venerdì 28 maggio 2010

Le interessa sapere la quotazione?

Trovandoci per lavoro o semplicemente per vacanza in una qualsiasi città della Finlandia, Helsinki a titolo d’esempio, ed osservando una vetrina che espone dei fiori, è facile intuire che quell’attività commerciale è di pertinenza di un fioraio.
Ma se la saracinesca del medesimo negozio è abbassata e in alto ad essa si legge “Kukkakauppias ” vi sembrerà ancora facile ed intuitivo capire

che si tratti di un fioraio? Temo proprio di no!
Diverso se girovaghiamo per Londra, Parigi o Madrid dove, leggendo rispettivamente “Florist, Fleuriste, Fiorista”, ci renderemo subito conto che proprio lì vi è il negozio che stiamo cercando, ed entreremo per effettuare i nostri acquisti. Chi più o chi meno, ognuno di noi mastica qualche parola della lingua di Shakespeare che, arricchita dalla nostra tutta mediterranea capacità mimica, ci lascia portare a buon fine questi ed altri ben più difficili casi.
Fin qui la cosa è semplice!
Ma proviamo ad andare in vacanza in Asia, in Giappone nel caso nostro, dove attratti dalle artistiche “Ikebane” cercheremo la giusta descrizione in un display a luce stroboscopica, che ci mostrerà degli originali ghirigori.
Noi non saremo mai in grado di poter definire il loro significato, ma per chi ha una minima infarinatura della scrittura “Hiragana” capirà che quelle quattro sillabe stanno per “i-ke-ba-na”.
L’idioma nipponico non è caratterizzato né da lettere maiuscole né minuscole, e da nessun tipo di punteggiatura.
Questa una delle tante ragioni per cui noi occidentali non riusciamo ad imparare la loro lingua, poiché non sappiamo dove ha inizio e dove ha termine la parola. Chi scrive, avendo risieduto tre anni in Giappone, è riuscito – grazie ai Frati Francescani di Roppongi nota area residenziale della città – ad imparare a leggere e scrivere i due tipi di scrittura Hiragana e Katakana, ma Dio mi protegga d’imbattermi nei Kanji, ovvero la scrittura a ideogrammi, alla presenza della quale ogni mio sforzo di comprensione risulta assolutamente vano.

Tuttavia, vi posso garantire che con quelle poche ore di presenza fra i banchi son riuscito a far mia una conoscenza del giapponese da “sopravvivenza” certamente integrata dalla più diffusa lingua inglese capita e parlata da ogni generazione post bellica.
Malgrado ciò, fra una signora di nazionalità indiana e colui che scrive, parlanti entrambi un fluido inglese, accadde qualcosa da rasentare l’assurdo.
Quando quel primo aprile del ’90, misi piede in terra nipponica, passeggiando per Akasaka-mitsuke, conosciuta area commerciale di Tokyo, venni attratto da qualcosa d’insolito: svariate centinaia di persone, prevalentemente giovani donne, venivano fuori dall’ingresso di un grande edificio.
Chiesi al mio accompagnatore, residente in città già da diversi anni, se nella parte retrostante l’immobile vi fosse uno stadio o un teatro ed in caso se avesse avuto luogo un incontro di calcio o la fine di un concerto, oppure un eccezionale avvenimento agonistico tanto da giustificare la presenza di una sì vasta platea.
«Macché!!» rispose Questi con indifferenza, «stanno per uscire 3.000 impiegati dai loro uffici, e avrai modo di osservare che in pochi minuti verranno inghiottiti dalla vicina Stazione Metro».
E così accadde.
È inconcepibile per noi occidentali, farsi un’idea di come è ben organizzato quel popolo. Per fare un esempio Roma conta circa tre milioni di abitanti. Per pagare la bolletta del gas, o dell’elettricità, oppure ritirare la propria pensione presso un ufficio postale modernamente strutturato, bene che vada occorrono in media trenta minuti.
