mercoledì 26 maggio 2010

“Sul filo del guardrail…”

Prologo
Consapevole di essermi venuto a trovare fra quel ceto sociale predominante, (personalità politiche elette dal Parlamento) colui che scrive, munito di quel senso di discrezione e forza d’animo, è riuscito in qualche modo a servire con dignità due Presidenti. Ma sentite come.
* * *
Cresciuto fra i G.I., (Goverment Issued) non potrei in nessun caso smentire quanto filo-statunitense possa essere. E fu proprio grazie alla persistente frequenza con gli Yankee che appresi la loro lingua, ed è per effetto di questa mia saggezza maturata in giovane età, che ancora oggi tengo in serbo la mia gratitudine al Professore Giovanni Caporaso. Socialista nel “physique du rôle.” L’uomo che, al cospetto delle tre sigle sindacali aziendali, investì – nella maniera più disinteressata – la sua reputazione su colui che scrive.
Proprio quel giorno di fine settembre, mi era stato affidato un quartetto di studiose turiste americane alle quali avrei dovuto far percorrere il classico itinerario, che era quello che includeva l'antico Teatro annesso al Tempio Greco di Segesta, e la massiccia Acropoli di Selinunte. Più tardi, in ottemperanza alle disposizioni imposte dall’Agenzia di Viaggi, la seconda colazione era da consumarsi al ''Ristorante La Scogliera'', in località Marinella; e per l’occasione, cosa che accadeva quasi sempre, ero stato invitato a sedere a tavola con loro. Mentre prendevamo posto, alla mia sinistra sedeva una famiglia italiana composta da tre persone: i due coniugi e la loro figlioletta di dieci anni. La mia scelta, sulle portate, fu molto semplice e determinata, da tradizione, oserei dire: tagliolini alle vongole al cartoccio, e frittura di pesce da scoglio. E da bere un calice di un bianco freddo di Ribera.
Le signore, invece, ordinarono un grosso sarago da far grigliare e dividere per quattro. Ma valutate le dimensioni di quel pesce, dovettero per forza fare a meno della prima portata.
Con la coda nell’occhio mi accorsi che anche la signora italiana, attratta, forse, dalla novità dei tagliolini al cartoccio, chiese al cameriere la mia stessa portata. Mentre il marito non esitò un solo istante a ordinare l’altro sarago dalle dimensioni non molto inferiori a quello scelto dalle archeologhe americane.
A fine pranzo, i commenti sulla prelibatezza di quei cibi, furono lusinghieri quanto gratificanti, sia per lo chef che per colui che, nella forma più spassionata, aveva dato qualche suggerimento sulla scelta. In realtà c’era poco da scegliere, in quel locale ci si andava per mangiare dell’ottimo pesce, che proprio quel giorno il pescato esposto nel largo paniere, sussultava ancora sotto le carnose alghe.
Dovendo rispettare i tempi a nostra disposizione, siamo stati i primi ad alzarci, scambiandoci un saluto reciproco assecondato dai più sentiti ringraziamenti da parte della famiglia italiana.
Ma il dì successivo, accadde uno sgradevole sinistro: il collega che aveva assistito la famiglia italiana, era scivolato su di una chiazza d'olio causandosi la lussazione ad una caviglia.
Soccorso da chi scrive, e da un altro compagno di lavoro, venne trasferito d’urgenza al policlinico e là posto sotto trazione.
Quel giorno, quella data, e quell'increscioso episodio, mutò il futuro della mia vita. Il programma di lavoro di Riccardo, sarebbe stato quello di mostrare la città e dintorni a quella famiglia italiana incontrata a Selinunte. E rivoltosi a me disse:
«Vai tu in vece mia. I Signori Caporaso risiedono al Grand Hotel Villa Igiea: ieri, al ristorante hai dato loro una bella impressione, e sulla via di ritorno hanno parlato bene di te. L'appuntamento è per le ore dieci e trenta».
Strizzandogli un occhio, lo salutai con un “in bocca al lupo”.
