giapponese da “sopravvivenza” certamente integrata dalla più diffusa lingua inglese capita e parlata da ogni generazione post bellica.
Malgrado ciò, fra una signora di nazionalità indiana e colui che scrive, parlanti entrambi un fluido inglese, accadde qualcosa da rasentare l’assurdo.
Quando quel primo aprile del ’90, misi piede in terra nipponica, passeggiando per Akasaka-mitsuke, conosciuta area commerciale di Tokyo, venni attratto da qualcosa d’insolito: svariate centinaia di persone, prevalentemente giovani donne, venivano fuori dall’ingresso di un grande edificio.
Chiesi al mio accompagnatore, residente in città già da diversi anni, se nella parte retrostante l’immobile vi fosse uno stadio o un teatro ed in caso se avesse avuto luogo un incontro di calcio o la fine di un concerto, oppure un eccezionale avvenimento agonistico tanto da giustificare la presenza di una sì vasta platea.
«Macché!!» rispose Questi con indifferenza, «stanno per uscire 3.000 impiegati dai loro uffici, e avrai modo di osservare che in pochi minuti verranno inghiottiti dalla vicina Stazione Metro».
E così accadde.
È inconcepibile per noi occidentali, farsi un’idea di come è ben organizzato quel popolo. Per fare un esempio Roma conta circa tre milioni di abitanti. Per pagare la bolletta del gas, o dell’elettricità, oppure ritirare la propria pensione presso un ufficio postale modernamente strutturato, bene che vada occorrono in media trenta minuti.
Volendo, ora, fare un confronto con Tokyo, che nei giorni lavorativi conta circa 30 milioni di presenze, sarebbero state inevitabili ben dieci ore di lunga attesa, accompagnati dagli abusati vituperi all’indirizzo dei soliti governanti inetti ed incapaci, buoni a prendere e mai a garantire soddisfacenti servizi ai puntuali contribuenti bla, bla, bla…
Invece questo non accade: poiché in soli cinque minuti l’utente è in grado di ricevere il servizio con piena soddisfazione.
Dopo circa un mese di vita da single, – che mi permise di fare visita agli alti funzionari delle Istituzioni Italiane: Sede Diplomatica della Repubblica Italiana, Nunziatura Apostolica, Compagnia aerea di Bandiera, Istituto di Cultura, I.C.E., e Camera di Commercio, – giunse mia moglie.
Da tener conto che nell’attesa della sua venuta, avevo preso contatti con delle agenzie immobiliari, per poter trovare un alloggio confortevole e non molto distante dal posto di lavoro.
Il dì successivo demmo inizio alla visita di alcuni appartamenti presenti nei cataloghi che le agenzie immobiliari misero a nostra disposizione.
Indescrivibile era la delusione allorquando vedevamo e toccavamo con mano. Andammo in giro per un paio di settimane raccogliendo molte delusioni e pochissime occasioni concrete. Ardua più del previsto si era presentata la nostra impresa, tanto da rassegnarci a trascorrere quei cinque anni in uno scomodo residence, senza i nostri mobili e con spazi meno che limitati: angusti.
Pur nondimeno, affidatici ad un altro “Real-Estate” trovammo un appartamento per Occidentali, sito a Roppongi, per il quale la richiesta del canone mensile era pari a ¥ 620.000. Volendo effettuare il cambio in Lire Italiane, l’Ufficio dei Cambi di Milano, proprio quel giorno, quotava lo Yen 10 a 1 ovvero 10 lire per 1 yen. Penso che non sia, proprio, il caso d’importunare Pico della Mirandola per fare il giusto cambio con la nostra valuta, bastava aggiungere uno zero. Mentre per il deposito cauzionale (non fruttifero) da versare al momento dell’accettazione del contratto, venivano richieste 6 mensilità, pari a 3.720.000 Yen. Anche in questo caso, per commutare la cifra in Lire, è di dovere aggiungere uno zero. Mi resi conto che il costo della vita in quella grande città, era decuplicato rispetto a quello di Roma. Mi gelò il sangue.
E come una delle statue del Buonarroti che adornano la Cappella Medicea, divenni anch’io di sasso.