Volendo, ora, fare un confronto con Tokyo, che nei giorni lavorativi conta circa 30 milioni di presenze, sarebbero state inevitabili ben dieci ore di lunga attesa, accompagnati dagli abusati vituperi all’indirizzo dei soliti governanti inetti ed incapaci, buoni a prendere e mai a garantire soddisfacenti servizi ai puntuali contribuenti bla, bla, bla…
Invece questo non accade: poiché in soli cinque minuti l’utente è in grado di ricevere il servizio con piena soddisfazione.
Dopo circa un mese di vita da single, – che mi permise di fare visita agli alti funzionari delle Istituzioni Italiane: Sede Diplomatica della Repubblica Italiana, Nunziatura Apostolica, Compagnia aerea di Bandiera, Istituto di Cultura, I.C.E., e Camera di Commercio, – giunse mia moglie.
Da tener conto che nell’attesa della sua venuta, avevo preso contatti con delle agenzie immobiliari, per poter trovare un alloggio confortevole e non molto distante dal posto di lavoro.
Il dì successivo demmo inizio alla visita di alcuni appartamenti presenti nei cataloghi che le agenzie immobiliari misero a nostra disposizione.
Indescrivibile era la delusione allorquando vedevamo e toccavamo con mano. Andammo in giro per un paio di settimane raccogliendo molte delusioni e pochissime occasioni concrete. Ardua più del previsto si era presentata la nostra impresa, tanto da rassegnarci a trascorrere quei cinque anni in uno scomodo residence, senza i nostri mobili e con spazi meno che limitati: angusti.
Pur nondimeno, affidatici ad un altro “Real-Estate” trovammo un appartamento per Occidentali, sito a Roppongi, per il quale la richiesta del canone mensile era pari a ¥ 620.000. Volendo effettuare il cambio in Lire Italiane, l’Ufficio dei Cambi di Milano, proprio quel giorno, quotava lo Yen 10 a 1 ovvero 10 lire per 1 yen. Penso che non sia, proprio, il caso d’importunare Pico della Mirandola per fare il giusto cambio con la nostra valuta, bastava aggiungere uno zero. Mentre per il deposito cauzionale (non fruttifero) da versare al momento dell’accettazione del contratto, venivano richieste 6 mensilità, pari a 3.720.000 Yen. Anche in questo caso, per commutare la cifra in Lire, è di dovere aggiungere uno zero. Mi resi conto che il costo della vita in quella grande città, era decuplicato rispetto a quello di Roma. Mi gelò il sangue.
E come una delle statue del Buonarroti che adornano la Cappella Medicea, divenni anch’io di sasso.
La conferma l’avemmo allorquando ci recammo da Kinokunia, grandi Supermercati Alimentari. Un limone dalle dimensioni poco inferiore ad un comune uovo di gallina, costava 500 ¥, pari a Lit. 5.000, e così dicasi per una nespola, frutti che venivano custoditi dentro delle scatole tipo “Baci Perugina” e commercializzati in confezioni da sei unità al costo di 3.000 ¥. Ma ci pensate! Sei nespole 30.000 Lire.
Mentre un cantalupo, il classico meloncino di serra che lì viene coltivato il verticale, lasciandolo maturare su di un apposito piedistallo, il cartellino con su scritto “tokubaihin”, equivalente alla nostra “offerta speciale”, indicava “soli” 14.000 ¥,. Il prezzo imposto all’origine, annullato con un pennarello rosso, dichiarava a chiare cifre: 32.000 Yen.
Non sono frottole, credetemi!
Custodisco ancora alcune foto a testimonianza documentale.
