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Riano, 27 maggio 2009
Nato nel 1935, in un fatiscente quartiere periferico a nord-est di Palermo, noto come il Sant’Uffizio, a soli 8 anni ero anagraficamente il più piccolo, ancorché il più industrioso, audace e indiscusso leader di un ristretto gruppo di monelli.
Per bocca degli anziani, si era diffusa la voce: “stannu trasennu ‘i Miricàni”.
Non era facile per noi piccirìddi di otto, massimo dieci anni, capire chi fossero questi Miricàni, e come, dove e perché stessero entrando.
Esigevamo spiegazioni dalle nostre mamme, che a volte ne sapevano meno dei figli, e che riuscivano a darci risposte sempre molto evasive.
Qualcosa di più sapeva la nonna di Benedetto, potendo ella contare parentela con una dozzina di persone emigrate negli Stati Uniti.
La risposta dataci dall’anziana donna Cecilia, fu decisamente convincente. Difatti, con fare saggio e autorevole, chiarì:
«…gli americani sono coloro venuti a liberarci dai tedeschi, sbarcando sulle coste Sud Orientali dell’isola». Poi tacendo alcuni secondi e, in preda ad un forte attacco di (apparente) dolore, con i lineamenti alterati in una smorfia animale, aggiunse:
«Sono soldati eroici e generosi.
Laddove arrivano danno sempre da mangiare alla popolazione civile, e non maltrattano mai i bambini come usano fare i tedeschi!»
Non stavamo nella pelle, eravamo elettrificati!!
L’impazienza per l’atteso incontro con i nostri benefattori era tangibile e la spiegazione ebbe l’effetto di acutizzare la percezione che noi ragazzini avevamo dell’antipatico oppressore tedesco.
Volendoci riflettere, i calci nel sedere e, più in generale, i maltrattamenti che i tedeschi ci riservavano quotidianamente, erano la logica conseguenza della nostra impertinenza con cui chiedevamo insistentemente cibo.
La prima parola che imparai in lingua tedesca era stata scheiβe incoscientemente rivolta allorquando vedevo la gamba del milite protesa verso il mio fondoschiena.
… Ero tornato da scuola e, svogliato per com’ero, dopo aver velocemente ultimato i miei compiti relativi alla terza elementare, avevo raggiunto gli amici 'nto bàgghiu, a dare calci al pallone.
Un pallone consunto, un po' afflosciato, ma più di tanto non gli si poteva chiedere poiché a gonfiarlo ulteriormente avremmo rischiato la fuoriuscita di uno o più “diverticoli”.
A quei tempi ci si accontentava. C’è da dire che il nostro gruppo era da considerarsi fortunato, poiché altri ragazzetti giocavano con un pallone fatto di stracci che, a colpirlo di testa, si rischiava davvero il trauma cranico!
Erano circa le tre del pomeriggio, quando i fratelli D’Angelo vennero ad avvertirmi che stavano trasennu 'i Miricani.
Dalla campagna dove ci trovavamo, ci precipitammo verso il mare, sulla statale 113, sbucando di fronte lo stabilimento balneare Petrucci. A circa 300 metri, all’altezza del noto Ristorante Spanò vedemmo uno spettacolo del tutto nuovo ai nostri occhi. Noi conoscevamo soltanto il rombo dei bombardieri, lo stridere delle sirene d’allarme e la deflagrazione delle bombe lanciate sulla nostra Palermo moribonda.
Come dimenticare quel bombardamento a tappeto nel maggio del ’43 di cui a tuttoggi restano cicatrici nel centro storico sdirrubbàtu?
Ma quella volta si diffuse l’informazione che molti bombardieri scaricarono il loro peso di morte al largo delle coste, poiché quei piloti avevano origini (e coscienza) siciliane.
Tre imponenti tanker, avanzavano a rilento occupando l’intera carreggiata della statale 113. Il primo, posizionato al centro, era affiancato da altri due che, arretrati di un paio di metri, formavano una sorta di gigantesca lancia appuntita a copertura di una Jeep con a bordo un alto ufficiale super decorato.
Alla destra e alla sinistra dei cingolati un centinaio di uomini, pesantemente armati, procedeva con passo felino ancorché appesantiti da spaventose mitragliatrici.
Le donne terrorizzate alla vista di un simile scenario di guerra correvano in casa e sprangavano le persiane. L’immagine era il vero preludio di battaglia che da li a poco sarebbe esplosa.