Raggiunsi Villa Igiea, e andato su per quei sei gradini, mi si parò innanzi la ragazzetta, dicendomi:
«Buongiorno, signor D’Amico! I miei genitori non tarderanno ad incontrarla, stanno per finire di consumare la loro colazione. È stato il portiere ad avvertirci della sostituzione di Riccardo, lei è una persona simpatica, mentre non lo è stato Riccardo, però non mi piacciono i suoi occhiali da sole». Seguì una battuta umoristica che la lasciò pensierosa:
«Comprane un paio che piacciono a te, e me ne fai omaggio.»
In effetti, pochi minuti dopo, vidi il papà di Margherita accostarsi alla portineria e adagiare la chiave sul desk. A quel punto gli andai incontro e dandogli il buongiorno dissi:
«Mi chiamo D’Amico. Preso atto che Riccardo si è infortunato, da essere stato ricoverato in ospedale, sarò io oggi a farvi da guida ai monumenti». Frattanto sopraggiungeva la moglie.
«Daremo inizio al nostro “sightseeing tour” partendo da Monreale», comunicai loro prima che si sedessero in auto.
«Senta D’Amico, sono stati rivoluzionati i piani, io sono stato diverse volte a Palermo, e conosco bene tutta la Sicilia archeologica, lei mi lasci a Piazza Verdi, al Teatro Massimo, e si metta a disposizione di mia moglie. Ah! Complimenti per il suo inglese, con perfetto accento americano. Ha vissuto in America, suppongo!»
Diedi, in sintesi, chiarimenti su come e perché parlavo discretamente bene la lingua degli "Yankee״.
«Grazie per i suggerimenti di ieri, sono stati molto graditi, e il cibo squisito, sia i tagliolini con salsa di vongole al cartoccio che il sarago alla brace.» disse la signora, strada facendo.
La mattinata era trascorsa rendendo felice anche la giovane Margherita, desiderosa di visitare il mercato delle pulci, al Papireto, laddove aveva acquistato la sponda, artisticamente decorata, di un antico carretto siciliano, e alle ore 13,00 avendo preso accordi con il dottor Caporaso, andammo ad incontralo a Piazza Verdi, laddove era stato lasciato. Questi dopo essersi accomodato in macchina, parlò sottovoce con la propria moglie. E, poi, rivoltosi allo scrivente gli chiese:
«Oggi ci farà mangiare del buon pesce come quello di ieri?» riflettei alcuni secondi, ponderando bene la proposta che stavo per fare, e infine la buttai lì pensando che mi sarebbe stata respinta.
«Ci sarebbe la possibilità di mangiare del buon pesce! Però si tratterebbe di dover andare in una trattoria molto popolare, laddove la servono con la tovaglia di carta e le posate lasciate ammucchiate al centro del tavolo, ma sulla genuinità del cibo me ne assumo tutta la responsabilità.» dissi io, facendo allusione alla più rinomata trattoria del capoluogo: “a ‘ngrasciata” (la sozza).
«Ah, guardi, noi non siamo dei classisti, il popolo non mi ha mai dato alcun fastidio, ansi! È proprio in lui che devo confidare per essere votata ed eletta. Poi i Castelli Romani sono ricchi di trattorie popolari, ed è lì che si mangia divinamente bene» aggiunse lei. Mentre io, avendo udito parlare di elezioni, affilai le orecchie…
Fra una portata e l’altra, ebbi modo di appurare che la signora si era candidata per il Senato presso il Collegio di Mantova. Mentre il marito era il Presidente dell’E.N.I.T., entrambi Socialisti. Mi tornarono in mente le parole di due anziane turiste italiane, che il giorno del lunedì di Pasqua, dandomi una grossa regalia, dissero: “Ricevere un regalo il giorno di pasquetta ha portato sempre fortuna, vedrà che entro l’anno lei troverà un lavoro sicuro. A quel punto, come se mi fossi trovato su di un trampolino, mi lanciai giù a capo fitto. E chiesi loro se avessero potuto fare qualcosa per un avvenire migliore. Fu la futura Senatrice a dire al proprio marito:
«Credi di poter fare qualcosa, tu, Nino?!»
«Non so, ho le organizzazioni sindacali aziendali addosso, la CISL, soprattutto, che mi tiene sotto tiro e mi ricatterebbe per tutto il perdurare del mio mandato.» poi, rivoltosi ancora una volta a colui che scrive, disse:
«Si trasferirebbe eventualmente a Roma?»