Che dire poi!! (e lì mi fermo) Un chilogrammo di carne di vitello,– prodotta dai loro allevamenti con foraggi particolari, abbeverati con birra e sottoposti a massaggi quotidiani per rendere le carni maggiormente tenere – veniva a costare 80.000 Yen per Kg., equivalenti a Lit 800.000. Un’autentica follia! E ricordo, a proposito, che una “Steakhouse” americana, mandava in onda i prezzi a dettaglio, dando garanzia, che le loro entrecote alla brace, attenzione!, ho detto entrecote e non T-bonsteak, erano proposte a partire da 16.000 ¥, equivalenti alle nostre 160.000 Lire. Per consumare una cena a lume di candela, e senza vini d’annata, occorrevano dalle 70.000 alle 80.000 Yen procapite.
Semplicemente allucinante!!
A questo punto il lettore si chiederà a quanto ammontasse la retribuzione mensile del giapponese classe media. Medio-bassa, è proprio il caso dire, e mai sufficiente da poter consentire la frequentazione di quel tipo di negozi. Ma viene spontaneo formulare una seconda domanda: chi, allora, accostava quei banchi, laddove le merci esposte mostravano prezzi pari quelli del più prezioso dei metalli! I “gaizin-san”, noi signori stranieri, soprattutto gli Yankee, che all’estero percepivamo degli stipendi da favola, tanto che un amico, un certo Pompilio, mi suggerì di “non far sapere a nessuno circa le nostre spettanze all’estero, poiché i soldi fanno invidia.” Ma presto scoprii, senza alcuno stupore, che l’invidioso era soltanto lui. Ed è il caso dire: “dagli amici mi guardi Iddio…!!”
Nonostante il Giappone mi sia sembrato d’acchito un altro mondo, feci presto ad ambientarmi, e di questo devo esserne grato alle mie colleghe: Mitsuko san
Aiko san, Kiyoko san, Mitsumi san, e Sayuri san, la meno giovane, quest’ultima, quella che mi preparava i discorsi introduttivi nella lingua del luogo, anche se dopo un po’ fra gli applausi, preferivo proseguire con quella inglese.

Fu la stessa Sayuri san che nel suo discorso di commiato, tenuto in presenza di centinaia di Operatori Turistici si emozionò talmente da tirare fuori il foglietto dalla tasca per seguire la bozza della falsa riga da me preparatale in lingua italiana. Il tempestivo intervento di Maria Teresa Ruta, madrina dell’evento, in un fluente inglese, salvò il buon esito della serata.
A fronte di ciò, nemmeno delle altre impiegate posso dire male, badiamo! Quelle di cui non ho indicato i nomi, si occupavano di altre manifestazioni ed io, semplicemente, avevo minori rapporti di lavoro quotidiani.
Al contrario ci sarebbe tanto da dire di una ragazza di rara bellezza di nome Yoshiko che, amante della storia del nostro paese, prediligeva farsi chiamare Massimiliana.

Della stessa spero di parlarne in un mio prossimo racconto.

Da Gonshiro san, l’unico uomo del nostro Staff, imparai a programmare, mettere in opera, e portare a temine i vari work-shop e seminari; quest’ultimi realizzati a fini propedeutici per giovani Carriers, Tour Operators e Travel Agents. Dandomi, così, l’opportunità di conoscere “l’Isola Felice” dall’Hokkaido al Kyushu. Viaggiare in “shinkansen”, un serpentone lungo oltre 400 metri che fila a 360 km. orari, sono emozioni da non lasciarsi sfuggire. Che dire, poi, del sevizio di bordo!! Chiedetelo a WikipediA, vi saprà dire qualcosa in più…
Purtroppo, come mi era stato paventato da un alto funzionario della Sede Centrale, assai consistente si rilevò l’incompatibilità fra colui che scrive e il proprio dirigente, con il quale più di una volta venimmo ai ferri corti.
– ? –
Era divenuta consuetudine, tutte le domeniche mattina, incontrare la comunità italiana al mercatino rionale di Omotesando. Una sorta di Papireto, per coloro i quali conoscono Palermo.
Paragonarlo a “Le marché aux puces” sottovaluteremmo i cugini francesi.
