(No. Siete alienata!)
Premessa
Cosciente di non essere più quel monello di borgata, conosciuto da voi lettori in alcuni miei precedenti racconti, ardua si presenta l’impresa nel voler descrivere quest’altro, che da uomo “stagionato” mi ritrovo ad essere ancora una volta autore protagonista.
Ma ciò che maggiormente mi turba, credetemi, è il pensare che dovrò parlare di morte.
Ciò anteposto, tengo a precisare che nel rispetto di quelle persone passate a “miglior vita”, eviterò che nel corso della narrazione vengano menzionati i loro nomi, e per logica mi adopererò a sostituirli con dei pseudonimi degni di fede. Ma nel rispetto dell’epoca in cui si sono svolti gli eventi, e del fascino dei luoghi, ho preferito lasciare questi ultimi immutati. A conferma di quanto detto esiste una mia teoria che si delineerà nell’ultima frase del racconto stesso. Non andate a curiosare, non avrebbe senso!!
Era luglio del ’57, quando prendo la decisione di andare in giro per l’Europa in auto- stop. Munito di regolare “card” che mi consentisse l’accesso in tutti gli ostelli della gioventù esistenti nelle principali città Europee, acquisto un biglietto ferroviario di seconda classe, sulla tratta Palermo-Modane, e la mattina successiva, dopo la lunga dormita in treno, alle ore 07.00 con zaino e chitarra alle spalle m’immetto sulla strada nazionale Chambéry Paris, via Lyon, dando inizio al mio primo avventuroso viaggio.
L’ideale, mi era stato raccomandato, era quello di fermare “les routières” (i camionisti), più che gli automobilisti, poiché è con loro che si coprono in minor tempo i lunghi percorsi. La prima notte oltre frontiera l’ho trascorsa in un ostello di Lyon. Niente male!
Il dì successivo, trovandomi, già, a 272 chilometri da Parigi, (lo testimonia una vecchia foto) alzo il pollice saggiando a chiedere strada ad una coppia che viaggia su di una grossa auto di marca Citroën, la quale andando a velocità sostenuta non mi degna neppure di uno sguardo.
Ma dopo aver percorso non più di 300 metri decide di arrestarsi, e ripercorrendo a retromarcia la breve distanza che ci separa si accosta al bordo strada. È la signora, che dopo aver abbassato il finestrino mi chiede:
«Où est ce que vous allez?» (dov’è che andate)
«J’espère d’arrivé à Paris pendant la journée, Madame!» (spero di arrivare a Parigi in giornata)
«Montez!» aggiunge di rimando «c’est la qui nous allons». (salite, è là che andiamo) Fattomi accomodare nel sedile posteriore, ha avuto luogo un primo approccio da esser considerato piuttosto alla mano. Erano passate da poco le ore 13.00, quando Monsieur Jean Marie Quimphèr, lascia la strada statale addentrandosi in un folto castagneto.
«Venez!» dice «On s’arrête un instant pour aller manger quelque chose.» (venite, ci si ferma un momento per mangiare qualche cosa.)
Era un posto incantevole laddove ci siamo arrestati, e dando uno sguardo al menu, mi avvedo che avrei lasciato sul quel tavolo una buona fetta delle mie, già, misurate risorse economiche.
A dir vero non abbiamo fatto richiesta di chissà ché, ci siamo limitati ad un secondo, dell’acqua minerale, un dolce alla mousse de châtain e tanto caffè. Mi sono aggregato a loro senza alcuna esitazione. Al momento di saldare il conto esprimo il desiderio di voler pagare la mia quota. Ma la gentildonna, è stata lesta nel puntualizzare:
«Vous êtes notre invité!» poi con aria “malandrina” se ne esce dicendo: «Ici c’est moi qui comande!» (siete nostro ospite, qui comando io).
La sosta in quel caratteristico ristorante era stata breve, ma rilassante, soprattutto per loro. Ci siamo rimessi in marcia.
Nonostante Monsieur Quimphèr non fosse più giovane, aveva uno stile di guida fanatica: sedile distanziato da poter stendere le gambe, braccia a mo di boomerang, e mani inguainate in guanti di pelle a dita scoperte, reggevano il volante in posizione delle lancette di un orologio indicanti le 10 e 10.
Erano appena passate le cinque del pomeriggio, quando un’insegna stradale ci dona il “Bienvenue à Paris.” Dopo aver percorso gran parte degli Champs Élisée, l’auto si addentra nel VIIème arrondissement, e immessasi sulla Rue Jacob si arresta al numero 75. Aperto il bauletto portadocumenti, Monsieur Quimphèr, tira fuori una carta topografica della città, e mi indica il quartiere Courbevoie, cerchiando con una penna l’ostello della gioventù di cui avevo fatto loro cenno durante il viaggio, indi, fruga in una tasca ed estrae un carnet intero di biglietti metro, e nel porgermelo assieme ad un suo biglietto da visita, dice:
«Si par hasard vous auriez quelque problème, n’excitez pas à nous donné un coup de fil.» (se per caso doveste avere dei problemi non esitate a telefonarci).
Lascio trascorrere alcuni giorni e da un telefono pubblico chiamo casa Quimphèr.
Risponde una donna alla quale mi presento con nome cognome e nazionalità, e udito il suo assenso chiedo di Monsieur Quimphèr. Lei con tono che sapeva di rammarico mi comunica che l’Ingegnere non era in casa, e mi pregava di pazientarmi che avrebbe avvertito la signora. Una manciata di secondi dopo, sento una voce dire:
«Bon jour Jovannì, comment allez vous!!» (buongiorno, come state) Dall’espressione calorosa con cui prese parola M.me Quimphèr, mi sono sentito rincorato. E nel rispetto delle legittime formalità, porgo alcune mie notizie e ne ottengo delle loro.
A conclusione di quella moderatamente breve conversazione, conclude dicendo che entrambi i coniugi avrebbero avuto il piacere di avermi a cena, fissando in quell’ambito la data e l’ora.
Accetto l’invito, e per alcune sere m’impongo di ripassare talune lezioni di galateo che mia madre mi aveva suggerito prima di partire che, per sua stramba mania, definiva i 10 precetti che educano come comportarsi in un invito a cena:
– Non ti recare mai ad un invito a cena, senza aver indossato giacca e cravatta
– Raditi prima di uscire di casa. La barba incolta è segno d’italianità.
– Non arrivare mai in ritardo né troppo in anticipo.
– Tieni le mani sempre bel curate, sono quelle che sedendoti a tavola ti vengono
osservate per prima cosa.
– Se sai di trovare dei bambini porta loro una scatola ciascuno di “cazzotti”(nati nel 1922, erano chiamati così i Baci Perugina N.d. A.)
– Soprattutto porta delle rose rosse alla padrona di casa, e che siano in numero dispari.
– Prima di omaggiarla esegui il baciamano, ma senza che le labbra poggino su di essa.
– Aspetta che ti venga assegnato il posto, non andarti a sedere di tua iniziativa. È
preferibile sentirsi dire si avvicini di alcuni posti più avanti che, potrebbe spostarti
un posto più in là.
– Ricordati che è la mano che porta il cibo alla bocca e non come fai tu, che accosti la
bocca al piatto. Osserva con dovuta discrezione come fanno gli altri commensali.
– Non vergognarti di fare il segno della croce, e non esser tu, per primo, a dire buon appetito, ma ripetilo se, e quando, lo dicono gli altri.
Queste, ed altre, regole di buona educazione, me le aveva trasfuse nel sangue da quando ero adolescente, facendomi brontolare da adulto: “chi camurrìa ‘stu galateo!!” Ma posso garantirvi che è stata la prima e l’ultima volta che ho potuto pronunciare quella parolaccia, perché disgustata dal mio contegno, mi ha allentato un gran ceffone fra capo e collo da farmi andare per traverso ciò che stavo per inghiottire. Ma con il senno del poi era giunto il momento di mettere in pratica le lezioni di bon ton da me, per anni, snobbate.
Quella sera eravamo in tanti a cena, erano presenti i due figli maschi con le corrispettive mogli e le due figlie coi loro mariti. Per via delle mie attente valutazioni mi sono accorto quanto amanti dell’Italia erano tutti i componenti di quella grande famiglia. E, strana coincidenza, proprio quel giorno del nostro incontro, provenivano da Terni per definire determinati progetti di lavoro, e approfittando di ciò si erano concessi una settimana di vacanza a Venezia.
La cena consumata in quel sontuoso salone arredato Luigi XVI, servita da un cameriere in livrea, e preparata dalla cuoca di famiglia, era stata deliziosa. L’ultima frase, quella dell’accomiato, espressa dalla padrona di casa, era stata: “è stato un piacere esserci incontrati. Speriamo che questi incontri siano l’inizio di una lunga serie.”
Apprendo, inseguito, che erano i pilastri dalla siderurgia francese. Ed oltre a quello sfarzoso appartamento, laddove era avvenuta la cena, situato, per altro, nella Parigi bene, possedevano ingenti proprietà immobiliari, consistenti in un grande albergo, e alcune Ville ottocentesche site nella turistica Costa Azzurra.
Di questo mio, non breve, soggiorno a Parigi, ci sarebbe tanto da dire, ma scelgo di non dilungarmi, principalmente per gli spazi editoriali concessimi, ma più di ogni altra cosa per non tediare gli amici lettori.
I miei 45 giorni trascorsi all’estero, sono stati propedeutici, costruttivi. Senza mai aver disdetto il posto letto conferitomi all’ostello, effettuavo in autostop delle toccate e fughe nelle principali città capitali Europee. E grazie a Kathrin – anche lei ospite dell’ostello – che, proprio la sera dell’invito a cena si era prodigata nel volermi stirare l’abito, mi ha dato l’opportunità di acquisire delle buone nozioni della lingua tedesca. L’essermi portato la chitarra, ci ha lasciato trascorrere delle lunghe serate cantando le più belle canzoni di Modugno.
Quando ho lasciato definitivamente la casa, l’emozione è stata manifesta. Con Kathrin e Giselle, una sua amica, conosciuta insieme a lei a Courbevoie, ci siamo incontrati alcuni anni dopo a Francoforte, per assistere ad un breve recital di Elvis Presley, di cui ne parlo nel mio primo manoscritto, un noir investigativo dal titolo: “L’ultimo clandestino” non ancora edito.
Ho salutato Parigi, la famiglia Quimphèr, gli amici. Il mio è stato un “au revoir” e non un “adieu”; poiché ho fatto ritorno nella Ville Lumière per 8/10 volte ancora.
Sono partito in treno per la mia Palermo con un bagaglio ricco di esperienze. L’unico ragazzo di Romagnolo che, con sole 50.000 Lire, era stato capace di andare in giro per l’Europa. Ma di ciò – e di ben altro – devo esserne riconoscente, ai signori Quimphèr, i quali nell’avermi procurato un tesserino da studente universitario, mi hanno dato modo di poter accedere, per una cifra irrisoria, alla mensa dell’Ateneo gestita dalla direzione.
L’amicizia venutasi a creare con la famiglia Quimphèr, non si era rivelata il solito fuoco di paglia, ma i nostri rapporti curati in forma epistolare, e con qualche saltuaria telefonata, andavano sempre più consolidandosi. Tantoché in un ultimo contatto telefonico, intercorso fra la signora e colui che scrive, mi veniva comunicato che con l’approssimarsi della Pasqua del ’58, sarebbe venuta per la prima volta in Sicilia in compagnia di una delle sue due nuore. “Vuoi scommettere che è Virginie, la bella bionda, moglie di Michel!” Ho detto fra me.
Alcun mesi dopo ricevo la conferma con relativa data e itinerario. Avevo, già, ottenuto il primo impiego. (di cui fatto cenno nel mio 3° racconto). Ne parlo al mio datore di lavoro, il quale oltre a concedermi due giorni di ferie, non ancora maturate, mi chiede se possedevo un mezzo per andarle ad incontrare, ho risposto che fra tanti amici avrei trovato un’anima buona disposta ad affidarmi il suo catorcio.