La conferma l’avemmo allorquando ci recammo da Kinokunia, grandi Supermercati Alimentari. Un limone dalle dimensioni poco inferiore ad un comune uovo di gallina, costava 500 ¥, pari a Lit. 5.000, e così dicasi per una nespola, frutti che venivano custoditi dentro delle scatole tipo “Baci Perugina” e commercializzati in confezioni da sei unità al costo di 3.000 ¥. Ma ci pensate! Sei nespole 30.000 Lire.
Mentre un cantalupo, il classico meloncino di serra che lì viene coltivato il verticale, lasciandolo maturare su di un apposito piedistallo, il cartellino con su scritto “tokubaihin”, equivalente alla nostra “offerta speciale”, indicava “soli” 14.000 ¥,. Il prezzo imposto all’origine, annullato con un pennarello rosso, dichiarava a chiare cifre: 32.000 Yen.
Non sono frottole, credetemi!
Custodisco ancora alcune foto a testimonianza documentale.
Che dire poi!! (e lì mi fermo) Un chilogrammo di carne di vitello,– prodotta dai loro allevamenti con foraggi particolari, abbeverati con birra e sottoposti a massaggi quotidiani per rendere le carni maggiormente tenere – veniva a costare 80.000 Yen per Kg., equivalenti a Lit 800.000. Un’autentica follia! E ricordo, a proposito, che una “Steakhouse” americana, mandava in onda i prezzi a dettaglio, dando garanzia, che le loro entrecote alla brace, attenzione!, ho detto entrecote e non T-bonsteak, erano proposte a partire da 16.000 ¥, equivalenti alle nostre 160.000 Lire. Per consumare una cena a lume di candela, e senza vini d’annata, occorrevano dalle 70.000 alle 80.000 Yen procapite.
Semplicemente allucinante!!
A questo punto il lettore si chiederà a quanto ammontasse la retribuzione mensile del giapponese classe media. Medio-bassa, è proprio il caso dire, e mai sufficiente da poter consentire la frequentazione di quel tipo di negozi. Ma viene spontaneo formulare una seconda domanda: chi, allora, accostava quei banchi, laddove le merci esposte mostravano prezzi pari quelli del più prezioso dei metalli! I “gaizin-san”, noi signori stranieri, soprattutto gli Yankee, che all’estero percepivamo degli stipendi da favola, tanto che un amico, un certo Pompilio, mi suggerì di “non far sapere a nessuno circa le nostre spettanze all’estero, poiché i soldi fanno invidia.” Ma presto scoprii, senza alcuno stupore, che l’invidioso era soltanto lui. Ed è il caso dire: “dagli amici mi guardi Iddio…!!”
Nonostante il Giappone mi sia sembrato d’acchito un altro mondo, feci presto ad ambientarmi, e di questo devo esserne grato alle mie colleghe: Mitsuko san
Aiko san, Kiyoko san, Mitsumi san, e Sayuri san, la meno giovane, quest’ultima, quella che mi preparava i discorsi introduttivi nella lingua del luogo, anche se dopo un po’ fra gli applausi, preferivo proseguire con quella inglese.

Fu la stessa Sayuri san che nel suo discorso di commiato, tenuto in presenza di centinaia di Operatori Turistici si emozionò talmente da tirare fuori il foglietto dalla tasca per seguire la bozza della falsa riga da me preparatale in lingua italiana. Il tempestivo intervento di Maria Teresa Ruta, madrina dell’evento, in un fluente inglese, salvò il buon esito della serata.
A fronte di ciò, nemmeno delle altre impiegate posso dire male, badiamo! Quelle di cui non ho indicato i nomi, si occupavano di altre manifestazioni ed io, semplicemente, avevo minori rapporti di lavoro quotidiani.
Al contrario ci sarebbe tanto da dire di una ragazza di rara bellezza di nome Yoshiko che, amante della storia del nostro paese, prediligeva farsi chiamare Massimiliana.

Della stessa spero di parlarne in un mio prossimo racconto.