Tuttavia si trovavano degli oggetti carini, i cui costi erano ragionevolmente accessibili. Soltanto a noi italiani, dopo avere udito l’importo, piaceva mercanteggiare spendendo qualche parola nella lingua locale sostenendo che il prezzo era costoso: “takai”, mentre gli altri stranieri, soprattutto gli americani, accettando di buon grado la tariffa del venditore, null’altro facevano che lasciare i costi immutati.
Ma il vecchietto giapponese pur di non fare andar via il cliente, e lasciare il certo per l’incerto, dimezzava la sua tariffa iniziale facendo buona l’offerta dell’acquirente italiano.
Il caratteristico mercanteggiare dell’ebreo, che fa leva sull’enigmatica quanto produttiva massima: “pochi maledetti e subito”.
Avendo stretto amicizia con alcuni Frati Francescani, fui uno dei primi a venire a conoscenza che la domenica successiva – presso alcune sale del loro Istituto – avrebbe avuto luogo la consueta vendita annuale, a scopo di beneficienza, nella quale veniva esposto tutto ciò che i religiosi ricevevano in donazione. Stare ad elencare le varie suppellettili, oggetti d’ogni epoca e bizzarre paccottiglie che traboccavano dai bislunghi tavoli habillé, allungheremmo il racconto a dismisura rendendolo altresì tedioso.
La sopraindicata vendita veniva organizzata in modo da dar certezza della massima trasparenza affinché non si pensasse che il fine ultimo fosse il lucro; difatti ogni articolo là esposto portava un numero, e di logica catalogato.
Il visitatore, potenziale cliente, amante di un determinato oggetto lo quotava per una cifra quanto più adeguata; ciò ponderato inseriva il denaro in una busta recante lo stesso numero del bene scelto e, quindi, dopo averla sigillata la porgeva all’hostess responsabile di quel delimitato settore.

Questa senza neppure toccarla la faceva introdurre, dallo stesso acquirente, in una cassetta chiusa con un lucchetto di sicurezza.
In sostanza gli oggetti venivano acquistati da persone fisiche le quali, con illimitata certezza, rimanevano nell’anonimato.
«Le porte dei saloni verranno aperte alle ore 08.30, voi cercate d’arrivare qualche minuto prima, in maniera d’essere fra i primi a fare la vostra scelta.» ci suggerì l’anziano frate.
Proprio quei giorni avevamo ospiti una coppia di amici provenienti da Roma, persone facoltose e politicamente influenzate, i quali attratti da questa opportunità, non esitarono un solo istante ad aggregarsi a noi.
In effetti eravamo stati tra i primi a varcare la soglia di quel primo salone bazar, ma in previsione di un grande afflusso di gente interessata, ci demmo appuntamento sotto un lampione, fuori nel cortile con il fatidico “chi arriva primo aspetta”. Entrammo eseguendo un giro di orientamento e mettendo le mani dappertutto. Contrariamente ai nostri amici, che iniziarono a riempire un cestello di cosine interessanti, Maria Adelaide ed io eravamo nell’eterna indecisione, e più insistevo nel dire questo è carino, meno lei mi dava ascolto. Quando ad un tratto ci arrestammo davanti ad un piccolo “screen” composto da sei pannelli, dalle dimensioni approssimative di cm. 70x30.
Dopo averlo steso su di un tavolo a parte, ne osservammo con vivo interesse i vari motivi dipinti su seta.
«Siete italiani?» chiese la giovane assistente con eccellente pronunzia.
«Sì! Che lo siamo.» rispose mia moglie.
«Questo è un pezzo molto antico, veniva usato come séparé da persone di un certo rango, lo si poneva in camera da letto, fra i due “tatami”, utile a creare quel clima di ritegno fra i coniugi».
Il concetto accese in me non poco stupore: ma come!, mi chiesi, prima fanno l’amore mettendo in pratica le varie posizione del kamasutra, e al momento di prender sonno tutelano la loro privacy!! Dal mio “background” culturale non riuscivo ad estrarre una valida spiegazione!!.