Noi piccirìddi, forse una dozzina in tutto, li seguivamo rasenti ai muri delle case, nell’illusione che, in caso di spari, saremmo stati protetti.
Ad un segno di chi comandava la colonna, questa si arrestò. Si ebbe l’impressione che qualcosa di sospettoso fosse stato avvistato. I lunghi cannoni dei carri posizionarono la loro mira all’unisono, puntando un invisibile bersaglio distante un centinaio di metri. Sembravano tre cani da caccia puntare l’unica lepre. Quando un breve fischio, con due dita in bocca, emesso da uno dei marines, ruppe quel silenzio religioso, il nostro respiro si fermò.
Il fischio fu seguito dal gesto della mano che m’invitava (non ebbi dubbi che fossi proprio io il destinatario del segnale) ad attraversare lo stradone. Accorsi coraggiosamente saltando come una gazzella, andando in direzione di colui che mi aveva chiamato.
Questi facendomi da scudo con il suo corpo, mi parlò in perfetto dialetto siciliano, chiedendomi: d’unni sunnu i tedeschi? Alzai il braccio sinistro, e stendendo l’indice in direzione del bunker dissi: ddah dintra sunnu ammucciàti!!
In quel preciso istante un indefinito numero di grosse mitragliatrici nemiche sputò fuoco dalle strette feritoie del rifugio blindato. La fulminea risposta della pesante artiglieria dei carri, centrò in pieno la mezza sfera di cemento armato mimetizzata sotto vecchi mobili in disuso ed altro ciarpame, facendola esplodere come se minata dall’interno.
All’esaurirsi degli echi delle esplosioni, il silenzio fu totale. Silenzio di morte!
Il giovane marine mi ripescò da sotto la ruota del cingolato dove una sua provvidenziale spinta mi aveva fatto ruzzolare quando i tedeschi avevano aperto il fuoco e dopo avermi passato una gomma da masticare come gesto di gratitudine, invitò tutti quanti noi ad allontanarci, poiché il rischio in quell’area era molto elevato, disse.
Disubbidienti come solo i ragazzini di strada sanno essere, noi non gli demmo ascolto, e dopo aver masticato e inghiottito la gomma, proseguimmo insieme affiancati ad un pesante automezzo, e non distanti dalla jeep, ammiravamo estasiati quell’uomo dalle variopinte decorazioni di guerra.
Mentre avanzavamo lentamente a pari passo con la colonna, venivamo invitati ripetutamente ad allontanarci.
Ci separava metà larghezza di strada, quando ci accorgemmo che ad un blocco di cemento, staccatosi con esplosione del pillbox, stava accasciato un soldato tedesco con il volto intriso di sangue senza mostrare segno di vita.
Quando ebbe la jeep ad una distanza di circa tre metri, questi inserì qualcosa in bocca strappandola verso l’esterno, e simultaneamente la lanciò in direzione della jeep. Il marine che stava in piedi accanto al suo Generale, ghermì a volo quell’oggetto trattenendolo per alcuni secondi, indi lo lanciò su quell’uomo già ridotto in un colabrodo dai mitraglieri che si erano accorti del lancio della bomba a mano.
Il micidiale ordigno gli esplose addosso riducendolo a brandelli.
Guardammo in viso l’alto ufficiale il quale non si era minimamente scomposto, come se quello che era accaduto fosse stata la parte assegnatagli dal regista di un film. Fu proprio lì, che l’Ufficiale alzatosi in piedi sulla jeep, rivoltosi a noi monelli gridò:
go home boys, this's not a game!!
Alcuni di noi, i più ligi, fecero ritorno verso casa. Franco ed io, invece, ripercorremmo a ritroso la strada che conduceva presso la villa abitata da un colonnello della S.S., sempre presidiata da almeno un paio di sentinelle pronte ad avvertirlo dell’arrivo del nemico americano, ma di costui, della sua donna e dei due pastori tedeschi, quel giorno, non esisteva nemmeno l’ombra.
Affaticati ci sedemmo sul muretto di cinta della casa, i cui proprietari erano sfollati in località montane dall’aria salubre e dal cibo genuino, ma principalmente lontani dai raid Statunitensi e Britannici, pronti a fare ritorno, non appena gli eventi bellici sarebbero cessati.