«E tu vai ad incontrare due signore di un certo livello sociale, per come mi sembra d’aver capito, provvisto di un catorcio!?»
Ho fatto presente che un’alternativa ci sarebbe stata, quella di prendere un’auto a noleggio. Però…
«La realtà oggettiva» dice lui «mi lascia prendere in considerazione due fattori: il primo è quello che il tuo datore di lavoro non ha l’anima buona, il secondo è che l’auto posseduta, da te già guidata, non è abbastanza rappresentativa! Ce l’hai i soldi per la benzina!»
«Proprio questo stavo per chiederle, un anticipo sul mio stipendio.»
«Prendi questi! Fai il pieno, e ricordati che la prudenza non è mai troppa.» dice, porgendomi due banconote da 10.000 Lire, poco più di metà del mio stipendio.
… Il pullman della ditta Prestia & Comandè, che offriva i migliori servizi turistici, era li, agli arrivi domestici, ad attendere i passeggeri della CIT Parigi. Dopo averle incontrate ho fatto sì che si separassero dal gruppo e, da quel momento, per il perdurare di quei due giorni di sosta a Palermo, sono stato io a prendermi cure delle due signore.
La domenica di Pasqua, l’incontro con mia madre, e la mia fidanzata, ha avuto luogo al ristorante Ficodindia. Dando loro l’opportunità d’assaporare le specialità della nostra Regione, accostando ad esse del generoso Salaparuta sia rosso che bianco. Al momento di saldare il conto, ha provato graziosamente ad arrestare il mio braccio, dicendo:«Bougez pas, Jovannì, soyez mon invité!» (statevi fermo, siate ospite mio.)
«No!» rispondo io ammiccando «Ici c’est moi qui comande!!»
Lei arguisce ricordando quel pranzo consumato all’ombra dei contorti castagni. E rivoltasi a mia madre esclama sorridendo:
«Votre fils c’est en garçon terrible!»
Mia madre contraccambiando il sorriso fa in modo d’interrogarmi con lo sguardo. Improvvisandomi traduttore rendo chiaro ciò che lei non aveva compreso: “Suo figlio è un ragazzo terribile.” «Non credo!» risponde lei, facendo un gesto di diniego. Mi sono accorto che la giovane nuora sorrideva strizzando un l’occhio.
Dopo un giro turistico nel centro storico, abbiamo concluso la giornata da Ilardi, al Foro Italico, degustando la storica cassata gelato al pistacchio. Il lunedì alle ore 08.00 erano in viaggio per Taormina.
Quella stessa mattina, dopo aver condotto la macchina in un autolavaggio, la restituisco al datore di lavoro, e nel dimostrargli la mia gratitudine, dico:
«Regoleremo a fine mese, Commendatore!» a fine mese con mio stupore trovo nella busta paga l’intero stipendio.
La perdita di quel nostro amico, andatosi a schiantare contro un Ficus Benjamin nella curva del Viale d’Ercole, al Parco della Favorita, ha fatto sì che alcuni di quei picciotti, mezze teste, autodefinitisi “stuntman” della domenica pomeriggio, interrompessero una volta per sempre di giocare con la morte, e mettessero “n’anticchia di giudiziu.” Ciò ponderato, colui che scrive, prende la decisione di convolare a nozze.
La data, con l’assenso dell’intera famiglia, viene fissata per il 26 settembre del 1960. Per proposta di mia madre accondiscendo di renderlo partecipe a miei amici d’oltre Alpi.
La risposta datami tramite cable da parte della figlia maggiore, giunge immediata, dicendo che i genitori si trovavano in vacanza a Nouméa, (Nuova Caledonia) e il giorno 28, sosteneva Florence, sarebbero stati in volo sui cieli di Nizza.
Giorni dopo giunge un plico da Parigi, contenente il regalo di nozze dal valore artistico inestimabile. Nella cavità dell’oggetto, dal caratteristico argento cisellato, un biglietto di auguri, con la stampigliatura degli anziani coniugi Quimphèr, sicuramente firmato dalla stessa Florence, recitava:
“Félicitations, Jovannì et Lilly, le Grand Hotel Côte du Prince, à Saint-Tropez, vous attende pour-y-passer heureusement votre lune de miel.” (il Grand Hotel Côte du Prince, di Saint-Tropez, vi attende per trascorrere felicemente la vostra luna di miele).
Ma che cosa avevo fatto io, nei confronti di questa famiglia, per meritarmi sì gradi attenzioni, continuavo a chiedermi.
Avendo saputo del mio imminente matrimonio, i miei amici si erano disgregati come accade ad uno stormo di allodole, allorquando per la fucilata assestata dal cacciatore sentono il piombo fischiare fra le piume. E proprio quel fatidico giorno, da ricordare, nemmeno l’ombra di uno di loro era presente in chiesa.
Tuttavia, nel momento in cui stavamo per pronunciare il memorabile “Sì”, uno sconosciuto mi passa un telegramma. Prego Don Caracciolo di attendere pochi secondi, e non curandomi del suo mugugnare, per prima cosa osservo la data e l’ora di arrivo: 26 settembre ore 9,25. L’indirizzo era quello della Parrocchia di San Giovanni Bosco, chiesa in cui stavo per prendere il 7° Sacramento. Non vi nascondo che lo stato emotivo in cui mi ero venuto a trovare, aveva ottenebrato la mia mente limitando i miei movimenti.
«Ancora là sei, sbrigati! Stai indisponendo il parroco!!» bisbiglia Maria Adelaide sgomitando. Schiudo quel dispaccio e leggiamo : “Siete ancora in tempo.” In calce alla frase notiamo mezza dozzina di nomi, quelli dei miei migliori amici. Entrando a casa, poi, percepiamo un strano odore, e un ronzio del tutto nuovo proveniente dalla cucina. Restiamo ammutoliti nel veder un frigorifero perfettamente funzionante. Sul tavolo un biglietto augurale, recava le stesse firme poste sul telegramma.
Tutto questo con la complicità bonaria di mia madre, la quale prima che uscissimo da casa agghindati a festa, mi ha chiesto:
«Ti sei cambiato le mutande dopo esserti lavato?»
«Che è nuova questa di non cambiarmi le mutande! Certo che le ho cambiate, mamà!»
«Da oggi indossane un paio pulite tutti i santi giorni, mi raccomando!
Lo dicevano gli antichi greci, “Mutates mutandes”». Per lei Sofocle, Orazio, Copernico, Pirandello o “Pietro Follone, erano tutti compagni di merenda. Eppure aveva studiato ostetricia!
…Baciando la mia giovanissima moglie, come mai avevamo fatto prima di quel giorno, esclama: «Ce l’ho fatta! Sono signora!!» «Da stasera!» puntualizzo «Nel lettone della stanza 212, presso l’Hotel delle Palme.» Abbassò lo sguardo sorridendo condiscesa.
A mezzo di locomozione non stavamo affatto male. Possedevamo, una “Mini Cooper, 997/cc, acquistata a suon di cambiali pochi mesi prima di sposarci.
La mattina del 28 settembre, abbiamo caricato il necessario e siamo partiti per Saint Tropez. La camera riservataci presso il Grand Hotel Côte du Prince, con straordinaria veduta su gran parte della Costa, profumava di fiori. Squillò il telefono.
«Bon jour, qui est all’appareil» rispondo, convinto di trovare Madame Quimphèr, invece era Virginie, la nuora. Che subito dopo averci dato il ben venuto, mi passa la signora Frédérique. Abbiamo ciarlato un bel po’ concordando che qualora il tempo fosse stato bello, la direzione dell’Hotel avrebbe provveduto a sistemare un set da spiaggia tutto per noi. In effetti il clima di fine settembre era stato magnanimo, concedendoci, così, la possibilità di scendere in spiaggia per alcune mattine. Ma quanto riguarda ad abbronzatura ne avevamo da vendere. Entrambi, provenienti dal sole feroce d’agosto isolano, sembravamo fusi nel bronzo antivo. Per un paio di giorni ci lasciarono fare vita di albergo. Inseguito, per la durata di un’intera settimana, gli inviti a cena nelle loro Ville e a volte in pizzerie, frequentate da VIP, erano pressoché quotidiani.
L’amicizia fra Virginie e noi, era divenuta talmente salda da far ingelosire Lilly, come la chiamavano loro. Un pomeriggio, durante un buffet in Villa, laddove la Sangria faceva da signora, lei, proponendomi un piatto, mai assaggiato, ne stacca un frammento con una forchetta mettendolo nella mia bocca. Mia moglie, considerando Virginie più tosto ebbra, non lo dà ad intendere, ma nel suo ego rimane vivamente oltraggiata. Quel gesto notato da molti ospiti mi ha dato la certezza che c’èra in atto un fine, una mira...
Quei giorni sì pieni di inviti trascorsero intensi. Leggendari. Memorabili. Salutando tutti gli astanti, in un momento di disattenzione di mia moglie, che mi stava con gli occhi puntati addosso, Virginie mi “chiede un favore”, al quale fa seguito il mio secco: “No. Vous êtes aliénée!!” Lei di rimando ribatte: “verrò a trovarvi a Palermo”. A quel punto fulminandola con lo sguardo – come soltanto i siciliani sanno fare – le dico: non t’az-zar-da-re. E baciandola com’era lecito fare, le sorrido con distacco. Se nella sua venuta a Palermo, nella Pasqua del ’58, avesse saputo ponderare bene la cosa, è probabile, ma non certo, che ci sarebbe riuscita. Tutto sommato mi ha dato modo d’apprezzare la sua lealtà…
* * *
Le relazioni con i Quimphèr proseguivano com’erano prima che sposassi. Quando parlando al telefono con Mamy, (era così che la chiamavano generi e nuore) le comunico d’essere divenuti genitori. Giorni dopo giunge una comune lettera. Nel suo interno, fra un cartoncino di auguri trovo inserita una banconota da 10 Dollari. La consegno a mia moglie riportando verbalmente le stesse parole lette sul cartoncino, che erano quelle di comprare qualcosa al nuovo arrivato. Sono rimasto stupito nel sentirle dire che la banconota era da 100$, e non da 10 come io avevo erroneamente valutato. Preso atto che la mia retribuzione mensile non superava le 38.000 Lire, quella cifra era piuttosto ragguardevole.
In prossimità delle feste natalizie, ho avuto modo di parlare con Monsieur Quimphèr, questi dovendosi recare a Brindisi per affari concernenti la sua imprenditoria, abbinava l’utile al dilettevole programmando una sua venuta in Sicilia, con data già prestabilita.
Erano trascorsi quattro anni, dalla venuta in Sicilia delle due signore, quando il lunedì che precede la Pasqua, mi reco in aeroporto per incontrare l’anziana coppia venuta in compagnia di una loro nipotina, figlia di Florence, una ragazzetta di appena 8 anni. Per sue esplicite richieste prendo a noleggio un’auto. E in visione della guida sportiva del ricco industriale, ne scelgo una piuttosto grintosa: una Giulietta Alfa Romeo.
Il tour, da me suggerito, era quello classico: Palermo, Segesta Selinunte, Agrigento, Piazza Armerina, (con visita ai mosaici della Villa Romana del Casale) l’Antica Siracusa, e per ultimo una sosta di tre giorni a Taormina.
* * *
Imbevuti dei suoi più unici che rari monumenti della Magna Grecia, nelle prime ore del pomeriggio abbiamo lasciato Siracusa. Giunti a Fiumefreddo di Sicilia, Giardini-Naxos, (Sicilia Orientale per intenderci meglio) mancava circa mezz’ora per raggiungere l’incantevole Taormina.