Oltre ad illustraci i soggetti dipinti ad inchiostri di China, raffiguranti le più belle e artistiche figure, non seppe, o non volle, dire altro.
Essendo rimasti attratti da quel capolavoro decidemmo di fare un’offerta congrua, equa, in misura da apparire corretti, e ciò ponderato inserimmo nella busta una cifra ragguardevole. Indi mentre l’assistente avvolgeva quell’oggetto disse:
«Siete stati molto saggi nell’essere arrivati fra i primi, sarebbe stato un crimine mettere questo oggetto in mano a degli antiquari» tacque alcuni secondi e mentre ci aiutava ad inserire la busta dentro la cassetta, aggiunse:
«Se tornando in Italia decideste di venderlo, ricaverete senz’altro tanti di quei soldi da comprarvi un’auto nuova.»

Prendemmo la dichiarazione con il solito beneficio dell’inventario, ed accompagnati dai suoi profondi e teatrali inchini ci congedammo soddisfatti.
– ? –
Era ancora presto per andare a pranzo. Decidemmo di fare quattro passi in direzione Omotesando, quartiere altamente residenziale.
Passeggiando lungo la Aoyama-dori,
i nostri amici ci indicarono un edificio di quattro piani, largo non più di cinque metri, incastonato fra due alte torri.
Al piano terreno, un negozietto di raffinate porcellane “Imari,” sembrava la meta di una moltitudine di turisti di ogni nazionalità.
Mentre le nostre mogli pensavano in quale paralume investire una cifra esorbitante, Felice ed io attraversammo il largo Viale, andando a dare una sguardo a delle belle auto esposte in un salone.
Avendo così visuale completa dello stretto palazzotto, i miei occhi si posarono all’ultimo piano del bizzarro edificio. Una grande finestra in alluminio anodizzato, spinta dal venticello di levante, fluttuava sbilenca agganciata all’unica cerniera inchiavardata al battente.
Focalizzai bene la cosa, e mi accorsi dell’incombente pericolo che sovrastava sulla testa dei passanti.
«Guarda là in alto.» dissi a Felice.
«Cazzo!!» esclamò lui, indietreggiando di alcuni passi, pur costatando d’esser fuori dal percepibile pericolo. «Secondo me sarebbe il caso di avvertire le forze dell’ordine!»
«Anche secondo me!» risposi io, allungando lo sguardo verso il crocevia fra la Aoyama e Omotesando, snodo in cui erano onnipresenti un paio di poliziotti. Difatti non distante da lì notai la loro auto di sevizio.
In mezzo ad una marea di teste lucide e nere, una mano che indossava un guanto bianco lungo quanto tutto l’avambraccio, dava l’impressione che proprio in quel punto assai congestionato, stesse dirigendo un’orchestra anziché il traffico stradale.
Gli andai quanto più vicino potei, e con l’indice gli feci segno d’ascoltarmi. Assentì.
Pochi secondi dopo, sostituito dal collega, mi fu accanto porgendomi un saluto in lingua locale, e risposto al saluto, lo interrogai:
«anatawa eigo ga wakari masu ka?» (parli l’inglese?) Incrociò gli avambracci a mo di croce di Sant’Andrea dicendo:
«sukosì dake!» (solo un poco) e facendogli cenno di seguirmi, da debita distanza gli indicai l’imminente pericolo, mi accorsi che non stava focalizzando il punto da me indicato e lo invitai ad alzare lo sguardo poco più in alto.
Quando ad un tratto resosi conto dell’imminente pericolo, esclamò:
«So desu kaaa!!!» (ma è così!) corse verso la sua auto e impugnando il megafono intimò lo sgombero di tutti i presenti, ed il divieto di uscire dai negozi a tutti coloro che si trovavano al loro interno.
Furono in molti a chiedersi se vi era in atto una rapina o un attentato terroristico, oppure uno spot pubblicitario.