E lì, mentre commentavamo la triste fine del soldato tedesco, appoggiatomi al pesante cancello, lo sentii cigolare aprendosi alle mie spalle. Incuriositi dall’averlo trovato non chiuso a chiave, entrammo nel viale fiorito di roselline bianche, che conduceva alla casa bianca. Era così che la chiamavamo noi ragazzi del quartiere. Percorremmo incuriositi e diffidenti il lungo viale, fino alla rampa di pochi scalini che conduceva alla porta d’ingresso.
Chi non l’avrebbe spinto quel portoncino in quercia per curiosare cosa nascondesse quella palazzina dove aveva fatto residenza un ufficiale Nazista! Questo, contrariamente al pesante cancello in ferro forgiato, si aprì dolcemente come se qualcuno lo avesse tirato dall’interno. Paura e stupore ci colsero. Ci guardammo smarriti.
«È permesso? C’è qualcuno?» chiedemmo, aspettando un chi siete? Cosa volete? Tutto tacque, si sentimmo quasi autorizzati ad entrare. Non esitammo. Ogni cosa era nuova per noi; ci introducemmo direttamente in un salone arredato con dei mobili lussuosi, tanti divani e comode poltrone, tappeti e quadri antichi dai soggetti mistici, messi l’uno a contatto con l’altro, adornavano una grande parete. Rimanemmo inchiodati lì ad ammirarli, ricollegando quei quadri a molti altri che avevamo visto nelle antiche chiese della città. Da una vecchia cassapanca venivano fuori decine di colli di bottiglie di alcolici. Sopra un gran tavolo, più basso dei divani, vi erano bicchieri semivuoti, alcune bottiglie dimezzate, sigarette di diverse marche, e dei portacenere che contenevano mozziconi di sigari e sigarette con il filtro imbrattato di rossetto. Su altri mobiletti e sul pavimento, erano impilati dozzine di libri dalle copertine gialle che illustravano scene di delitti dai titoli a noi incomprensibili.
Improvvisamente udimmo uno strano rumore non ben distinguibile, un misto tra uno starnuto strozzato, il soffiare di naso o il più verosimile, quello causato da una flatulenza. Ce la facemmo sotto dalla fifa, e scappammo a nasconderci immediatamente dietro un divano posizionato al centro del salone e nell’attesa di altri eventuali rumori. Eravamo tesi e all’erta.
Seguì lo stesso gracchiare più lungo, spezzato in due tempi e ancora parole mozze, incomprensibili. Allora capii. Portai l’indice sulle labbra e con l’altra mano feci cenno di ascoltare. Respiravamo appena temendo di fare rumore, poi vidi sul volto di Franco quell’espressione rassicurante che voleva dire ho capito anch’io! Mi alzai muovendomi felinamente verso la camera da letto.
Guardai dalla soglia della porta pensando di trovarmi di fronte alla nonna agonizzante, seduta sul letto con quattro cuscini dietro la schiena, ma in realtà non era proprio così che andarono le cose. I nostri timori erano semplicemente giustificati dal fatto che eravamo in casa altrui a spiare e mettere le mani ovunque…
…Nella casa di campagna della nonna paterna di Franco esisteva una radio chiamata “mobile bar”, peraltro poco distinguibile da un altro mobile che custodiva al suo interno una macchina per cucire di marca “Singer”. Arredavano entrambi una specie di sala “multy hobby” con annessa cucina dove un paio di galline chiocciavano chiamando i loro pulcini.
Alla sedicente radio, ultimo ritrovato della tecnologia dell’epoca, saltuariamente prendeva lo schiribizzo di gracchiare, a quel punto bisognava sintonizzarla sulla giusta banda azionando la seconda manopola da destra. Tale operazione si rendeva necessaria per l’ascolto di un programma di operette e canzoni napoletane cantate da Beniamino Gigli, di cui nonna Michela era incantata. “Stativi zitti, picciriddi, ca’ sta cantannu l’amuri miu”
La parte interna di questo più unico che raro capolavoro dell’ebanisteria in stile Littorio, di gran moda in ogni casa ben arredata, era tutta rivestita con specchietti a mosaici. La parte superiore, composta da due spesse mensole di vetro con bordi lucidi, serviva d’appoggio per alcune bottiglie dalle forme inusuali, ideate probabilmente dal “Principe di Palagonìa” – (Nobile siciliano del ‘700, progettista dell’omonima Villa, sita in Bagheria, meglio nota come Villa dei Mostri. N.d.R.) –
contenenti liquori dai diversi colori e gusti, comunemente detti “rosòliu fattu ‘n casa.”