Da Gonshiro san, l’unico uomo del nostro Staff, imparai a programmare, mettere in opera, e portare a temine i vari work-shop e seminari; quest’ultimi realizzati a fini propedeutici per giovani Carriers, Tour Operators e Travel Agents. Dandomi, così, l’opportunità di conoscere “l’Isola Felice” dall’Hokkaido al Kyushu. Viaggiare in “shinkansen”, un serpentone lungo oltre 400 metri che fila a 360 km. orari, sono emozioni da non lasciarsi sfuggire. Che dire, poi, del sevizio di bordo!! Chiedetelo a WikipediA, vi saprà dire qualcosa in più…
Purtroppo, come mi era stato paventato da un alto funzionario della Sede Centrale, assai consistente si rilevò l’incompatibilità fra colui che scrive e il proprio dirigente, con il quale più di una volta venimmo ai ferri corti.
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Era divenuta consuetudine, tutte le domeniche mattina, incontrare la comunità italiana al mercatino rionale di Omotesando. Una sorta di Papireto, per coloro i quali conoscono Palermo.
Paragonarlo a “Le marché aux puces” sottovaluteremmo i cugini francesi.
Tuttavia si trovavano degli oggetti carini, i cui costi erano ragionevolmente accessibili. Soltanto a noi italiani, dopo avere udito l’importo, piaceva mercanteggiare spendendo qualche parola nella lingua locale sostenendo che il prezzo era costoso: “takai”, mentre gli altri stranieri, soprattutto gli americani, accettando di buon grado la tariffa del venditore, null’altro facevano che lasciare i costi immutati.
Ma il vecchietto giapponese pur di non fare andar via il cliente, e lasciare il certo per l’incerto, dimezzava la sua tariffa iniziale facendo buona l’offerta dell’acquirente italiano.
Il caratteristico mercanteggiare dell’ebreo, che fa leva sull’enigmatica quanto produttiva massima: “pochi maledetti e subito”.
Avendo stretto amicizia con alcuni Frati Francescani, fui uno dei primi a venire a conoscenza che la domenica successiva – presso alcune sale del loro Istituto – avrebbe avuto luogo la consueta vendita annuale, a scopo di beneficienza, nella quale veniva esposto tutto ciò che i religiosi ricevevano in donazione. Stare ad elencare le varie suppellettili, oggetti d’ogni epoca e bizzarre paccottiglie che traboccavano dai bislunghi tavoli habillé, allungheremmo il racconto a dismisura rendendolo altresì tedioso.
La sopraindicata vendita veniva organizzata in modo da dar certezza della massima trasparenza affinché non si pensasse che il fine ultimo fosse il lucro; difatti ogni articolo là esposto portava un numero, e di logica catalogato.
Il visitatore, potenziale cliente, amante di un determinato oggetto lo quotava per una cifra quanto più adeguata; ciò ponderato inseriva il denaro in una busta recante lo stesso numero del bene scelto e, quindi, dopo averla sigillata la porgeva all’hostess responsabile di quel delimitato settore.

Questa senza neppure toccarla la faceva introdurre, dallo stesso acquirente, in una cassetta chiusa con un lucchetto di sicurezza.
In sostanza gli oggetti venivano acquistati da persone fisiche le quali, con illimitata certezza, rimanevano nell’anonimato.
«Le porte dei saloni verranno aperte alle ore 08.30, voi cercate d’arrivare qualche minuto prima, in maniera d’essere fra i primi a fare la vostra scelta.» ci suggerì l’anziano frate.
Proprio quei giorni avevamo ospiti una coppia di amici provenienti da Roma, persone facoltose e politicamente influenzate, i quali attratti da questa opportunità, non esitarono un solo istante ad aggregarsi a noi.
In effetti eravamo stati tra i primi a varcare la soglia di quel primo salone bazar, ma in previsione di un grande afflusso di gente interessata, ci demmo appuntamento sotto un lampione, fuori nel cortile con il fatidico “chi arriva primo aspetta”. Entrammo eseguendo un giro di orientamento e mettendo le mani dappertutto. Contrariamente ai nostri amici, che iniziarono a riempire un cestello di cosine interessanti, Maria Adelaide ed io eravamo nell’eterna indecisione, e più insistevo nel dire questo è carino, meno lei mi dava ascolto. Quando ad un tratto ci arrestammo davanti ad un piccolo “screen” composto da sei pannelli, dalle dimensioni approssimative di cm. 70x30.