Era un uggioso pomeriggio del Venerdì Santo. Madame Quimphèr, amante del buon bicchiere di vino, dormiva sogni beati e la piccola Louiselle, non essendosi ancora accorta, continuava a parlottare con la nonna. Quando Monsieur Quimphèr toccandomi un braccio, bisbiglia:
«Arrêtez vous en instant, Jovannì.» (fermatevi un momento)
Lascio il lungo viale ombreggiato dai pini e, per maggior cautela, sosto su una fascia di terra battuta a ridosso di una pietra miliare, e supponendo che si fosse fermato per soddisfare ad un bisogno fisiologico, rimango al mio posto di guida. Lui accostatosi al tronco di un pino, adagiando l’avambraccio destro all’altezza della fronte vi appoggia il capo restando in quella posizione per diversi minuti. Tornato in macchina gli chiedo se stesse poco bene, mi risponde che era stato un malore passeggero, e tutto era finito lì. Evito di porgli delle altre domande, ma osservo che il suo viso ha uno strano pallore; spingo l’andatura in caso si sarebbe reso necessario un accertamento ospedaliero. Ma giunti in albergo mi accorgo che la situazione era peggiorata, faccio appena in tempo a far scendere la nonna e la nipotina con i rispettivi bagagli, e inverto la marcia in direzione dell’ospedale. Il medico che gli porge i primi soccorsi, non azzarda nessuna diagnosi, e crede più opportuno chiamare urgentemente il primario del reparto malattie infettive del policlinico di Catania. Questi per abbattere la barriera dei tempi prestabiliti, giunge in ambulanza con allarme inserita. E alla vista del paziente. Formula il più inequivocabile, quanto atroce, responso:
«Atrofia giallo-acuta del tipo fulminante. Nulla da fare, gli restano poche ore di vita.»
Poi entrambi i medici si appartano alcuni minuti nella vicina medicheria fermandosi a parlottare. E mentre questi metteva per iscritto la sua relazione clinica, il paziente mi fa cenno di prendergli la giacca che io avevo steso sulla spalliera dell’unica sedia esistente in quella stanza, indi, ficcata la mano in una tasca interna, con grande fatica mentale, più che fisica, ne estrae una busta piegata in due e me la porge farfugliando “Virginie pour vous.”
Sono state le sue ultime parole. Da quel momento è entrato in stato comatoso. Quietanzo con del denaro mio l’onorario del primario, e chiedo la ricevuta. Mentre questi mi saluta sopraggiunge la signora, fa giusto in tempo ad ascoltare il medico, il quale stringendosi nelle spalle, dice: “très désolé, rien à faire!”
Lei baciando teneramente il marito, e rendendosi conto della sua perdita dei sensi, sbotta in un pianto decoroso. La metto subito a sedere e chiedo un bicchiere d’acqua. Ripresasi dal doloroso colpo infertole dal destino, la vedo reagire e prendere le sue decisioni. Nel conferirmi l’incarico di assisterlo fino a l’ultimo respiro, si affretta a ritornare da Louiselle, rimasta in camera da sola.
All’una di notte ha reso l’anima al creatore. Gli ho chiuso gli occhi come se fosse stato mio padre, e chiamo la vedova comunicandole il trapasso del marito. Lei, avendo già parlato con il figlio maggiore mi suggerisce di annotarmi un numero telefonico con cui poter prendere contatti in qualunque ora e in qualunque istante. E così ho attuato. Da questi apprendo, che proveniente da Parigi con scalo a Roma, mi prega d’incontrarlo alle ore 11.00 all’aeroporto Fontanarossa di Catania.
…Quando sedutosi in macchina, mi chiede d’acchito del padre, dicendo:
«Mon père c’est finit, ne c’est pas!» (mio padre è andato, n’è verro!) ho assentito dicendo semplicemente:
«Élas!!» (purtroppo)
Era quasi l’ora di pranzo, di quel sabato che precede la Pasqua, e la strada statale 114 era deserta. Abbiamo impiegato non più di mezz’ora per giungere Fiumefreddo. Là, dove ancora oggi ne è testimone quella pietra miliare, rallento l’andatura per mostrargli l’albero al quale si era appoggiato il padre. Chiuse gli occhi elevando probabilmente una prece al Padre Eterno.
Recatici direttamente in ospedale, un infermiere ligio al dovere ci comunica che sulla salma era stato effettuato il processo di conservazione e sistemata in camera mortuaria. portatici in loco abbiamo trovato la signora che con una spugna gli stava detergendo il viso. Osservo Maurice, che chinatosi sul padre appoggia la guancia sulla fronte, indi lo accarezza e lo bacia teneramente. Lì mi sono allontanato dando, a madre e figlio, la possibilità di parlare con riserbo. Più tardi, in albergo, durante una frugale colazione si decise sul da farsi.
Per causa dei suoi inderogabili impegni di lavoro, la mattina successiva, Maurice e Louiselle, accompagnati in aeroporto, presero il volo per Parigi, via Milano, mentre la signora era rimasta in attesa di partire con me, alla volta della capitale francese, non appena sarebbero state disbrigate le pratiche per il rientro in patria del cadavere dello sfortunato turista straniero. Si profilarono lungaggini superabili in un solo modo.
Per suggerimento dello stesso Maurice, che mi aveva imposto di non badare a spese affinché la salma del proprio padre raggiungesse quanto prima la cappella di famiglia, affido la risoluzione del difficile problema ad un agenzia di onoranze funebri con sede a Taormina. Il signor Peppino Bambara, (nome autentico) titolare dell’azienda, rende noto che l’intero disbrigo delle pratiche dipendeva dal comune di Messina, ed essendoci di mezzo il giorno di pasquetta, gli uffici avrebbero aperto i battenti non prima di martedì. Dopo aver chiesto un’anticipazione alla signora, lo stesso giorno di pasquetta si era messo in viaggio per Messina, per andare ad ungere le ruote. Mi aveva confidato.
Da non crederci! Nelle prime ore della mattinata del martedì 24 aprile, (potenza del Dio denaro) tutti gli atti riguardanti il decesso ed il trasporto del feretro all’estero, erano pronti.
Delegato nella scelta della bara, non mi si presentarono seri problemi. “Semplice, niente arabeschi che indicassero simboli di morte. Coute que coute!,” (costi quel che costi) aveva detto Maurice. Era piaciuta molto alla signora e, più tardi, al resto della famiglia.
Il viaggio in Sicilia volgeva tristemente alla fine. Mi sono premurato a far caricare la Giulietta su un carro merci, delle ferrovie di stato con destinazione Palermo, incaricando per lo svincolo la stessa ditta noleggiatrice, dando la garanzia che il saldo di ogni onere sarebbe avvenuto con bonifico bancario.
Il mercoledì mattina, abbiamo dato disposizioni affinché il feretro venisse caricato. Madame Quimphèr ha voluto che la bara fosse stata coperta da un drappo di velluto nero, e addobbato da una ghirlanda di fiori freschi. Tutto era stato eseguito dal signor Bambara. Al quale, senza esitare, gli era stata saldata ogni sua spettanza. La signora ed io, invece, abbiamo seguito il feretro in carrozza Wagon-Lit, con destinazione Gare de Lyon.
I funerali, in presenza di alcune centinaia di persone, hanno avuto luogo presso la Basilica “Le Sacre Cœur, à Montmartre. Avevo preso posto nelle ultime file di panche, quando vedo Maurice venire in mia direzione, e presomi per l’avambraccio mi sussurra:
«Venez avant Jovannì, entre nous». (venite avanti, fra noi) E con un gesto della mano mi invita a sedere fra la madre e il resto della famiglia. Nessuno sguardo con Virginie, pochissime parole, e mai soli. Durante il viaggio in treno, avevo letto la lettera che mi era stata da lei inviata.
A fine cerimonia è stato Maurice ad accompagnarmi ad Orly Aéroport. E dopo avermi abbracciato, inserisce qualcosa nel taschino esterno della mia giacca, dicendomi che quei soldi erano il rimborso delle spese specialistiche da me sostenute.
Il cambio di quei Franchi in Lire, ci ha dato la possibilità di estinguere il lungo debito contratto con la banca, la cui origine era d’attribuirsi all’acquisto della nuova macchina. Mentre di ciò che era rimasto, – cifra abbastanza rispettabile, – abbiamo aperto un conto corrente presso un Istituto di Credito.
Epilogo
Avevo, già, ottenuto l’impiego all’Enit di Roma, quando per il tramite di Mamy apprendo una notizia a dir poco sconvolgente. Dall’assurdità dei luttuosi avvenimenti, di cui mi faceva cenno, sembrava che la maledizione degli Dei si fosse abbattuta su quella casa. Maurice, primogenito, affetto da diversi anni da un male incurabile all’apparato genito-urinario, era venuto a mancare a soli 45 anni. Un lasso di tempo dopo, quantificabile in poche settimane, Michel, il più giovane della famiglia Quimphèr, recatosi a Nouméa per una battuta di pesca, era sparito nel nulla come una bolla di sapone.
Sapevo già che a breve scadenza sarei partito per Parigi per assolvere ad un impegno un po’ particolare, che stava a cuore al Presidente chi mi aveva assunto. Ma trattandosi di un incarico “Top Secret” ho preferito di non parlarne neppure con Mamy.
Il giorno del mio arrivo in loco, le faccio uno squillo dai nostri uffici, e al benvenuto datomi segue l’invito ad incontrarla a casa sua. Alle ore 17.00, orario da lei fissatomi, busso alla porta, ad aprirmi è la badante che m’invita a seguirla.
Mi appare provata, emaciata, canuta e vistosamente claudicante, tanto da scaricare il peso del suo esile corpo su di un bastone. Mi ha fatto accomodare parlandomi di alcune vicissitudini, soffermandosi un po’ più sulla scomparsa del figlio minore. La cosa non poco mi ha costernato. Mamy non era più quella che, poco più di un decennio prima, al Ristorante Ficodindia, aveva detto a mia madre che ero un ragazzo terribile.
Mi ha fatto tanta tenerezza. Le chiedo come l’aveva preso Virginie con la scomparsa del marito, scosse il capo non esprimendo alcun parere. Ma in contraccambio ha fatto cenno all’attuale stato di salute della nuora, dicendo che stava male, “très, très male.” Ho preferito non indagare nel merito. Indi, alzatasi faticosamente in piedi, dandomi ad intendere che era giunto il momento di lasciarla nella sua apparente tranquillità, l’ho salutata con preghiera di porgere i miei saluti per il resto dei familiari.
Non distante dalla Rue Jacob, mi era stato prenotato un alberghetto decoroso, e prima di congedarmi le ho comunicato il nome. Pochi minuti dopo parlottavo con il “concierge” volendo sapere da questi di un ristorantino, un bistro dove servissero delle buone ostriche della Normandia. L’uomo dalle chiavi d’oro era stato lesto nel darmi le esatte coordinate, puntualizzando: “che era sempre là che inviava i suoi cliente italiani.”
Avevo appena chiesto la chiave della camera per andar su a darmi una rinfrescata. Quando ho udito una voce piena di raucedine dire:
«Jovannì.» Era stata sicuramente Mamy ad informare Virginie della mia presenza a Parigi, dandole, anche, il nome dell’albergo. Sono rimasto trafitto nel vedere il suo stato di salute. E, presto, mi sono reso conto delle tre parole proferite mezz’ora prima dall’anziana donna: “très, très, male. In effetti Virginie, era un morto vivente. Uno zombi. Nondimeno la tirai a me per baciarla, ma lei mi ostacolò ponendo la sua mano in mezzo. Scese fra noi un silenzio abissale. Infine rompo la quiete chiedendole se all’ora di cena avesse da fare. Ha scosso il capo in segno di diniego. E sorridendole l’ho invitata a venire in trattoria con me, a mangiare delle ostriche.
Mi ha risposto che da circa un anno non faceva più vita di società e non frequentava più i locali pubblici. Si concedeva soltanto la libertà di recarsi, una volta tanto, a casa della suocera. Ero tentato di dirle di darsi una sistemata e seguirmi. Ma come se l’avesse intuito mi precede proponendomi di recarci al Bar dell’hotel per bere qualcosa.