Sempre nella parte interna del mobile, appesi agli sportelli, stavano capovolti dodici piccoli bicchieri a calice, lì per non essere mai usati, considerate reliquie e preziosa eredità di antenati scomparsi. Mischìni!!
…Vincemmo la paura entrando finalmente in camera da letto e, anziché trovarci di fronte la vecchietta malata che tossiva, c’imbattemmo in uno strano marchingegno grande quanto la cassapanca di nonna Michela, dal quale provenivano raschi e starnuti misti a parole d’idioma incomprensibile!
Una cuffia ed una lunga antenna completavano lo strano attrezzo. Provammo invano ad interrompere il frastuono toccando qua e là tutte le manopole e pulsanti. Infine, abbassando casualmente una levetta, riuscimmo a farla tacere.
Demmo uno sguardo all’arredamento, e la nostra attenzione venne attratta da un gran ritratto incorniciato di nero ed appeso sulla testiera di un letto raffigurante un uomo dallo sguardo austero e capelli cosparsi di brillantina. Nel largo margine bianco sottostante (o passe-par-tout, se vogliamo) si evidenziava con chiarezza la scritta: “DER FÜHRER”.
Trasmetteva più terrore questa immagine che il gracchiare della radio o la deflagrazione delle bombe, alle quali avevamo ormai fatto abitudine.
La nostra curiosità venne solleticata da un grande armadio alto fin sotto il soffitto, con uno specchio al centro e due ante laterali. L’aprimmo: abiti da donna a sinistra e d’uomo a destra e fra questi, alcune uniformi d’ufficiale nazista: pastrani, vestaglie, stivali, grandi borse e tant’altro.
Tornammo sui nostri passi dove avevano intravisto una cucina. Sentivamo i morsi della fame poiché entrambi avevamo saltato la “merenda…” se si esclude la gomma da masticare che avevo ingoiato poco prima.
Nella ghiacciaia trovammo del burro e tanto latte, da uno sportello dei pensili, vennero fuori delle gallette rinsecchite custodite dentro una scatola di metallo, in altri contenitori rinvenimmo del pane di segala e di frumento che, dopo essere stato spalmato di burro e marmellata, andò a riempire i nostri capientissimi stomaci. Buon latte fresco accompagnò lo “spuntino”.
Continuammo ad esplorare altri ambienti, soffermandoci ad osservare una lettiga d’infermeria. Dalla parete di fronte pendevano un paio di camici bianchi, con delle svastiche agli occhielli, che diedero conferma che ad abitare in quella casa era una coppia di tedeschi uno dei quali sicuramente medico.
* * *
Il giorno successivo, avendo marinato la scuola, fummo in tre a proseguire l’accurata ispezione. A noi si era aggregato anche Melino.
A colpire la nostra insaziabile curiosità fu stavolta una casetta in fondo al giardino sul retro, seminascosta da rampicanti e foglie di campanule in piena fioritura. La malridotta porticina era legata da un filo di ferro che attraversava i due occhi a vite ricoperti di ruggine.
Consci dei rischi, ma al contempo osservanti dei miei suggerimenti, decidemmo di aprire il portoncino. Il nostro più grande timore, oltre ad un imprevisto per quanto improbabile ritorno dei legittimi residenti, era quello rappresentato dai saccheggiatori, che se ci avessero trovati lì ci avrebbero considerati pericolosi concorrenti e dunque puniti all’istante.
Proponemmo, quindi, di portare via tutto ciò che sarebbe stato buono da mangiare. Fu qui che i pareri risultarono contrastanti, finché non fu deciso che il lancio di una moneta, rinvenuta presso la radio, avrebbe scelto per noi. La sorte favorì Melino.
«Si fa così!» disse, togliendo il filo di metallo e tirando la porticina a sé.
Nove grosse casse di legno si presentarono ai nostri occhi! Decidemmo dunque di passare all’apertura del “tesoro” non prima di aver dato fondo alla dispensa, ormai ridotta a poco pane nero, salumi piccanti ed il latte residuo dal pomeriggio del giorno prima.