Dopo averlo steso su di un tavolo a parte, ne osservammo con vivo interesse i vari motivi dipinti su seta.
«Siete italiani?» chiese la giovane assistente con eccellente pronunzia.
«Sì! Che lo siamo.» rispose mia moglie.
«Questo è un pezzo molto antico, veniva usato come séparé da persone di un certo rango, lo si poneva in camera da letto, fra i due “tatami”, utile a creare quel clima di ritegno fra i coniugi».
Il concetto accese in me non poco stupore: ma come!, mi chiesi, prima fanno l’amore mettendo in pratica le varie posizione del kamasutra, e al momento di prender sonno tutelano la loro privacy!! Dal mio “background” culturale non riuscivo ad estrarre una valida spiegazione!!.
Oltre ad illustraci i soggetti dipinti ad inchiostri di China, raffiguranti le più belle e artistiche figure, non seppe, o non volle, dire altro.
Essendo rimasti attratti da quel capolavoro decidemmo di fare un’offerta congrua, equa, in misura da apparire corretti, e ciò ponderato inserimmo nella busta una cifra ragguardevole. Indi mentre l’assistente avvolgeva quell’oggetto disse:
«Siete stati molto saggi nell’essere arrivati fra i primi, sarebbe stato un crimine mettere questo oggetto in mano a degli antiquari» tacque alcuni secondi e mentre ci aiutava ad inserire la busta dentro la cassetta, aggiunse:
«Se tornando in Italia decideste di venderlo, ricaverete senz’altro tanti di quei soldi da comprarvi un’auto nuova.»

Prendemmo la dichiarazione con il solito beneficio dell’inventario, ed accompagnati dai suoi profondi e teatrali inchini ci congedammo soddisfatti.
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Era ancora presto per andare a pranzo. Decidemmo di fare quattro passi in direzione Omotesando, quartiere altamente residenziale.
Passeggiando lungo la Aoyama-dori,
i nostri amici ci indicarono un edificio di quattro piani, largo non più di cinque metri, incastonato fra due alte torri.
Al piano terreno, un negozietto di raffinate porcellane “Imari,” sembrava la meta di una moltitudine di turisti di ogni nazionalità.
Mentre le nostre mogli pensavano in quale paralume investire una cifra esorbitante, Felice ed io attraversammo il largo Viale, andando a dare una sguardo a delle belle auto esposte in un salone.
Avendo così visuale completa dello stretto palazzotto, i miei occhi si posarono all’ultimo piano del bizzarro edificio. Una grande finestra in alluminio anodizzato, spinta dal venticello di levante, fluttuava sbilenca agganciata all’unica cerniera inchiavardata al battente.
Focalizzai bene la cosa, e mi accorsi dell’incombente pericolo che sovrastava sulla testa dei passanti.
«Guarda là in alto.» dissi a Felice.
«Cazzo!!» esclamò lui, indietreggiando di alcuni passi, pur costatando d’esser fuori dal percepibile pericolo. «Secondo me sarebbe il caso di avvertire le forze dell’ordine!»
«Anche secondo me!» risposi io, allungando lo sguardo verso il crocevia fra la Aoyama e Omotesando, snodo in cui erano onnipresenti un paio di poliziotti. Difatti non distante da lì notai la loro auto di sevizio.
In mezzo ad una marea di teste lucide e nere, una mano che indossava un guanto bianco lungo quanto tutto l’avambraccio, dava l’impressione che proprio in quel punto assai congestionato, stesse dirigendo un’orchestra anziché il traffico stradale.
Gli andai quanto più vicino potei, e con l’indice gli feci segno d’ascoltarmi. Assentì.
Pochi secondi dopo, sostituito dal collega, mi fu accanto porgendomi un saluto in lingua locale, e risposto al saluto, lo interrogai:
«anatawa eigo ga wakari masu ka?» (parli l’inglese?) Incrociò gli avambracci a mo di croce di Sant’Andrea dicendo:
«sukosì dake!» (solo un poco) e facendogli cenno di seguirmi, da debita distanza gli indicai l’imminente pericolo, mi accorsi che non stava focalizzando il punto da me indicato e lo invitai ad alzare lo sguardo poco più in alto.