Ero indeciso quale degli argomenti che mi passavano per la mente, in quel momento, trattare per primo. Quando d’amblé le chiedo del marito. Leggo sul suo viso scarno una smorfia che sapeva di indifferenza.
Dopo aver taciuto altri secondi lasciandomi intuire che stava riflettendo su ciò che voleva dire, fissandomi negli occhi, mi ha chiesto se il suocero, prima di morire aveva fatto in tempo a darmi una lettera. Conscio che stavo per mentire, le ho risposto che non sapevo nulla della lettera. “Era una mia missiva dentro la quale chiedevo scusa a tua moglie per la condotta scorretta che ho avuto quel pomeriggio al buffet, imboccandoti in sua presenza e facendola ingelosire, ma credimi Jovannì mi era stato suggerito dalla quantità di Sangria che avevo trangugiato.” Mi sono accorto che mi stava dando del Tu. Ma ciò che aveva finito di dire, circa il contenuto di quella lettera corrispondeva a verità, e che non era più il caso di prenderlo in esame.
Ha proseguito parlandomi della morte del proprio marito, soffermandosi in alcuni particolari di cui ero lontano anni luce dal poterlo supporre. Diversamente di quanto la famiglia aveva dato ad intendere, Michel non si era recato a Nouméa per una battuta di pesca, bensì con il proposito di farla finta. Stava lì assorta a centellinare la sua bibita. Quando con una moina che una volta aveva l’importanza di un sorriso, riprese il discorso raccontando: che notte tempo portatosi alcune miglia a largo delle coste coralline, facendo uso di una bacinella con dentro un sasso, si era legato alle caviglie una sartia lunga alcuni metri, lasciandosi andare in quel mare non eccessivamente profondo. Spinta dal forte vento, la barca era stata ritrovata oltre 10 miglia da quel tratto di mare. L’imbarcazione, a parte d’essere stata trovata a secco di carburane, non rilevava nessuna traccia dell’uomo. E nessuno era in grado di dare conferma che era stato lui ad essersi servito di quella barca da pesca. Alcuni mesi dopo un peschereccio d’alto mare pescando in quelle acque, aveva riportato a galla la rudimentale zavorra. A prova sicura del suicidio, null’altro esisteva che una doppia gassa all’estremità di quei due metri di sartia; traendone la conclusione che aveva dato il suo corpo in pasto agli squali. In un certo modo era sparito davvero come una bolla di sapone, come aveva detto per telefono Madame Quimphèr, nascondendo la verità.
Mi è venuto spontaneo chiederle che cosa aveva spinto il marito a mettere in atto un sì folle progetto. Ha risposto che aveva visto Michel baciare sulle labbra la piccola Louiselle. Provando, forse, disagio di questo stato di cose, aveva meditato il suicidio. Alcuni mesi dopo la scomparsa del marito, Virginie, tormentata dal persistente stato febbrile, era stata ricoverata in ospedale, e dimessa giorni dopo col vile responso di un’infezione polmonare antibiotico-resistente. E da lì era stata dimessa con la nefasta ipotesi d’aver pochi mesi di vita. A quel punto le porgo alcune domande: la prima era stata quella perché non aveva avuto figli con Michel. Mi ha risposto, che per quel sesto senso che predomina nella donna, non vedeva in lui il padre premuroso di un suo futuro bambino. Risposta poco plausibile la sua. Con la successiva le ho chiesto se i coniugi Quimphèr sapevano dell’anomalia del loro figlio minore. La vedo riflettere. Indi scuote il capo dicendo:
«No comment!» Mi è venuto spontaneo formulare, ancora un paio di domande, fuori sacco, chiedendole il motivo per cui non l’avesse mollato. Ha risposto che era attratta dalla bellezza delle sue mani, ma soprattutto dalla profonda cultura. (balle, dico fra me.) Infine azzardo con la domanda che mi dà per scontato un secondo “No comment”
«Sono stati i coniugi Quimphèr ad averti suggerito d’avanzare quella proposta!?»
«Sì!» rispose «Soprattutto l’ingegnere, che si era reso conto di non aver eredi maschi.»
«Da dove scaturiva questa sua certezza!» le chiedo.
«Su Maurice si era dovuto intervenire ripetutamente di prostatectomia, prima parziale e poi totale, mentre Michel sottopostosi per mia volontà a delle particolare analisi era risultato non idoneo alla procreazione, sterile, quindi, ma efficace.»
Grata per quel mio secco “NO”, alzatasi sulle sue malferme gambe ribatté: “sotto la tutela di chi, adesso, sarebbe andato a finire il nostro bambino!” E nel tendermi la mano per l’ultima stretta, aggiunse:
«Adieu Jovannì, soi heureux avec ton adorable femme!» (sii felice con la tua adorabile moglie!) ho avvertito un groppo alla gola e mi sono sentito pervaso da un profondo senso di colpa… Con il senno del poi è maturata, sì, qualcosa! Potendo tornare indietro, – pur di non vederla morire a soli trent’anni – oggi direi “SÌ”. Voi lettori piuttosto!? (esprimete la Vostra opinione in un commento) Dopo un breve periodo di tempo, stimabile in due settimane, a distanza di pochissimi giorni, scomparvero nuora e suocera.
Correvano i primi mesi degli anni ’90, quando da Tokyo mi sono sentito per l’ultima volta con Florence. Oggi, nonostante i miei notturni Web surfing, non sono riuscito a mettermi sulla scia dei Quimphèr. Già! Che sbadato!! Confermato da Virginie, era impossibile che ve ne fossero.
Ad maiora!
Gianni D’Amico
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mercoledì 26 maggio 2010
“Sul filo del guardrail…”
Prologo
Consapevole di essermi venuto a trovare fra quel ceto sociale predominante, (personalità politiche elette dal Parlamento) colui che scrive, munito di quel senso di discrezione e forza d’animo, è riuscito in qualche modo a servire con dignità due Presidenti. Ma sentite come.
* * *
Cresciuto fra i G.I., (Goverment Issued) non potrei in nessun caso smentire quanto filo-statunitense possa essere. E fu proprio grazie alla persistente frequenza con gli Yankee che appresi la loro lingua, ed è per effetto di questa mia saggezza maturata in giovane età, che ancora oggi tengo in serbo la mia gratitudine al Professore Giovanni Caporaso. Socialista nel “physique du rôle.” L’uomo che, al cospetto delle tre sigle sindacali aziendali, investì – nella maniera più disinteressata – la sua reputazione su colui che scrive.
Proprio quel giorno di fine settembre, mi era stato affidato un quartetto di studiose turiste americane alle quali avrei dovuto far percorrere il classico itinerario, che era quello che includeva l'antico Teatro annesso al Tempio Greco di Segesta, e la massiccia Acropoli di Selinunte. Più tardi, in ottemperanza alle disposizioni imposte dall’Agenzia di Viaggi, la seconda colazione era da consumarsi al ''Ristorante La Scogliera'', in località Marinella; e per l’occasione, cosa che accadeva quasi sempre, ero stato invitato a sedere a tavola con loro. Mentre prendevamo posto, alla mia sinistra sedeva una famiglia italiana composta da tre persone: i due coniugi e la loro figlioletta di dieci anni. La mia scelta, sulle portate, fu molto semplice e determinata, da tradizione, oserei dire: tagliolini alle vongole al cartoccio, e frittura di pesce da scoglio. E da bere un calice di un bianco freddo di Ribera.
Le signore, invece, ordinarono un grosso sarago da far grigliare e dividere per quattro. Ma valutate le dimensioni di quel pesce, dovettero per forza fare a meno della prima portata.
Con la coda nell’occhio mi accorsi che anche la signora italiana, attratta, forse, dalla novità dei tagliolini al cartoccio, chiese al cameriere la mia stessa portata. Mentre il marito non esitò un solo istante a ordinare l’altro sarago dalle dimensioni non molto inferiori a quello scelto dalle archeologhe americane.
A fine pranzo, i commenti sulla prelibatezza di quei cibi, furono lusinghieri quanto gratificanti, sia per lo chef che per colui che, nella forma più spassionata, aveva dato qualche suggerimento sulla scelta. In realtà c’era poco da scegliere, in quel locale ci si andava per mangiare dell’ottimo pesce, che proprio quel giorno il pescato esposto nel largo paniere, sussultava ancora sotto le carnose alghe.
Dovendo rispettare i tempi a nostra disposizione, siamo stati i primi ad alzarci, scambiandoci un saluto reciproco assecondato dai più sentiti ringraziamenti da parte della famiglia italiana.
Ma il dì successivo, accadde uno sgradevole sinistro: il collega che aveva assistito la famiglia italiana, era scivolato su di una chiazza d'olio causandosi la lussazione ad una caviglia.
Soccorso da chi scrive, e da un altro compagno di lavoro, venne trasferito d’urgenza al policlinico e là posto sotto trazione.
Quel giorno, quella data, e quell'increscioso episodio, mutò il futuro della mia vita. Il programma di lavoro di Riccardo, sarebbe stato quello di mostrare la città e dintorni a quella famiglia italiana incontrata a Selinunte. E rivoltosi a me disse:
«Vai tu in vece mia. I Signori Caporaso risiedono al Grand Hotel Villa Igiea: ieri, al ristorante hai dato loro una bella impressione, e sulla via di ritorno hanno parlato bene di te. L'appuntamento è per le ore dieci e trenta».
Strizzandogli un occhio, lo salutai con un “in bocca al lupo”.
Raggiunsi Villa Igiea, e andato su per quei sei gradini, mi si parò innanzi la ragazzetta, dicendomi:
«Buongiorno, signor D’Amico! I miei genitori non tarderanno ad incontrarla, stanno per finire di consumare la loro colazione. È stato il portiere ad avvertirci della sostituzione di Riccardo, lei è una persona simpatica, mentre non lo è stato Riccardo, però non mi piacciono i suoi occhiali da sole». Seguì una battuta umoristica che la lasciò pensierosa:
«Comprane un paio che piacciono a te, e me ne fai omaggio.»
In effetti, pochi minuti dopo, vidi il papà di Margherita accostarsi alla portineria e adagiare la chiave sul desk. A quel punto gli andai incontro e dandogli il buongiorno dissi:
«Mi chiamo D’Amico. Preso atto che Riccardo si è infortunato, da essere stato ricoverato in ospedale, sarò io oggi a farvi da guida ai monumenti». Frattanto sopraggiungeva la moglie.
«Daremo inizio al nostro “sightseeing tour” partendo da Monreale», comunicai loro prima che si sedessero in auto.
«Senta D’Amico, sono stati rivoluzionati i piani, io sono stato diverse volte a Palermo, e conosco bene tutta la Sicilia archeologica, lei mi lasci a Piazza Verdi, al Teatro Massimo, e si metta a disposizione di mia moglie. Ah! Complimenti per il suo inglese, con perfetto accento americano. Ha vissuto in America, suppongo!»
Diedi, in sintesi, chiarimenti su come e perché parlavo discretamente bene la lingua degli "Yankee״.
«Grazie per i suggerimenti di ieri, sono stati molto graditi, e il cibo squisito, sia i tagliolini con salsa di vongole al cartoccio che il sarago alla brace.» disse la signora, strada facendo.
La mattinata era trascorsa rendendo felice anche la giovane Margherita, desiderosa di visitare il mercato delle pulci, al Papireto, laddove aveva acquistato la sponda, artisticamente decorata, di un antico carretto siciliano, e alle ore 13,00 avendo preso accordi con il dottor Caporaso, andammo ad incontralo a Piazza Verdi, laddove era stato lasciato. Questi dopo essersi accomodato in macchina, parlò sottovoce con la propria moglie. E, poi, rivoltosi allo scrivente gli chiese:
«Oggi ci farà mangiare del buon pesce come quello di ieri?» riflettei alcuni secondi, ponderando bene la proposta che stavo per fare, e infine la buttai lì pensando che mi sarebbe stata respinta.