«Certamente! In qualunque momento.» risposi.
Il giorno successivo li accompagnai in aeroporto, e dopo averli assistiti per il check-in, augurai loro il buon viaggio. Quando Margherita, ultima ad essere stata salutata, mi porse un pacchetto dicendo:
«Questo è per lei!» dal particolare involucro griffato, Ottica Randazzo, non fu difficile intuire cosa racchiudesse quella scatolina. Tuttavia, la scartai in loro presenza e, grato del dono ricevuto, mi affrettai a indossare quei Ray-Ban, che a tuttoggi salvaguardo con tenerezza.
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, nella Sicilia Occidentale, un terremoto di immane violenza sconvolse la Valle del Belice, Decine di migliaia furono i senzatetto. Totalmente rasi al suolo Salaparuta, Poggioreale, Gibellina, Santa Ninfa, Montevago e Santa Margherita Belice. Ma da questo cataclisma, il Professor Caporaso ne seppe trarre un gesto intelligente, ma soprattutto umano. Con un valido pretesto, cioè quello che stava per assumere un terremotato, smontò la tesi a tutte e tre la organizzazioni sindacali.
Era il 24 marzo, quando ricevetti una lettera Raccomandata Espresso, con ricevuta di ritorno. Questa recava la stampigliatura “IL PRESIDENTE”. Mi affrettai ad aprirla, e mi resi conto che le anziane signorine Migniavacca, titolari della Campari Spa, nell’aver detto che: "ricevere un regalo il giorno di Pasquetta avrebbe portato fortuna"; dal primo di Aprile, del 1968, venivo assunto all’Ufficio di Frontiera di Ventimiglia e, per esigenza di servizio, trasferito presso la Sede Centrale.
I rappresentanti sindacali, contrari a qualunque forma di assunzione, al di fuori dei concorsi – mai effettuati – e dei loro "pupilli", erano stati bidonati. Su quella lettera, firmata di Suo pugno, si leggeva chiaramente la promessa che più tardi mantenne: stabilità d'impiego e possibilità di carriera.
Anche io, potendo, avrei scelto il cammino dello studio e il conseguimento di un titolo accademico, ma non potendo realizzare il mio ideale, in attesa di tempi migliori, idealizzai la mia realtà ...
* * *
Avevo 33 anni, allorquando il 6 aprile del 1968, varcai la soglia della più grande struttura turistica del parastato italiano, i cui compiti istituzionali erano e sono quelli di promuovere il flusso turistico dall’estero verso l’Italia. Cos’altro, più di questo, si proponeva di realizzare quel monello di borgata incontrato da voi lettori nei miei precedenti racconti??
Pochi mesi dopo la mia assunzione di ruolo, – con le mansioni temporanee di autista del Presidente – entrai nelle grazie di quel filantropo da esser considerato elemento costitutivo della sua famiglia.
Difatti, la stima nei confronti di chi scrive si dimostrò smisurata, tanto che un giorno, incontratosi in un ristorante di Firenze con il grande politico Nenni, mi presentò a lui dicendo:
«Pietro, ti presento un mio amico».
«Ma, circa un anno dopo, concluso il suo mandato, durato cinque anni, tornò ad occuparsi delle sue attività imprenditoriali senza però che venissero meno i nostri rapporti amichevoli, anzi, piuttosto li rafforzammo.
A lui subentrò un altro Presidente proposto da un partito politico d’opposizione, e per questioni caratteriali (ipotizzo) si venne a creare un assodato clima di infantile ostilità.
“Absit iniuria verbis!” Di anni oramai ne sono trascorsi tanti, non vale la pena quindi di farne una tragedia, perché poi, volendoci riflettere, alcuni casi hanno quel “retrogusto” umoristico e a volte apologetico.
Non potei più avvalermi del mio fine settimana di riposo, e la domenica mattina, invece di condurre i miei bambini agli scivoli di Villa Ada, era indispensabile che gli portassi a casa tutti i quotidiani nazionali. E, credetemi, alcuni di questi rimanevano in macchina passando inosservati.
“Sono il signor Presidente, venga da me!” era la telefonata perentoria che ricevevo quotidianamente.