Quando ad un tratto resosi conto dell’imminente pericolo, esclamò:
«So desu kaaa!!!» (ma è così!) corse verso la sua auto e impugnando il megafono intimò lo sgombero di tutti i presenti, ed il divieto di uscire dai negozi a tutti coloro che si trovavano al loro interno.
Furono in molti a chiedersi se vi era in atto una rapina o un attentato terroristico, oppure uno spot pubblicitario.
I vigili del fuoco chiamati ad intervenire, furono tempestivamente sul luogo. E posizionata la scala all’altezza giusta sganciarono la finestra. Pochi minuti dopo tutto tornò alla “turistica” normalità.
A circa venti metri da dove sostavamo noi quattro, notai il “mio poliziotto” parlare con un suo superiore, il quale mi accostò chiedendomi se parlassi la sua lingua, stavolta fu il mio turno di rispondere “sukosi dake”, ma l’ufficiale fu lesto a fare sfoggio del suo inglese oxfordiano e, invitandomi a seguirlo, mi condusse all’interno di un negozio.
E lì mi chiese da dove provenivo, se ero a Tokyo per vacanza oppure per motivi di lavoro, e in questo secondo caso fornirgli l’indirizzo e il numero di telefono del mio ufficio. Ci salutò con il solito inchino, e salito in macchina si dileguò nel il traffico urbano.
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Amanti della cucina speziata, dopo aver degustata quella coreana e cinese, i nostri ospiti espressero il desiderio di provare l’indiana Tandori o Moti Mahal, se preferiamo.
Eravamo stati un paio di mesi prima in India e pertanto aderimmo di buon grado alla proposta di tornare a quei piatti piccanti e allo stesso tempo delicati. Demmo una sbirciata alle pagine gialle e scegliemmo una delle tante “Curry House” indiane localizzate in zona di Shibuya, quartiere ad alta densità e, per certi versi, poco consigliabile, non dico malfamato, ma talmente caotico da far paura.
Chiamai il collega Gonshiro, esperta guida turistica, chiedendo un suo parere.
Questi mi garantì che il cibo era fra i migliori esistenti a Tokyo, come inappuntabile era il servizio. Nel suggerirci alcune specialità, concluse dicendo: “Sappiate che è d’obbligo la cravatta, e abbigliamento sobrio per le signore. Provate, ove possibile, di prenotare un tavolo sul roof garden, riservato ai VIP. Gonshiro san senza alcun se né ma, si era reso parecchio disponibile.
Mi attaccai al telefono, e dopo svariati tentativi, sentii una voce femminile dire: “mosimosi”, (l’equivalente al nostro pronto) mi presentai dicendo che eravamo due coppie di italiani, e chiesi di riservarci un tavolo per le ore 20,30 preferibilmente in alto, al giardino pensile.

La donna espresse il suo rammarico rendendo noto che i tavoli apparecchiati sul terrazzo erano tutti riservati.
A quel punto giocai la mia carta Jolly, dicendo che ero in missione di lavoro per lo Stato Italiano, occupandomi di turismo, e avevo con me degli ospiti provenienti da Roma, personalità della finanza imparentati con una figura governativa di altissimo livello. Mi lasciò attendere una manciata di secondi e poi mi diede conferma che, grazie ad una disdetta, si era reso disponibile un tavolo.
Il bersaglio era stato centrato senza che io avessi mentito.
Una bella donna con un vistoso “bindi” sulla fronte, ci venne incontro dandoci il benvenuto.
«Mi chiamo Damayanti» disse, eseguendo un inchino con il capo, e le mani giunte sul petto. Mentre con eleganti movenze ci conduceva ad un tavolo posizionato ad angolo dal quale potevamo godere una veduta eccezionale.
Al centro si esso, apparecchiato per quattro, era stata posta una mini confezione floreale di azalee e ramoscelli fioriti di ciliegio; mentre ad angolo, molto a vista, un cartoncino a mo di “V” capovolta recava scritto “damico san”.