«Ci sarebbe la possibilità di mangiare del buon pesce! Però si tratterebbe di dover andare in una trattoria molto popolare, laddove la servono con la tovaglia di carta e le posate lasciate ammucchiate al centro del tavolo, ma sulla genuinità del cibo me ne assumo tutta la responsabilità.» dissi io, facendo allusione alla più rinomata trattoria del capoluogo: “a ‘ngrasciata” (la sozza).
«Ah, guardi, noi non siamo dei classisti, il popolo non mi ha mai dato alcun fastidio, ansi! È proprio in lui che devo confidare per essere votata ed eletta. Poi i Castelli Romani sono ricchi di trattorie popolari, ed è lì che si mangia divinamente bene» aggiunse lei. Mentre io, avendo udito parlare di elezioni, affilai le orecchie…
Fra una portata e l’altra, ebbi modo di appurare che la signora si era candidata per il Senato presso il Collegio di Mantova. Mentre il marito era il Presidente dell’E.N.I.T., entrambi Socialisti. Mi tornarono in mente le parole di due anziane turiste italiane, che il giorno del lunedì di Pasqua, dandomi una grossa regalia, dissero: “Ricevere un regalo il giorno di pasquetta ha portato sempre fortuna, vedrà che entro l’anno lei troverà un lavoro sicuro. A quel punto, come se mi fossi trovato su di un trampolino, mi lanciai giù a capo fitto. E chiesi loro se avessero potuto fare qualcosa per un avvenire migliore. Fu la futura Senatrice a dire al proprio marito:
«Credi di poter fare qualcosa, tu, Nino?!»
«Non so, ho le organizzazioni sindacali aziendali addosso, la CISL, soprattutto, che mi tiene sotto tiro e mi ricatterebbe per tutto il perdurare del mio mandato.» poi, rivoltosi ancora una volta a colui che scrive, disse:
«Si trasferirebbe eventualmente a Roma?»
«Certamente! In qualunque momento.» risposi.
Il giorno successivo li accompagnai in aeroporto, e dopo averli assistiti per il check-in, augurai loro il buon viaggio. Quando Margherita, ultima ad essere stata salutata, mi porse un pacchetto dicendo:
«Questo è per lei!» dal particolare involucro griffato, Ottica Randazzo, non fu difficile intuire cosa racchiudesse quella scatolina. Tuttavia, la scartai in loro presenza e, grato del dono ricevuto, mi affrettai a indossare quei Ray-Ban, che a tuttoggi salvaguardo con tenerezza.
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, nella Sicilia Occidentale, un terremoto di immane violenza sconvolse la Valle del Belice, Decine di migliaia furono i senzatetto. Totalmente rasi al suolo Salaparuta, Poggioreale, Gibellina, Santa Ninfa, Montevago e Santa Margherita Belice. Ma da questo cataclisma, il Professor Caporaso ne seppe trarre un gesto intelligente, ma soprattutto umano. Con un valido pretesto, cioè quello che stava per assumere un terremotato, smontò la tesi a tutte e tre la organizzazioni sindacali.
Era il 24 marzo, quando ricevetti una lettera Raccomandata Espresso, con ricevuta di ritorno. Questa recava la stampigliatura “IL PRESIDENTE”. Mi affrettai ad aprirla, e mi resi conto che le anziane signorine Migniavacca, titolari della Campari Spa, nell’aver detto che: "ricevere un regalo il giorno di Pasquetta avrebbe portato fortuna"; dal primo di Aprile, del 1968, venivo assunto all’Ufficio di Frontiera di Ventimiglia e, per esigenza di servizio, trasferito presso la Sede Centrale.
I rappresentanti sindacali, contrari a qualunque forma di assunzione, al di fuori dei concorsi – mai effettuati – e dei loro "pupilli", erano stati bidonati. Su quella lettera, firmata di Suo pugno, si leggeva chiaramente la promessa che più tardi mantenne: stabilità d'impiego e possibilità di carriera.
Anche io, potendo, avrei scelto il cammino dello studio e il conseguimento di un titolo accademico, ma non potendo realizzare il mio ideale, in attesa di tempi migliori, idealizzai la mia realtà ...
* * *
Avevo 33 anni, allorquando il 6 aprile del 1968, varcai la soglia della più grande struttura turistica del parastato italiano, i cui compiti istituzionali erano e sono quelli di promuovere il flusso turistico dall’estero verso l’Italia. Cos’altro, più di questo, si proponeva di realizzare quel monello di borgata incontrato da voi lettori nei miei precedenti racconti??
Pochi mesi dopo la mia assunzione di ruolo, – con le mansioni temporanee di autista del Presidente – entrai nelle grazie di quel filantropo da esser considerato elemento costitutivo della sua famiglia.
Difatti, la stima nei confronti di chi scrive si dimostrò smisurata, tanto che un giorno, incontratosi in un ristorante di Firenze con il grande politico Nenni, mi presentò a lui dicendo:
«Pietro, ti presento un mio amico».
«Ma, circa un anno dopo, concluso il suo mandato, durato cinque anni, tornò ad occuparsi delle sue attività imprenditoriali senza però che venissero meno i nostri rapporti amichevoli, anzi, piuttosto li rafforzammo.
A lui subentrò un altro Presidente proposto da un partito politico d’opposizione, e per questioni caratteriali (ipotizzo) si venne a creare un assodato clima di infantile ostilità.
“Absit iniuria verbis!” Di anni oramai ne sono trascorsi tanti, non vale la pena quindi di farne una tragedia, perché poi, volendoci riflettere, alcuni casi hanno quel “retrogusto” umoristico e a volte apologetico.
Non potei più avvalermi del mio fine settimana di riposo, e la domenica mattina, invece di condurre i miei bambini agli scivoli di Villa Ada, era indispensabile che gli portassi a casa tutti i quotidiani nazionali. E, credetemi, alcuni di questi rimanevano in macchina passando inosservati.
“Sono il signor Presidente, venga da me!” era la telefonata perentoria che ricevevo quotidianamente.
A questa plumbea atmosfera collimarono una serie di spiacevoli eventi che, in qualche modo, contribuirono a delineare il mio futuro.
* * *
Erano le ore 14.00, quel giorno, quando uscendo dal suo domicilio presidenziale mi disse:
«Facciamo una volata da rally alla sede del partito.»
Al quadrivio di Via Solferino intoppammo in un semaforo a luce rossa. Non c’era altra alternativa che lasciare trascorrere quei 120 secondi.
«Lei se ne frega degli impegni che mi accollo per tutti voi! Le ho appena finito di dire facciamo una volata alla sede del partito, e mi pianta dieci minuti qui ad attendere come un broccolo.» Feci presente che dal momento ch’eravamo in prossimità del semaforo la luce era già rossa, e proprio questo genere di multe le pagavamo di tasca nostra. Ci venivano sottratte dallo stipendio in un’unica soluzione. Tuttavia, lo rassicurai che avremmo recuperato quei due minuti andati persi. A labbra strette coccolai il pannello di controllo, fermandomi sul contagiri, ma con questo gesto intendevo accarezzare tutto l’insieme dei dispositivi che, per il recupero di quel breve lasso di tempo, avrei messo sotto eccessivo sforzo: albero motore, bielle, cilindri, iniettori, ingranaggi della scatola del cambio, ma più che altro sarebbero stati gli organi di trasmissione e direzionali a soffrirne. E detto senza l’ombra della spocchia, dei freni ne avrei potuto fare anche a meno. Tutti i congegni dovevano rispondere in maniera simultanea alle mie energiche sollecitazioni. Era una volata da rally, come mi era stato chiesto di fare. Una sorta d’invito a nozze.
Lisciavo il pomello della cloche dicendo fra me: “occhio lungo e sangue freddo, Gianni.” Lui sapeva bene che io entravo all’unisono con l’auto che guidavo, ma soprattutto con i suoi sistemi di stabilità. Prova ne era stata la Statale 17, Roma L’Aquila. Quella volta prima che partissimo con la consueta fretta gli chiesi:
«Nel caso si venisse a verificare di prendere una multa per eccesso di velocità, la paga lei signor Presidente!?»
«Vada!!!» mi urlò irritato. Mi sono sentito ridicolizzato. In Sicilia ero vissuto di turismo, pane e curve, e mai un incidente. Mai!!. Interpretai quel “Vada” come un guanto sbattuto in faccia, al quale gesto segue l’inevitabile sfida a singolar tenzone. Ce la misi tutta, quella volta, bruciando alla grande i tempi predeterminati. Tanto che all’arrivo gli chiesero se fosse venuto in elicottero.
Dopo questo breve divagare, riconduco il lettore al semaforo di Via Solferino, incrocio San Martino della Battaglia, per chi conosce Roma. A quell’ora le auto in circolazione si potevano contare sulle dita di una mano. Fu la prima volta in vita mia che, alla guida di una berlina 2.000/cc, mi considerai in “poll position”.
Un secondo prima che scattasse la sospirata luce verde, avevo lasciato due millimetri di caucciù sull’asfalto, e buttandomi a capo fitto per il sottovia di Castropretorio, in quel tratto semibuio, avevo già inserito le quarta marcia.
Non provate a cimentarvi in questa impresa. Senza gli occhiali fotocromatici è molto rischioso passare dalla luce solare al buio, e viceversa. Alcuni secondi dopo, con la coda dell’occhio sinistro scorgo Porta Pinciana. Il contachilometri segnava 120/h, mentre il contagiri, Jaeger, sollecitato dall’incessante scalare ed accrescere delle marce era letteralmente impazzito. Ecco che, nella stessa maniera in cui il surfista attende la grande onda da cavalcare, mi si presentava quello che aspettavo: il temuto curvane del Murotorto. Diedi un colpo d’occhio allo specchietto retrovisore e vidi il mio Presidente sedersi al centro del sedile e reggersi con entrambe le mani ai maniglioni dei due sportelli.
Ci separavano un centinaio di metri dalla lunga curva in discesa: le curve in discesa, e a sinistra, sono ancor più insidiose. Accostai l’auto a destra, sul filo guardrail, e dalla quarta marcia inserii la terza, udii il motore ruggire, sembrava che chiedesse d’affondare l’acceleratore. Cosciente della sincronizzazione del cambio, effettuai un ultimo doppio débrayage che mi consentisse di portare l’albero motore oltre i 3.000 giri, per inserire con maggior sicurezza la seconda marcia, imballando paurosamente il meccanismo tanto da scuotere la scocca.
Mi accorsi che era presente e con tutta la sua superba potenza. Lì affondai a tavoletta dando di sterzo per tagliare quanto più stretta la curva. In quegli attimi percepii il volante senza molta consistenza con il fondo stradale. Mi resi conto che stavo abbordando la curva sulle due ruote di destra.
Fui tentato di dare una lambita al pedale del freno, ma sarebbe stata la nostra fine, l’auto avrebbe perso la forza centrifuga avvitandosi su se stessa come un aereo nelle sue evoluzioni acrobatiche.
Il resto è facile intuirlo: non sarei qui a raccontarlo, né voi lettori a leggerlo!! Il sangue freddo che mi ero imposto d’avere, in quella particolare situazione, era riuscito a mantenere imperturbato il mio stato emotivo.
Devo ammettere, tuttavia, che il vento che soffiava da levante era stato provvidenziale, poiché è stato anche grazie a lui che per quel principio aerodinamico si è potuto verificare, l’auto nel fendere l’aria aveva creato una parete resistente su cui appoggiarsi.