I vigili del fuoco chiamati ad intervenire, furono tempestivamente sul luogo. E posizionata la scala all’altezza giusta sganciarono la finestra. Pochi minuti dopo tutto tornò alla “turistica” normalità.
A circa venti metri da dove sostavamo noi quattro, notai il “mio poliziotto” parlare con un suo superiore, il quale mi accostò chiedendomi se parlassi la sua lingua, stavolta fu il mio turno di rispondere “sukosi dake”, ma l’ufficiale fu lesto a fare sfoggio del suo inglese oxfordiano e, invitandomi a seguirlo, mi condusse all’interno di un negozio.
E lì mi chiese da dove provenivo, se ero a Tokyo per vacanza oppure per motivi di lavoro, e in questo secondo caso fornirgli l’indirizzo e il numero di telefono del mio ufficio. Ci salutò con il solito inchino, e salito in macchina si dileguò nel il traffico urbano.
– ? –
Amanti della cucina speziata, dopo aver degustata quella coreana e cinese, i nostri ospiti espressero il desiderio di provare l’indiana Tandori o Moti Mahal, se preferiamo.
Eravamo stati un paio di mesi prima in India e pertanto aderimmo di buon grado alla proposta di tornare a quei piatti piccanti e allo stesso tempo delicati. Demmo una sbirciata alle pagine gialle e scegliemmo una delle tante “Curry House” indiane localizzate in zona di Shibuya, quartiere ad alta densità e, per certi versi, poco consigliabile, non dico malfamato, ma talmente caotico da far paura.
Chiamai il collega Gonshiro, esperta guida turistica, chiedendo un suo parere.
Questi mi garantì che il cibo era fra i migliori esistenti a Tokyo, come inappuntabile era il servizio. Nel suggerirci alcune specialità, concluse dicendo: “Sappiate che è d’obbligo la cravatta, e abbigliamento sobrio per le signore. Provate, ove possibile, di prenotare un tavolo sul roof garden, riservato ai VIP. Gonshiro san senza alcun se né ma, si era reso parecchio disponibile.
Mi attaccai al telefono, e dopo svariati tentativi, sentii una voce femminile dire: “mosimosi”, (l’equivalente al nostro pronto) mi presentai dicendo che eravamo due coppie di italiani, e chiesi di riservarci un tavolo per le ore 20,30 preferibilmente in alto, al giardino pensile.

La donna espresse il suo rammarico rendendo noto che i tavoli apparecchiati sul terrazzo erano tutti riservati.
A quel punto giocai la mia carta Jolly, dicendo che ero in missione di lavoro per lo Stato Italiano, occupandomi di turismo, e avevo con me degli ospiti provenienti da Roma, personalità della finanza imparentati con una figura governativa di altissimo livello. Mi lasciò attendere una manciata di secondi e poi mi diede conferma che, grazie ad una disdetta, si era reso disponibile un tavolo.
Il bersaglio era stato centrato senza che io avessi mentito.
Una bella donna con un vistoso “bindi” sulla fronte, ci venne incontro dandoci il benvenuto.
«Mi chiamo Damayanti» disse, eseguendo un inchino con il capo, e le mani giunte sul petto. Mentre con eleganti movenze ci conduceva ad un tavolo posizionato ad angolo dal quale potevamo godere una veduta eccezionale.
Al centro si esso, apparecchiato per quattro, era stata posta una mini confezione floreale di azalee e ramoscelli fioriti di ciliegio; mentre ad angolo, molto a vista, un cartoncino a mo di “V” capovolta recava scritto “damico san”.
Fu la stessa Damayanti a spostare le sedie accostate al tavolo, e far sì che le signore prendessero posto comodamente.
Si allontanò dandoci garanzia che presto due giovani cameriere si sarebbero occupate di noi.
Seguendo i suggerimenti datici da Gonshiro, demmo preferenza al “Chicken tandoori, paneer pakora biryanis, e cheese nans”. Piatti piccanti, ma per noi Italiani optò per in tipo “milde” da accompagnare con della birra indiana.