Fu la stessa Damayanti a spostare le sedie accostate al tavolo, e far sì che le signore prendessero posto comodamente.
Si allontanò dandoci garanzia che presto due giovani cameriere si sarebbero occupate di noi.
Seguendo i suggerimenti datici da Gonshiro, demmo preferenza al “Chicken tandoori, paneer pakora biryanis, e cheese nans”. Piatti piccanti, ma per noi Italiani optò per in tipo “milde” da accompagnare con della birra indiana.
Durante lo svolgersi della deliziosa cena, notai qualcosa d’insolito: oltre ad essere serviti da una triade di belle ragazze, gli unici ad aver dei fiori a tavola eravamo noi, ma la cosa che più mi stupì era stata la presenza di quattro uomini dalle forme imponenti, in abito nero e occhiali scuri, disposti ai quattro angoli del terrazzo, uno dei quali – ad un paio di metri da dove sedevamo noi – provava a mimetizzasi dietro una gigantesca yucca fiorita.
Ebbi modo di alzarmi con un banale pretesto e andare a parlate con Damayanti, alla quale chiesi se quei quattro, “lottatori di sumo” fossero delle guardie del corpo alla difesa di chi, e per quale ipotizzabile pericolo.
«Per voi quattro, damico san, sono stata io a predisporre questo servizio considerato che il suo amico è un Capo di Governo.»
Rimasi frastornato. Nel breve dialogo telefonico intercorso fra me e la giunonica Damayanti, non si era affatto parlato di Capo di Governo, bensì di personalità dell’alta finanza, nonché parenti stretti di una figura governativa di altissimo livello. E non avevo mentito, come già fatto presente, poiché l’amico Felice, di nome e di fatti, oltre ad essere funzionario di una fra i più noti istituti di credito italiani, era ed è cugino diretto del IX Presidente della Repubblica Italiana.
Ma, piuttosto che svelare il malinteso a rischio chissà, di quale ipotizzabile incidente diplomatico, preferii lasciare le cose come si trovavano.
D’altronde era stato grazie a quel “qui pro quo”, che eravamo stati maggiormente bene accolti e particolarmente serviti.
Saldai il conto con la mia carta di credito, lasciando una lauta mancia dentro la stessa cartellina in pelle con la quale ci era stato presentato il conto, e senza lesinare sorrisi e ringraziamenti alla splendida Damayanti lasciammo il locale.
Il lunedì mattina, dopo aver accompagnato i nostri amici al City Terminal, tardai di un’ora il mio arrivo in ufficio. Trovai un messaggio sulla mia scrivania, in cui mi veniva fatto presente d’essere stato desiderato dalla Segreteria del Primo Cittadino. Non vi nascondo che la cosa mi mise in seria apprensione.
Mi tornarono alla memoria gli avvenimenti della sera precedente. Digitai quel numero telefonico trovato scritto sul foglietto chiedendo di Ichiro san.
Questi mi disse che il Sindaco aveva il piacere d’incontrarmi.
La notizia destò in me non poca meraviglia mista ad una più che giustificabile tensione. Cercavo di tranquillizzarmi convincendomi che, se ci fosse stato un qualche riferimento all’equivoco della sera precedente, non credo che il signor Sindaco, o chi per lui, avrebbe avuto tutto questo piacere d’incontrarmi.
«Per che ora, sono atteso!» chiesi.
«Anche fra mezz’ora, se fa in tempo.» Presi un taxi al volo, e un quarto d’ora dopo strinsi la mano a Ichiro san che subito mi introdusse al Sindaco. Quando varcai la soglia della stanza, il sindaco stesso, contrariamente a quanto il protocollo prescriveva, mi venne incontro con fare amichevole.
Si era ricordato di me, ed io di lui, per esserci incontrati un paio di volte in delle manifestazioni pubbliche.