Giungemmo alla sede del partito trovando molti esponenti bighellonare per strada. Accarezzai il pannello di comando nella maniera in cui lo si fa sul collo di un purosangue, e nell’azzerare il sistema udii un rumore metallico, una sorta di nota standard emessa dal diapason, provenire da sotto l’avantreno…
Lui scese dall’auto con il volto cadaverico, ficcò due dita dentro il colletto della sua camicia facendoli girare intorno al collo, e dopo avere stirato la pelle sotto il mento, esplose in una risata isterica, ribattendo:
«Lei me l’ha fatto di proposito, per farmi ricuperare quei due minuti persi al semaforo, facendomi correre il rischio d’esser colto da infarto.»
«Mi rincresce, signor Presidente! Ho provato ad immedesimarmi negli impegni che Ella si accolla per me, ignorando che fosse cardiopatico.»
Un grande scrittore, (Pirandello, forse) lasciò detto: “anche l’uomo più umile di questa terra, una sola volta nella vita, ha i suoi cinque minuti d’orgoglio.”
… Tirai su i pantaloni per le pieghe e mi chinai sotto l’auto per rendermi conto cos’era accaduto. Si arrossisce per vergogna e s’impallidisce per paura. La barra d’accoppiamento, lato destro, poggiava sopra un selcio con il bullone tranciato. Gli organi di direzione avevano ceduto. Non so se devo attribuirlo ad un miracolo. Non fui in grado di ipotizzare alcuna teoria che potesse dimostrare la mia gratitudine alla nobiltà di quel bolide. Mi recai al vicino Bar a bere un caffè e chiamare il carro attrezzi.
«A Già, hai dato dda magnà a Dracula! ammazza quanto sei anemico!!, bévete mezza fojietta quanno magni, te ritrovo cor viso bianco carta!!» disse Arnaldo.
Mi tornarono in mente le bravate che facevamo una dozzina di mezze teste sedicenti piloti, che nell’abbordare la curva del Viale d’Ercole, nel Parco della Favorita, avrebbe vinto – un pacchetto di sigarette – colui il quale, a velocità cronometrata, sarebbe riuscito ad acchiappare per il collo una bottiglia piena d’acqua posta a fine curva. Furono in tanti quelli che diedero lavoro ai carrozzieri, altri invece distrussero l’auto di papà. La smettemmo quando uno di noi, “stuntman” da strapazzo, andò a schiantarsi contro un Benjamin lasciandoci la pelle. Da allora venne detta la curva della morte.
…Ricorrente l’inaugurazione della BIT di Milano, quel giorno, era atteso dalle più alte autorità regionali: disposi l’auto blu ministeriale in un’area riservata ai “Big” e, come da sua esplicita richiesta, mi premurai ad accompagnarlo per i vari passaggi interni. Camminavo alla sua sinistra, quando in fondo ad un corridoio vidi un nutrito gruppo di persone che lo attendevano. A tuttoggi non mi sento affatto responsabile dell’antipatico quanto deprimente equivoco di cui stavo per divenire protagonista, ma con elevate probabilità era d’attribuirsi ai miei 181 Cm. di altezza, contro la sua non più di 160. Pertanto venni scambiato per il Presidente. Notai che alcune autorità d’ambo i sessi mi vennero incontro per la consueta stretta di mano. Fui lesto a dir loro che non ero io la persona importante da riverire, bensì il distinto signore in doppio petto alla mia destra. Non sono in grado di stabilire chi dei tanti si sia buscato il cazziatone. Ma di certo c’è che la gaffe era stata colossale.
Alcuni giorni dopo, in un Palazzo del ‘500 del centro di Roma, fu ospite Frank Borman, Comandante della missione Apollo 8, che insieme agli altri due Astronauti, James Lovell e Bill Anders, avevano sorvolato per la prima volta la superficie lunare. Il convegno, in onore del Colonnello Borman, durato alcune ore, si era concluso con un semplice rinfresco nello stesso giardino del palazzo.
Quando questo volgeva alla fine, vidi a distanza la figura del cosmonauta venire nella mia direzione, era solo, simile evento mi straniò al punto tale da far affiorare in me la legittima domanda: fra tutte quelle autorità presenti al meeting, non c’era nessuno che potesse offrirgli un briciolo di compagnia!? Mi sembrò un gesto affabile andargli incontro per scambiare poche parole. Non ci pensai due volte. Stava rispondendo alla mia domanda, raccontandomi di aver avuto un incontro ravvicinato con un UFO, il quale dopo avere effettuato alcuni giri intorno alla sua astronave, sparì nello spazio alla velocità della luce. Sebbene fossi rapito dalla storia così sorprendente che stavo ascoltando, mi accorgo però che stava per sopraggiungere il mio Capo. Non so la ragione per cui lo facesse, ma il fatto sta che, se pur non ci fosse un valido motivo, andava sempre di fretta. Credetti opportuno rivolgermi a lui dicendo:
«Le presento Mr. Borman!» indi rivoltomi a Mr. Borman, ribadii:
«May I have the pleasure to introduce to you the Italian Government Tourist Board’s Chairman!?» supponendo che, come il Presidente uscente, anche questi parlasse la lingua inglese. Mentre, per quanto mi aspettassi un breve scambio di
opinioni, altro non ebbi che una triste delusione: il Presidente gli strinse la mano, e non proferendo parola alcuna andò a sedersi in macchina.
Il giorno successivo venni richiamato dal Capo del Personale con la pretestuosa insinuazione di inadempienza ai propri doveri. Sostenendo che avrei dovuto presentare il signor Presidente a Mr. Borman, e non come avevo effettuato io da triviale, che avevo introdotto un semplice ufficiale della NASA ad un titolato personaggio politico, nonché Presidente di un Ente di Stato eletto dal Parlamento della Repubblica. Bla...bla…bla.)
«Lei non sa, ancora, che si presenta la persona più autorevole a quella meno autorevole?»
«E quello che ho fatto!» risposi io in tono minore. Riconoscendo l’Astronauta di gran lunga superiore ad un uomo politico di qualsivoglia paese. Decidete voi lettori! Ma qualcuno se lo legò al dito…
* * *
Il quarto evento fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lungo i Viali di Villa Borghese, una brusca frenata fatta per evitare la più che certa collisione con un folle taxista, che per non aver rispettato la segnaletica verticale prima, ed orizzontale successivamente, me lo vidi a testa giù sul sedile anteriore con il viso avvolto nel giornale che stava leggendo. Tuttavia, sia pur ritenendomi totalmente dal lato della ragione, presentai le mie scuse al mio illustre personaggio. Lui dopo aver imprecato, aggiunse:
«Lei guida questa macchina in maniera tale da farmi vomitare.» fu lì che arrestai la vettura ricordandogli con dovuta creanza, ma senza l’ombra del servilismo:
«Il suo parlare è offensivo, signor Presidente. Non mi era stato detto mai da nessuno ciò che ha detto lei, nemmeno quando sulla tortuosa SS/113, alla guida di pullman gran turismo, trasportavo 54 passeggeri. Vuol dire che se dovesse ripetersi non azionerò i freni, così saranno gli altri a poterla raccontare.»
«Stia pur certo che non ci sarà una prossima volta.» rispose.
Un paio di giorni dopo, venni destituito da quel servizio. Al mio posto sedette un nuovo conducente: il portinaio dell’immobile di casa sua. (nulla da eccepire) Chiesi un incontro in presenza del mio rappresentante sindacale, e per tutta risposta tirò fuori una battuta alla quale rise soltanto lui:
«Voi siciliani siete permalosi.» fui tentato di rispondere con un aforisma latino, ma prevalse la regola delle dieci “P” (prima pensa poi parla poiché parole poco pensate producono pene) e scelsi di pensare. Ciononostante, devo ammettere che era un uomo di grande carisma. Lo si deve a lui, difatti, se dopo mezzo secolo dalla fondazione, l’ENIT ebbe il suo organigramma, riconoscendo a quel personale titolato, il ruolo e gli emolumenti dovuti. Vi erano dei funzionari, a titolo d’esempio, che nonostante espletassero mansioni dirigenziali, percepivano la retribuzione da inservienti.
A fronte di quanto suesposto, venni assegnato all’Ufficio Informazioni con degli incarichi appropriati al mio diploma; e da lì ebbe inizio la mia carriera. Devo ammettere con tutta onestà, che mi avvidi di avere realizzato il mio ideale, allorquando con un passaporto dalla copertina blu mi affacciai all’estero.
Un uomo che trovandosi in un territorio straniero (e qui concludo) viene rinvenuto sprovvisto di quell’insostituibile documento, non è altro che un benemerito apolide. Gli può andar pure bene se corre in aiuto la sua sede diplomatica.
Nel caso mio, invece, fu quel particolare tipo di passaporto che mi salvò dal marcire in una lurida cella di un altrettanta lurida galera di un paese dell’Est Asiatico, e se ciò fosse realmente accaduto, non sono del tutto convinto se la nostra sede diplomatica di Bangkok sarebbe corsa in mio aiuto.
Di questo più unico che raro avvenimento vi parlerò in un mio prossimo racconto. Forse l’ultimo.
Ad maiora!!
Gianni D’amico.
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Consapevole di essermi venuto a trovare fra quel ceto sociale predominante, (personalità politiche elette dal Parlamento) colui che scrive, munito di quel senso di discrezione e forza d’animo, è riuscito in qualche modo a servire con dignità due Presidenti. Ma sentite come.
* * *
Cresciuto fra i G.I., (Goverment Issued) non potrei in nessun caso smentire quanto filo-statunitense possa essere. E fu proprio grazie alla persistente frequenza con gli Yankee che appresi la loro lingua, ed è per effetto di questa mia saggezza maturata in giovane età, che ancora oggi tengo in serbo la mia gratitudine al Professore Giovanni Caporaso. Socialista nel “physique du rôle.” L’uomo che, al cospetto delle tre sigle sindacali aziendali, investì – nella maniera più disinteressata – la sua reputazione su colui che scrive.
Proprio quel giorno di fine settembre, mi era stato affidato un quartetto di studiose turiste americane alle quali avrei dovuto far percorrere il classico itinerario, che era quello che includeva l'antico Teatro annesso al Tempio Greco di Segesta, e la massiccia Acropoli di Selinunte. Più tardi, in ottemperanza alle disposizioni imposte dall’Agenzia di Viaggi, la seconda colazione era da consumarsi al ''Ristorante La Scogliera'', in località Marinella; e per l’occasione, cosa che accadeva quasi sempre, ero stato invitato a sedere a tavola con loro. Mentre prendevamo posto, alla mia sinistra sedeva una famiglia italiana composta da tre persone: i due coniugi e la loro figlioletta di dieci anni. La mia scelta, sulle portate, fu molto semplice e determinata, da tradizione, oserei dire: tagliolini alle vongole al cartoccio, e frittura di pesce da scoglio. E da bere un calice di un bianco freddo di Ribera.
Le signore, invece, ordinarono un grosso sarago da far grigliare e dividere per quattro. Ma valutate le dimensioni di quel pesce, dovettero per forza fare a meno della prima portata.
Con la coda nell’occhio mi accorsi che anche la signora italiana, attratta, forse, dalla novità dei tagliolini al cartoccio, chiese al cameriere la mia stessa portata. Mentre il marito non esitò un solo istante a ordinare l’altro sarago dalle dimensioni non molto inferiori a quello scelto dalle archeologhe americane.
A fine pranzo, i commenti sulla prelibatezza di quei cibi, furono lusinghieri quanto gratificanti, sia per lo chef che per colui che, nella forma più spassionata, aveva dato qualche suggerimento sulla scelta. In realtà c’era poco da scegliere, in quel locale ci si andava per mangiare dell’ottimo pesce, che proprio quel giorno il pescato esposto nel largo paniere, sussultava ancora sotto le carnose alghe.
Dovendo rispettare i tempi a nostra disposizione, siamo stati i primi ad alzarci, scambiandoci un saluto reciproco assecondato dai più sentiti ringraziamenti da parte della famiglia italiana.
Ma il dì successivo, accadde uno sgradevole sinistro: il collega che aveva assistito la famiglia italiana, era scivolato su di una chiazza d'olio causandosi la lussazione ad una caviglia.