Faceva caldo a quell’ora del giorno, e le pance erano così inopinatamente piene che forte fu la necessità di sdraiarci sotto il pergolato. L’arsura causata dagli insaccati, e dal sole a picco, richiese acqua, tanta acqua. Grosso errore!
Cominciammo ad accusare forti disturbi al ventre, il respiro si fece corto e stare in quella posizione, il dolore aumentava. Ci alzammo.
Comprendemmo la situazione quando notammo un pezzo di pane, precedentemente rinsecchito, ora gonfio a dismisura, in fondo al lavandino della cucina. Erano bastate poche gocce a gonfiarlo, figuriamoci i nostri stomaci!. La paura ed il senso di nausea fecero precipitare gli eventi: ci ficcammo due dita in gola e ci liberammo dal doloroso frutto della nostra ingordigia.
Infine esausti ci abbandonammo all’ombra del folto pergolato e prendemmo sonno.
Rinfrancati dal riposo e sollecitati da un calcio di Franco riprendemmo il programma interrotto dallo “incidente di percorso”.
…Accatastate l’una sull’altra, a formare un grosso cubo, giacevano nove casse. L’idea di aprirle ed appropriarci del contenuto ci dava grande emozione. La parte frontale di ognuna di esse mostrava il classico simbolo con il quale si indicano gli esplosivi. Due parole scritte a grandi lettere cubitali precedevano il simbolo: AKTUNG GRANATEN. Paurosamente intuitivo!
Facemmo leva inserendo la lama di una falce sotto le fascette di lamiera che avvolgevano la cassa, le quali cedettero senza particolare sforzo. Sollevammo il coperchio incernierato e rimuovendo la paglia a copertura, trovammo ciò che l’immagine impressa sulle casse prometteva: bombe a mano color verde a forma d’ananasso.
Le altre otto casse contenevano razzi luminosi, cordite e munizioni per carabine di precisione. Armamenti abbandonati dalle truppe tedesche, presumibilmente a causa di una fuga improvvisa.
Credemmo opportuno portare via soltanto le tre casse di razzi che, furbescamente, vendemmo ad un robbavicchiàru ambulante, don Giosuè.
Questi, secco ed allampanato, era padre di numerosi marmocchi. Ogni mattina con il carrettino trainato dal fedele asinello faceva il giro completo della borgata nella speranza di recuperare quei pochi oggetti che, rivenduti ad altri disperati, gli avrebbero garantito denaro a sufficienza per sfamare la famiglia.
E così ogni giorno, fino a quando non trovò l’oggetto che gli avrebbe consentito di fare un bel po’ di soldi: una grossa mina anti-nave, quelle a forma di riccio, spiaggiata pochi giorni dopo l’invasione delle truppe americane.
Noi ragazzi ci prestammo persino a dargli una mano a caricarsela sulle spalle. Tragica fu l’idea di don Giosuè di riposarsi qualche centinaio di metri più avanti. Poggiata a terra la mina, alcuni detonatori vennero innescati. L’esplosione fu devastante. Di don Giosuè si ritrovarono parti anatomiche ancora settimane dopo. Il moncone di una gamba fu rinvenuto sul terrazzo di Palazzo Petrucci, circa dieci metri dal livello strada.
... Da un sopralluogo effettuato alcuni giorni dopo, alla “casa bianca” , notammo con stupore che la grossa Jeep Mercedes non esisteva più. E con essa, erano sparite le rimanenti casse e tutto ciò di utile che racchiudevano quelle mura. I quadri, soprattutto.
***************
…Eravamo in cinque quel dì di luglio a spaccarci la schiena per raccogliere i pomodori, quando una biscia sgusciò dall’erba secca. La inseguimmo affannosamente e, presa quella che credei essere una grossa zolla, la lanciai contro l’animaletto.
La granata incrostata di fango aveva perso le sue forme e dimensioni.
Finimmo tutti e cinque in un ospedale da campo, adibito per truppe americane. Fui il solo ad subire anestesia. Una grossa scheggia conficcatasi all’altezza dell’inguine aveva reciso la vena femorale.