Durante lo svolgersi della deliziosa cena, notai qualcosa d’insolito: oltre ad essere serviti da una triade di belle ragazze, gli unici ad aver dei fiori a tavola eravamo noi, ma la cosa che più mi stupì era stata la presenza di quattro uomini dalle forme imponenti, in abito nero e occhiali scuri, disposti ai quattro angoli del terrazzo, uno dei quali – ad un paio di metri da dove sedevamo noi – provava a mimetizzasi dietro una gigantesca yucca fiorita.
Ebbi modo di alzarmi con un banale pretesto e andare a parlate con Damayanti, alla quale chiesi se quei quattro, “lottatori di sumo” fossero delle guardie del corpo alla difesa di chi, e per quale ipotizzabile pericolo.
«Per voi quattro, damico san, sono stata io a predisporre questo servizio considerato che il suo amico è un Capo di Governo.»
Rimasi frastornato. Nel breve dialogo telefonico intercorso fra me e la giunonica Damayanti, non si era affatto parlato di Capo di Governo, bensì di personalità dell’alta finanza, nonché parenti stretti di una figura governativa di altissimo livello. E non avevo mentito, come già fatto presente, poiché l’amico Felice, di nome e di fatti, oltre ad essere funzionario di una fra i più noti istituti di credito italiani, era ed è cugino diretto del IX Presidente della Repubblica Italiana.
Ma, piuttosto che svelare il malinteso a rischio chissà, di quale ipotizzabile incidente diplomatico, preferii lasciare le cose come si trovavano.
D’altronde era stato grazie a quel “qui pro quo”, che eravamo stati maggiormente bene accolti e particolarmente serviti.
Saldai il conto con la mia carta di credito, lasciando una lauta mancia dentro la stessa cartellina in pelle con la quale ci era stato presentato il conto, e senza lesinare sorrisi e ringraziamenti alla splendida Damayanti lasciammo il locale.
Il lunedì mattina, dopo aver accompagnato i nostri amici al City Terminal, tardai di un’ora il mio arrivo in ufficio. Trovai un messaggio sulla mia scrivania, in cui mi veniva fatto presente d’essere stato desiderato dalla Segreteria del Primo Cittadino. Non vi nascondo che la cosa mi mise in seria apprensione.
Mi tornarono alla memoria gli avvenimenti della sera precedente. Digitai quel numero telefonico trovato scritto sul foglietto chiedendo di Ichiro san.
Questi mi disse che il Sindaco aveva il piacere d’incontrarmi.
La notizia destò in me non poca meraviglia mista ad una più che giustificabile tensione. Cercavo di tranquillizzarmi convincendomi che, se ci fosse stato un qualche riferimento all’equivoco della sera precedente, non credo che il signor Sindaco, o chi per lui, avrebbe avuto tutto questo piacere d’incontrarmi.
«Per che ora, sono atteso!» chiesi.
«Anche fra mezz’ora, se fa in tempo.» Presi un taxi al volo, e un quarto d’ora dopo strinsi la mano a Ichiro san che subito mi introdusse al Sindaco. Quando varcai la soglia della stanza, il sindaco stesso, contrariamente a quanto il protocollo prescriveva, mi venne incontro con fare amichevole.
Si era ricordato di me, ed io di lui, per esserci incontrati un paio di volte in delle manifestazioni pubbliche.
Mi fece accomodare, e dopo i brevi convenevoli di rito, “noblesse oblige”, avviò il discorso dicendo:
«Sento il dovere di ringraziarla per quanto solerte sia stato ieri il suo intervento. Se non avesse fatto accorrere le forze dell’ordine nella Aoyama-dori, non avremmo potuto evitare la strage. Sottrarsi dal dovere di salvare una vita umana, nel nostro paese viene considerato il peggiore dei crimini, ma a volte assetati di sensazionalismo siamo disposti ad oltraggiare i principali valori della vita, se non la vita stessa. Lei, Damico san, ha dato ben altra prova ed io oggi ho l’onere di discuterne con lei»
Si dilungò ancora per alcuni minuti, complimentandosi delle nostre istituzioni che riescono a muovere, verso l’Italia, enormi masse di turisti giapponesi.