Soccorso da chi scrive, e da un altro compagno di lavoro, venne trasferito d’urgenza al policlinico e là posto sotto trazione.
Quel giorno, quella data, e quell'increscioso episodio, mutò il futuro della mia vita. Il programma di lavoro di Riccardo, sarebbe stato quello di mostrare la città e dintorni a quella famiglia italiana incontrata a Selinunte. E rivoltosi a me disse:
«Vai tu in vece mia. I Signori Caporaso risiedono al Grand Hotel Villa Igiea: ieri, al ristorante hai dato loro una bella impressione, e sulla via di ritorno hanno parlato bene di te. L'appuntamento è per le ore dieci e trenta».
Strizzandogli un occhio, lo salutai con un “in bocca al lupo”.
Raggiunsi Villa Igiea, e andato su per quei sei gradini, mi si parò innanzi la ragazzetta, dicendomi:
«Buongiorno, signor D’Amico! I miei genitori non tarderanno ad incontrarla, stanno per finire di consumare la loro colazione. È stato il portiere ad avvertirci della sostituzione di Riccardo, lei è una persona simpatica, mentre non lo è stato Riccardo, però non mi piacciono i suoi occhiali da sole». Seguì una battuta umoristica che la lasciò pensierosa:
«Comprane un paio che piacciono a te, e me ne fai omaggio.»
In effetti, pochi minuti dopo, vidi il papà di Margherita accostarsi alla portineria e adagiare la chiave sul desk. A quel punto gli andai incontro e dandogli il buongiorno dissi:
«Mi chiamo D’Amico. Preso atto che Riccardo si è infortunato, da essere stato ricoverato in ospedale, sarò io oggi a farvi da guida ai monumenti». Frattanto sopraggiungeva la moglie.
«Daremo inizio al nostro “sightseeing tour” partendo da Monreale», comunicai loro prima che si sedessero in auto.
«Senta D’Amico, sono stati rivoluzionati i piani, io sono stato diverse volte a Palermo, e conosco bene tutta la Sicilia archeologica, lei mi lasci a Piazza Verdi, al Teatro Massimo, e si metta a disposizione di mia moglie. Ah! Complimenti per il suo inglese, con perfetto accento americano. Ha vissuto in America, suppongo!»
Diedi, in sintesi, chiarimenti su come e perché parlavo discretamente bene la lingua degli "Yankee״.
«Grazie per i suggerimenti di ieri, sono stati molto graditi, e il cibo squisito, sia i tagliolini con salsa di vongole al cartoccio che il sarago alla brace.» disse la signora, strada facendo.
La mattinata era trascorsa rendendo felice anche la giovane Margherita, desiderosa di visitare il mercato delle pulci, al Papireto, laddove aveva acquistato la sponda, artisticamente decorata, di un antico carretto siciliano, e alle ore 13,00 avendo preso accordi con il dottor Caporaso, andammo ad incontralo a Piazza Verdi, laddove era stato lasciato. Questi dopo essersi accomodato in macchina, parlò sottovoce con la propria moglie. E, poi, rivoltosi allo scrivente gli chiese:
«Oggi ci farà mangiare del buon pesce come quello di ieri?» riflettei alcuni secondi, ponderando bene la proposta che stavo per fare, e infine la buttai lì pensando che mi sarebbe stata respinta.
«Ci sarebbe la possibilità di mangiare del buon pesce! Però si tratterebbe di dover andare in una trattoria molto popolare, laddove la servono con la tovaglia di carta e le posate lasciate ammucchiate al centro del tavolo, ma sulla genuinità del cibo me ne assumo tutta la responsabilità.» dissi io, facendo allusione alla più rinomata trattoria del capoluogo: “a ‘ngrasciata” (la sozza).
«Ah, guardi, noi non siamo dei classisti, il popolo non mi ha mai dato alcun fastidio, ansi! È proprio in lui che devo confidare per essere votata ed eletta. Poi i Castelli Romani sono ricchi di trattorie popolari, ed è lì che si mangia divinamente bene» aggiunse lei. Mentre io, avendo udito parlare di elezioni, affilai le orecchie…
Fra una portata e l’altra, ebbi modo di appurare che la signora si era candidata per il Senato presso il Collegio di Mantova. Mentre il marito era il Presidente dell’E.N.I.T., entrambi Socialisti. Mi tornarono in mente le parole di due anziane turiste italiane, che il giorno del lunedì di Pasqua, dandomi una grossa regalia, dissero: “Ricevere un regalo il giorno di pasquetta ha portato sempre fortuna, vedrà che entro l’anno lei troverà un lavoro sicuro. A quel punto, come se mi fossi trovato su di un trampolino, mi lanciai giù a capo fitto. E chiesi loro se avessero potuto fare qualcosa per un avvenire migliore. Fu la futura Senatrice a dire al proprio marito:
«Credi di poter fare qualcosa, tu, Nino?!»
«Non so, ho le organizzazioni sindacali aziendali addosso, la CISL, soprattutto, che mi tiene sotto tiro e mi ricatterebbe per tutto il perdurare del mio mandato.» poi, rivoltosi ancora una volta a colui che scrive, disse:
«Si trasferirebbe eventualmente a Roma?»
«Certamente! In qualunque momento.» risposi.
Il giorno successivo li accompagnai in aeroporto, e dopo averli assistiti per il check-in, augurai loro il buon viaggio. Quando Margherita, ultima ad essere stata salutata, mi porse un pacchetto dicendo:
«Questo è per lei!» dal particolare involucro griffato, Ottica Randazzo, non fu difficile intuire cosa racchiudesse quella scatolina. Tuttavia, la scartai in loro presenza e, grato del dono ricevuto, mi affrettai a indossare quei Ray-Ban, che a tuttoggi salvaguardo con tenerezza.
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, nella Sicilia Occidentale, un terremoto di immane violenza sconvolse la Valle del Belice, Decine di migliaia furono i senzatetto. Totalmente rasi al suolo Salaparuta, Poggioreale, Gibellina, Santa Ninfa, Montevago e Santa Margherita Belice. Ma da questo cataclisma, il Professor Caporaso ne seppe trarre un gesto intelligente, ma soprattutto umano. Con un valido pretesto, cioè quello che stava per assumere un terremotato, smontò la tesi a tutte e tre la organizzazioni sindacali.
Era il 24 marzo, quando ricevetti una lettera Raccomandata Espresso, con ricevuta di ritorno. Questa recava la stampigliatura “IL PRESIDENTE”. Mi affrettai ad aprirla, e mi resi conto che le anziane signorine Migniavacca, titolari della Campari Spa, nell’aver detto che: "ricevere un regalo il giorno di Pasquetta avrebbe portato fortuna"; dal primo di Aprile, del 1968, venivo assunto all’Ufficio di Frontiera di Ventimiglia e, per esigenza di servizio, trasferito presso la Sede Centrale.
I rappresentanti sindacali, contrari a qualunque forma di assunzione, al di fuori dei concorsi – mai effettuati – e dei loro "pupilli", erano stati bidonati. Su quella lettera, firmata di Suo pugno, si leggeva chiaramente la promessa che più tardi mantenne: stabilità d'impiego e possibilità di carriera.
Anche io, potendo, avrei scelto il cammino dello studio e il conseguimento di un titolo accademico, ma non potendo realizzare il mio ideale, in attesa di tempi migliori, idealizzai la mia realtà ...
* * *
Avevo 33 anni, allorquando il 6 aprile del 1968, varcai la soglia della più grande struttura turistica del parastato italiano, i cui compiti istituzionali erano e sono quelli di promuovere il flusso turistico dall’estero verso l’Italia. Cos’altro, più di questo, si proponeva di realizzare quel monello di borgata incontrato da voi lettori nei miei precedenti racconti??
Pochi mesi dopo la mia assunzione di ruolo, – con le mansioni temporanee di autista del Presidente – entrai nelle grazie di quel filantropo da esser considerato elemento costitutivo della sua famiglia.
Difatti, la stima nei confronti di chi scrive si dimostrò smisurata, tanto che un giorno, incontratosi in un ristorante di Firenze con il grande politico Nenni, mi presentò a lui dicendo:
«Pietro, ti presento un mio amico».
«Ma, circa un anno dopo, concluso il suo mandato, durato cinque anni, tornò ad occuparsi delle sue attività imprenditoriali senza però che venissero meno i nostri rapporti amichevoli, anzi, piuttosto li rafforzammo.
A lui subentrò un altro Presidente proposto da un partito politico d’opposizione, e per questioni caratteriali (ipotizzo) si venne a creare un assodato clima di infantile ostilità.
“Absit iniuria verbis!” Di anni oramai ne sono trascorsi tanti, non vale la pena quindi di farne una tragedia, perché poi, volendoci riflettere, alcuni casi hanno quel “retrogusto” umoristico e a volte apologetico.
Non potei più avvalermi del mio fine settimana di riposo, e la domenica mattina, invece di condurre i miei bambini agli scivoli di Villa Ada, era indispensabile che gli portassi a casa tutti i quotidiani nazionali. E, credetemi, alcuni di questi rimanevano in macchina passando inosservati.
“Sono il signor Presidente, venga da me!” era la telefonata perentoria che ricevevo quotidianamente.
A questa plumbea atmosfera collimarono una serie di spiacevoli eventi che, in qualche modo, contribuirono a delineare il mio futuro.
* * *
Erano le ore 14.00, quel giorno, quando uscendo dal suo domicilio presidenziale mi disse:
«Facciamo una volata da rally alla sede del partito.»
Al quadrivio di Via Solferino intoppammo in un semaforo a luce rossa. Non c’era altra alternativa che lasciare trascorrere quei 120 secondi.
«Lei se ne frega degli impegni che mi accollo per tutti voi! Le ho appena finito di dire facciamo una volata alla sede del partito, e mi pianta dieci minuti qui ad attendere come un broccolo.» Feci presente che dal momento ch’eravamo in prossimità del semaforo la luce era già rossa, e proprio questo genere di multe le pagavamo di tasca nostra. Ci venivano sottratte dallo stipendio in un’unica soluzione. Tuttavia, lo rassicurai che avremmo recuperato quei due minuti andati persi. A labbra strette coccolai il pannello di controllo, fermandomi sul contagiri, ma con questo gesto intendevo accarezzare tutto l’insieme dei dispositivi che, per il recupero di quel breve lasso di tempo, avrei messo sotto eccessivo sforzo: albero motore, bielle, cilindri, iniettori, ingranaggi della scatola del cambio, ma più che altro sarebbero stati gli organi di trasmissione e direzionali a soffrirne. E detto senza l’ombra della spocchia, dei freni ne avrei potuto fare anche a meno. Tutti i congegni dovevano rispondere in maniera simultanea alle mie energiche sollecitazioni. Era una volata da rally, come mi era stato chiesto di fare. Una sorta d’invito a nozze.
Lisciavo il pomello della cloche dicendo fra me: “occhio lungo e sangue freddo, Gianni.” Lui sapeva bene che io entravo all’unisono con l’auto che guidavo, ma soprattutto con i suoi sistemi di stabilità. Prova ne era stata la Statale 17, Roma L’Aquila. Quella volta prima che partissimo con la consueta fretta gli chiesi:
«Nel caso si venisse a verificare di prendere una multa per eccesso di velocità, la paga lei signor Presidente!?»
«Vada!!!» mi urlò irritato. Mi sono sentito ridicolizzato. In Sicilia ero vissuto di turismo, pane e curve, e mai un incidente. Mai!!. Interpretai quel “Vada” come un guanto sbattuto in faccia, al quale gesto segue l’inevitabile sfida a singolar tenzone. Ce la misi tutta, quella volta, bruciando alla grande i tempi predeterminati. Tanto che all’arrivo gli chiesero se fosse venuto in elicottero.