Non era raro che noi ragazzacci tornassimo a buio fatto. Ma quando, ormai a sera inoltrata, mia madre mi vide tornare a casa quella volta accompagnato da un’ambulanza con targa USA, stava per svenire. Sorprendentemente non mi chiese cosa fosse accaduto. Disse soltanto: “tanto va la gatta al lardo finché ci lascia lo zampino”. Qualunque cosa accadesse, anche la più tragica, trovava sempre un proverbio d’accompagnamento. Quante volte l’ho fatta piangere. Povera madre mia! Ma la veneravo. Anzi: l’adoravo.
Non andò meglio all’ingegnoso Melino qualche giorno dopo. Nel tentativo di dar fuoco ad un pezzo di cordite, gli si incendiò l’intero fascio che teneva a poca distanza. Riportò ustioni di non so quale grado e sarebbe certamente arso vivo se un passante coraggioso non lo avesse provvidenzialmente avvolto con la sua giacca.
Con il senno di poi, posso senz’altro affermare che eravamo degli incoscienti.
Se i miei tre figli mi avessero dato la metà delle preoccupazioni che noi teppistelli di borgata regalavamo ai nostri vecchi, non sarebbero bastati tutti gli psicoterapeuti d’Italia a curare noi genitori esauriti e loro figli corrotti!!
Di contro, nonostante le difficoltà contingenti, la guerra , la fame, la povertà e tutti i pericoli connessi, noi ce l’abbiamo fatta! Non avevamo il facebook, le discoteche, il cellulare, la play station. Veramente non avevamo neanche la paghetta settimanale né la torta al compleanno. Ma ce la siamo cavata. C’è chi è stato più fortunato, chi lo è stato meno.
Franco è diventato un bravo calciatore rosanero di serie A… e pensare che i si allenava con gli scarpini ed un pallone comprati grazie ai proventi del furto dei razzi della “Casa Bianca”!!
Melino, dapprima apprendista pellicciaio, scoprì d’essere un avveduto imprenditore. Oggi dirige e controlla un’azienda con fatturati a 8 cifre.
Non starò infine a tediarvi con la mia biografia. Quella, se ne avete la curiosità, la trovate su www.operanarrativa.com.
Mi sia consentito però chiudere con una riflessione personale.
Nonostante io non abbia rimpianti, ho vissuto solo una modesta parte di quello che avrei più intensamente voluto vivere, e se fosse dipeso esclusivamente da me avrei cercato più intense soddisfazioni. Qualcosa ha remato contro!...
Non mi sono mai sentito però un “ultimo”. Mi sono sempre impegnato per far la cosa giusta. La compagnia di mia moglie, l’affetto dei miei tre figli ed il calore dei miei amici me lo ricordano quotidianamente.
Breve epilogo:
Infine vorrei puntualizzare quanto segue:
non tutti quei ragazzi del Sant’Uffizio, poco più di una dozzina, se ben ricordo, completarono la loro scolarizzazione. Ma soltanto tre ebbero la fortuna di distinguersi:
1 - Monsignor Giacomo D’Amico, (mio fratello) Teologo. Colonnello Cappellano in Polizia, oggi in pensione per raggiunti limiti di età.
2 - Don Pino Pugliesi. Sì, proprio lui, il futuro Santo!! Laurea in teologia.
3 – Prof. Nino Angellotti. Geologo. Detto Gronchi, per la forte somiglianza col il terzo Presidente della prima Repubblica.
A me sarebbe piaciuto laurearmi, ma non ebbi le possibilità economiche, forse nemmeno quelle intellettuali. Tuttavia ebbi la fortuna di conoscere il mondo con un passaporto dalla copertina blu concessomi dalla Farnesina. In compenso si sono laureati i nostri figli.
Oggi mi sento spesso con Melino. L’ho rintracciato dopo oltre mezzo secolo. Potenza del web!!
Non ho notizie di Franco, invece. C’è chi dice che sia andato all’estero chi invece sostiene che si trovi fra i più numerosi.
Recentemente ci si chiedeva con Melino che fine avessero potuto fare le opere d’Arte intraviste quel giorno nella “Casa Bianca” risalenti, con buona probabilità, al periodo Rinascimentale. La tesi comune è che al tempo siano state trafugate da chiese o dagli scantinati di qualche museo.
Ma mentre Melino è dell’opinione che siano state canalizzate sul mercato dell’antiquariato – idea peraltro attendibile – io sono di un avviso del tutto diverso. Per non incorrere nelle sanzioni che il codice penale mi comminerebbe, preferisco tacere. Voi avete qualche idea?
Ad maiora !!
Gianni D’Amico.
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