Manifestò grande interesse per la ricchezza storico-culturale del nostro Paese, dicendo che allo scadere del suo mandato avrebbe visitato Venezia, Firenze, Roma e Pompei. Poi chiamò la sua segreteria, ed eseguendo un lieve inchino mi porse la mano per la cordiale stretta.
Fuori la stanza vi era pronto un più unico che raro omaggio: una confezione di tre bottiglie di stravecchio “Koshu” (un distillato superiore al comune “Sake”) custodite in una cassetta di radica di legno Keiaky, del valore inestimabile.
Breve epilogo:
Realizzato un periodo di missione a Tokyo, – durato tre anni e non cinque come inizialmente programmato – nel viaggio di ritorno in Patria, effettuai uno scalo a Milano per fare una breve visita al “Japanese work of art.” Mi accolse una donna di mezza età di razza asiatica, e dopo un breve dialogo introduttivo, le mostrai quel piccolo “screen”. Lei, facendo impiego di una lente contafili, restò ad osservarlo con sguardo da intenditrice, infine espresse così il suo giudizio:
«Questo pezzo risale al periodo Edo, 1603-1868, ed è stato guazzato ad inchiostri su della carta particolarissima, incollata su teli di seta.
I gangheri e i chiodini che assemblano i telaietti sono stati fatti a mano, uno per uno. Come può osservare il dipinto non reca alcuna firma, ma non ho alcuna esitazione a confermarle che quest’Opera dalla caratteristica Arte Ukiyo-e, sia uscita dalle mani di Katsushika Hokusai, detto il Vecchio Pazzo per la pittura.
Soltanto lui ed Uiroshige, – entrambi maestri dalla natura – erano in grado d’interpretare questi lievi lineamenti che descrivono la nostalgia di un passato.»
Poi, dopo essersi ulteriormente accertata sul tipo di carta che foderava la parte posteriore dei pannelli, aggiunse:
«Le interessa sapere la quotazione!?»
«Lo apprezzerei, grazie!» risposi, anche se, in verità, era proprio questo il motivo principale per cui mi ero recato in quella bottega d’Arte.
«Se ha intenzione di venderla le offro 3.000.000 di ¥, oppure 30.000.000 di Lire. Come preferisce lei!»
Il suo dichiarato interesse m’indusse a cambiare idea.
Le porsi rispettosamente i saluti, dicendole che avremmo valutato la sua generosa offerta e che, in una nostra futura visita a Milano, non avremmo mancato di contattarla.
…Incorniciato come meglio non si poteva, raggiungendo la massima estensione in cm. 190x95, oggi adorna una parete del salone di casa nostra.
Devo ammettere con tutta lealtà che quel giorno alla Missione, la giovane hostess, nel proporci quell’Opera e nella stima del suo valore, aveva avuto ragione. Bisogna prenderne atto.
Con altrettanta lealtà, devo dirvi che la somma che fu offerta in busta chiusa per la consegna dell’oggetto, fu assolutamente commisurata al reale valore dello stesso.
Se così non avessimo fatto, oggi a distanza di molti anni, ne proverei ancora vergogna.
Ad maiora!


Gianni D’Amico
© Riproduzione riservata


Quest’opera dalla caratteristica Arte Ukiyo-e, è uscita dalle mani di Katsushika Hokusai, detto il Vecchio Pazzo per la pittura. Soltanto lui ed Uiroshige, entrambi maestri dalla natura, erano in grado d’interpretare questi lievi lineamenti che descrivono la nostalgia di un passato. (Periodo Edo).
Ai mie amici che possano ammirala.

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