Dopo questo breve divagare, riconduco il lettore al semaforo di Via Solferino, incrocio San Martino della Battaglia, per chi conosce Roma. A quell’ora le auto in circolazione si potevano contare sulle dita di una mano. Fu la prima volta in vita mia che, alla guida di una berlina 2.000/cc, mi considerai in “poll position”.
Un secondo prima che scattasse la sospirata luce verde, avevo lasciato due millimetri di caucciù sull’asfalto, e buttandomi a capo fitto per il sottovia di Castropretorio, in quel tratto semibuio, avevo già inserito le quarta marcia.
Non provate a cimentarvi in questa impresa. Senza gli occhiali fotocromatici è molto rischioso passare dalla luce solare al buio, e viceversa. Alcuni secondi dopo, con la coda dell’occhio sinistro scorgo Porta Pinciana. Il contachilometri segnava 120/h, mentre il contagiri, Jaeger, sollecitato dall’incessante scalare ed accrescere delle marce era letteralmente impazzito. Ecco che, nella stessa maniera in cui il surfista attende la grande onda da cavalcare, mi si presentava quello che aspettavo: il temuto curvane del Murotorto. Diedi un colpo d’occhio allo specchietto retrovisore e vidi il mio Presidente sedersi al centro del sedile e reggersi con entrambe le mani ai maniglioni dei due sportelli.
Ci separavano un centinaio di metri dalla lunga curva in discesa: le curve in discesa, e a sinistra, sono ancor più insidiose. Accostai l’auto a destra, sul filo guardrail, e dalla quarta marcia inserii la terza, udii il motore ruggire, sembrava che chiedesse d’affondare l’acceleratore. Cosciente della sincronizzazione del cambio, effettuai un ultimo doppio débrayage che mi consentisse di portare l’albero motore oltre i 3.000 giri, per inserire con maggior sicurezza la seconda marcia, imballando paurosamente il meccanismo tanto da scuotere la scocca.
Mi accorsi che era presente e con tutta la sua superba potenza. Lì affondai a tavoletta dando di sterzo per tagliare quanto più stretta la curva. In quegli attimi percepii il volante senza molta consistenza con il fondo stradale. Mi resi conto che stavo abbordando la curva sulle due ruote di destra.
Fui tentato di dare una lambita al pedale del freno, ma sarebbe stata la nostra fine, l’auto avrebbe perso la forza centrifuga avvitandosi su se stessa come un aereo nelle sue evoluzioni acrobatiche.
Il resto è facile intuirlo: non sarei qui a raccontarlo, né voi lettori a leggerlo!! Il sangue freddo che mi ero imposto d’avere, in quella particolare situazione, era riuscito a mantenere imperturbato il mio stato emotivo.
Devo ammettere, tuttavia, che il vento che soffiava da levante era stato provvidenziale, poiché è stato anche grazie a lui che per quel principio aerodinamico si è potuto verificare, l’auto nel fendere l’aria aveva creato una parete resistente su cui appoggiarsi.
Giungemmo alla sede del partito trovando molti esponenti bighellonare per strada. Accarezzai il pannello di comando nella maniera in cui lo si fa sul collo di un purosangue, e nell’azzerare il sistema udii un rumore metallico, una sorta di nota standard emessa dal diapason, provenire da sotto l’avantreno…
Lui scese dall’auto con il volto cadaverico, ficcò due dita dentro il colletto della sua camicia facendoli girare intorno al collo, e dopo avere stirato la pelle sotto il mento, esplose in una risata isterica, ribattendo:
«Lei me l’ha fatto di proposito, per farmi ricuperare quei due minuti persi al semaforo, facendomi correre il rischio d’esser colto da infarto.»
«Mi rincresce, signor Presidente! Ho provato ad immedesimarmi negli impegni che Ella si accolla per me, ignorando che fosse cardiopatico.»
Un grande scrittore, (Pirandello, forse) lasciò detto: “anche l’uomo più umile di questa terra, una sola volta nella vita, ha i suoi cinque minuti d’orgoglio.”
… Tirai su i pantaloni per le pieghe e mi chinai sotto l’auto per rendermi conto cos’era accaduto. Si arrossisce per vergogna e s’impallidisce per paura. La barra d’accoppiamento, lato destro, poggiava sopra un selcio con il bullone tranciato. Gli organi di direzione avevano ceduto. Non so se devo attribuirlo ad un miracolo. Non fui in grado di ipotizzare alcuna teoria che potesse dimostrare la mia gratitudine alla nobiltà di quel bolide. Mi recai al vicino Bar a bere un caffè e chiamare il carro attrezzi.
«A Già, hai dato dda magnà a Dracula! ammazza quanto sei anemico!!, bévete mezza fojietta quanno magni, te ritrovo cor viso bianco carta!!» disse Arnaldo.
Mi tornarono in mente le bravate che facevamo una dozzina di mezze teste sedicenti piloti, che nell’abbordare la curva del Viale d’Ercole, nel Parco della Favorita, avrebbe vinto – un pacchetto di sigarette – colui il quale, a velocità cronometrata, sarebbe riuscito ad acchiappare per il collo una bottiglia piena d’acqua posta a fine curva. Furono in tanti quelli che diedero lavoro ai carrozzieri, altri invece distrussero l’auto di papà. La smettemmo quando uno di noi, “stuntman” da strapazzo, andò a schiantarsi contro un Benjamin lasciandoci la pelle. Da allora venne detta la curva della morte.
…Ricorrente l’inaugurazione della BIT di Milano, quel giorno, era atteso dalle più alte autorità regionali: disposi l’auto blu ministeriale in un’area riservata ai “Big” e, come da sua esplicita richiesta, mi premurai ad accompagnarlo per i vari passaggi interni. Camminavo alla sua sinistra, quando in fondo ad un corridoio vidi un nutrito gruppo di persone che lo attendevano. A tuttoggi non mi sento affatto responsabile dell’antipatico quanto deprimente equivoco di cui stavo per divenire protagonista, ma con elevate probabilità era d’attribuirsi ai miei 181 Cm. di altezza, contro la sua non più di 160. Pertanto venni scambiato per il Presidente. Notai che alcune autorità d’ambo i sessi mi vennero incontro per la consueta stretta di mano. Fui lesto a dir loro che non ero io la persona importante da riverire, bensì il distinto signore in doppio petto alla mia destra. Non sono in grado di stabilire chi dei tanti si sia buscato il cazziatone. Ma di certo c’è che la gaffe era stata colossale.
Alcuni giorni dopo, in un Palazzo del ‘500 del centro di Roma, fu ospite Frank Borman, Comandante della missione Apollo 8, che insieme agli altri due Astronauti, James Lovell e Bill Anders, avevano sorvolato per la prima volta la superficie lunare. Il convegno, in onore del Colonnello Borman, durato alcune ore, si era concluso con un semplice rinfresco nello stesso giardino del palazzo.
Quando questo volgeva alla fine, vidi a distanza la figura del cosmonauta venire nella mia direzione, era solo, simile evento mi straniò al punto tale da far affiorare in me la legittima domanda: fra tutte quelle autorità presenti al meeting, non c’era nessuno che potesse offrirgli un briciolo di compagnia!? Mi sembrò un gesto affabile andargli incontro per scambiare poche parole. Non ci pensai due volte. Stava rispondendo alla mia domanda, raccontandomi di aver avuto un incontro ravvicinato con un UFO, il quale dopo avere effettuato alcuni giri intorno alla sua astronave, sparì nello spazio alla velocità della luce. Sebbene fossi rapito dalla storia così sorprendente che stavo ascoltando, mi accorgo però che stava per sopraggiungere il mio Capo. Non so la ragione per cui lo facesse, ma il fatto sta che, se pur non ci fosse un valido motivo, andava sempre di fretta. Credetti opportuno rivolgermi a lui dicendo:
«Le presento Mr. Borman!» indi rivoltomi a Mr. Borman, ribadii:
«May I have the pleasure to introduce to you the Italian Government Tourist Board’s Chairman!?» supponendo che, come il Presidente uscente, anche questi parlasse la lingua inglese. Mentre, per quanto mi aspettassi un breve scambio di
opinioni, altro non ebbi che una triste delusione: il Presidente gli strinse la mano, e non proferendo parola alcuna andò a sedersi in macchina.
Il giorno successivo venni richiamato dal Capo del Personale con la pretestuosa insinuazione di inadempienza ai propri doveri. Sostenendo che avrei dovuto presentare il signor Presidente a Mr. Borman, e non come avevo effettuato io da triviale, che avevo introdotto un semplice ufficiale della NASA ad un titolato personaggio politico, nonché Presidente di un Ente di Stato eletto dal Parlamento della Repubblica. Bla...bla…bla.)
«Lei non sa, ancora, che si presenta la persona più autorevole a quella meno autorevole?»
«E quello che ho fatto!» risposi io in tono minore. Riconoscendo l’Astronauta di gran lunga superiore ad un uomo politico di qualsivoglia paese. Decidete voi lettori! Ma qualcuno se lo legò al dito…
* * *
Il quarto evento fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lungo i Viali di Villa Borghese, una brusca frenata fatta per evitare la più che certa collisione con un folle taxista, che per non aver rispettato la segnaletica verticale prima, ed orizzontale successivamente, me lo vidi a testa giù sul sedile anteriore con il viso avvolto nel giornale che stava leggendo. Tuttavia, sia pur ritenendomi totalmente dal lato della ragione, presentai le mie scuse al mio illustre personaggio. Lui dopo aver imprecato, aggiunse:
«Lei guida questa macchina in maniera tale da farmi vomitare.» fu lì che arrestai la vettura ricordandogli con dovuta creanza, ma senza l’ombra del servilismo:
«Il suo parlare è offensivo, signor Presidente. Non mi era stato detto mai da nessuno ciò che ha detto lei, nemmeno quando sulla tortuosa SS/113, alla guida di pullman gran turismo, trasportavo 54 passeggeri. Vuol dire che se dovesse ripetersi non azionerò i freni, così saranno gli altri a poterla raccontare.»
«Stia pur certo che non ci sarà una prossima volta.» rispose.
Un paio di giorni dopo, venni destituito da quel servizio. Al mio posto sedette un nuovo conducente: il portinaio dell’immobile di casa sua. (nulla da eccepire) Chiesi un incontro in presenza del mio rappresentante sindacale, e per tutta risposta tirò fuori una battuta alla quale rise soltanto lui:
«Voi siciliani siete permalosi.» fui tentato di rispondere con un aforisma latino, ma prevalse la regola delle dieci “P” (prima pensa poi parla poiché parole poco pensate producono pene) e scelsi di pensare. Ciononostante, devo ammettere che era un uomo di grande carisma. Lo si deve a lui, difatti, se dopo mezzo secolo dalla fondazione, l’ENIT ebbe il suo organigramma, riconoscendo a quel personale titolato, il ruolo e gli emolumenti dovuti. Vi erano dei funzionari, a titolo d’esempio, che nonostante espletassero mansioni dirigenziali, percepivano la retribuzione da inservienti.
A fronte di quanto suesposto, venni assegnato all’Ufficio Informazioni con degli incarichi appropriati al mio diploma; e da lì ebbe inizio la mia carriera. Devo ammettere con tutta onestà, che mi avvidi di avere realizzato il mio ideale, allorquando con un passaporto dalla copertina blu mi affacciai all’estero.
Un uomo che trovandosi in un territorio straniero (e qui concludo) viene rinvenuto sprovvisto di quell’insostituibile documento, non è altro che un benemerito apolide. Gli può andar pure bene se corre in aiuto la sua sede diplomatica.
Nel caso mio, invece, fu quel particolare tipo di passaporto che mi salvò dal marcire in una lurida cella di un altrettanta lurida galera di un paese dell’Est Asiatico, e se ciò fosse realmente accaduto, non sono del tutto convinto se la nostra sede diplomatica di Bangkok sarebbe corsa in mio aiuto.
Di questo più unico che raro avvenimento vi parlerò in un mio prossimo racconto. Forse l’ultimo.
Ad maiora!!
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