Mi fece accomodare, e dopo i brevi convenevoli di rito, “noblesse oblige”, avviò il discorso dicendo:
«Sento il dovere di ringraziarla per quanto solerte sia stato ieri il suo intervento. Se non avesse fatto accorrere le forze dell’ordine nella Aoyama-dori, non avremmo potuto evitare la strage. Sottrarsi dal dovere di salvare una vita umana, nel nostro paese viene considerato il peggiore dei crimini, ma a volte assetati di sensazionalismo siamo disposti ad oltraggiare i principali valori della vita, se non la vita stessa. Lei, Damico san, ha dato ben altra prova ed io oggi ho l’onere di discuterne con lei»
Si dilungò ancora per alcuni minuti, complimentandosi delle nostre istituzioni che riescono a muovere, verso l’Italia, enormi masse di turisti giapponesi.
Manifestò grande interesse per la ricchezza storico-culturale del nostro Paese, dicendo che allo scadere del suo mandato avrebbe visitato Venezia, Firenze, Roma e Pompei. Poi chiamò la sua segreteria, ed eseguendo un lieve inchino mi porse la mano per la cordiale stretta.
Fuori la stanza vi era pronto un più unico che raro omaggio: una confezione di tre bottiglie di stravecchio “Koshu” (un distillato superiore al comune “Sake”) custodite in una cassetta di radica di legno Keiaky, del valore inestimabile.
Breve epilogo:
Realizzato un periodo di missione a Tokyo, – durato tre anni e non cinque come inizialmente programmato – nel viaggio di ritorno in Patria, effettuai uno scalo a Milano per fare una breve visita al “Japanese work of art.” Mi accolse una donna di mezza età di razza asiatica, e dopo un breve dialogo introduttivo, le mostrai quel piccolo “screen”. Lei, facendo impiego di una lente contafili, restò ad osservarlo con sguardo da intenditrice, infine espresse così il suo giudizio:
«Questo pezzo risale al periodo Edo, 1603-1868, ed è stato guazzato ad inchiostri su della carta particolarissima, incollata su teli di seta.
I gangheri e i chiodini che assemblano i telaietti sono stati fatti a mano, uno per uno. Come può osservare il dipinto non reca alcuna firma, ma non ho alcuna esitazione a confermarle che quest’Opera dalla caratteristica Arte Ukiyo-e, sia uscita dalle mani di Katsushika Hokusai, detto il Vecchio Pazzo per la pittura.
Soltanto lui ed Uiroshige, – entrambi maestri dalla natura – erano in grado d’interpretare questi lievi lineamenti che descrivono la nostalgia di un passato.»
Poi, dopo essersi ulteriormente accertata sul tipo di carta che foderava la parte posteriore dei pannelli, aggiunse:
«Le interessa sapere la quotazione!?»
«Lo apprezzerei, grazie!» risposi, anche se, in verità, era proprio questo il motivo principale per cui mi ero recato in quella bottega d’Arte.
«Se ha intenzione di venderla le offro 3.000.000 di ¥, oppure 30.000.000 di Lire. Come preferisce lei!»
Il suo dichiarato interesse m’indusse a cambiare idea.
Le porsi rispettosamente i saluti, dicendole che avremmo valutato la sua generosa offerta e che, in una nostra futura visita a Milano, non avremmo mancato di contattarla.
…Incorniciato come meglio non si poteva, raggiungendo la massima estensione in cm. 190x95, oggi adorna una parete del salone di casa nostra.
Devo ammettere con tutta lealtà che quel giorno alla Missione, la giovane hostess, nel proporci quell’Opera e nella stima del suo valore, aveva avuto ragione. Bisogna prenderne atto.
Con altrettanta lealtà, devo dirvi che la somma che fu offerta in busta chiusa per la consegna dell’oggetto, fu assolutamente commisurata al reale valore dello stesso.
Se così non avessimo fatto, oggi a distanza di molti anni, ne proverei ancora vergogna.
Ad maiora!


Gianni D’Amico
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Quest’opera dalla caratteristica Arte Ukiyo-e, è uscita dalle mani di Katsushika Hokusai, detto il Vecchio Pazzo per la pittura. Soltanto lui ed Uiroshige, entrambi maestri dalla natura, erano in grado d’interpretare questi lievi lineamenti che descrivono la nostalgia di un passato. (Periodo Edo).
Ai mie amici che possano ammirala.