A questa plumbea atmosfera collimarono una serie di spiacevoli eventi che, in qualche modo, contribuirono a delineare il mio futuro.
* * *
Erano le ore 14.00, quel giorno, quando uscendo dal suo domicilio presidenziale mi disse:
«Facciamo una volata da rally alla sede del partito.»
Al quadrivio di Via Solferino intoppammo in un semaforo a luce rossa. Non c’era altra alternativa che lasciare trascorrere quei 120 secondi.
«Lei se ne frega degli impegni che mi accollo per tutti voi! Le ho appena finito di dire facciamo una volata alla sede del partito, e mi pianta dieci minuti qui ad attendere come un broccolo.» Feci presente che dal momento ch’eravamo in prossimità del semaforo la luce era già rossa, e proprio questo genere di multe le pagavamo di tasca nostra. Ci venivano sottratte dallo stipendio in un’unica soluzione. Tuttavia, lo rassicurai che avremmo recuperato quei due minuti andati persi. A labbra strette coccolai il pannello di controllo, fermandomi sul contagiri, ma con questo gesto intendevo accarezzare tutto l’insieme dei dispositivi che, per il recupero di quel breve lasso di tempo, avrei messo sotto eccessivo sforzo: albero motore, bielle, cilindri, iniettori, ingranaggi della scatola del cambio, ma più che altro sarebbero stati gli organi di trasmissione e direzionali a soffrirne. E detto senza l’ombra della spocchia, dei freni ne avrei potuto fare anche a meno. Tutti i congegni dovevano rispondere in maniera simultanea alle mie energiche sollecitazioni. Era una volata da rally, come mi era stato chiesto di fare. Una sorta d’invito a nozze.
Lisciavo il pomello della cloche dicendo fra me: “occhio lungo e sangue freddo, Gianni.” Lui sapeva bene che io entravo all’unisono con l’auto che guidavo, ma soprattutto con i suoi sistemi di stabilità. Prova ne era stata la Statale 17, Roma L’Aquila. Quella volta prima che partissimo con la consueta fretta gli chiesi:
«Nel caso si venisse a verificare di prendere una multa per eccesso di velocità, la paga lei signor Presidente!?»
«Vada!!!» mi urlò irritato. Mi sono sentito ridicolizzato. In Sicilia ero vissuto di turismo, pane e curve, e mai un incidente. Mai!!. Interpretai quel “Vada” come un guanto sbattuto in faccia, al quale gesto segue l’inevitabile sfida a singolar tenzone. Ce la misi tutta, quella volta, bruciando alla grande i tempi predeterminati. Tanto che all’arrivo gli chiesero se fosse venuto in elicottero.
Dopo questo breve divagare, riconduco il lettore al semaforo di Via Solferino, incrocio San Martino della Battaglia, per chi conosce Roma. A quell’ora le auto in circolazione si potevano contare sulle dita di una mano. Fu la prima volta in vita mia che, alla guida di una berlina 2.000/cc, mi considerai in “poll position”.
Un secondo prima che scattasse la sospirata luce verde, avevo lasciato due millimetri di caucciù sull’asfalto, e buttandomi a capo fitto per il sottovia di Castropretorio, in quel tratto semibuio, avevo già inserito le quarta marcia.
Non provate a cimentarvi in questa impresa. Senza gli occhiali fotocromatici è molto rischioso passare dalla luce solare al buio, e viceversa. Alcuni secondi dopo, con la coda dell’occhio sinistro scorgo Porta Pinciana. Il contachilometri segnava 120/h, mentre il contagiri, Jaeger, sollecitato dall’incessante scalare ed accrescere delle marce era letteralmente impazzito. Ecco che, nella stessa maniera in cui il surfista attende la grande onda da cavalcare, mi si presentava quello che aspettavo: il temuto curvane del Murotorto. Diedi un colpo d’occhio allo specchietto retrovisore e vidi il mio Presidente sedersi al centro del sedile e reggersi con entrambe le mani ai maniglioni dei due sportelli.
Ci separavano un centinaio di metri dalla lunga curva in discesa: le curve in discesa, e a sinistra, sono ancor più insidiose. Accostai l’auto a destra, sul filo guardrail, e dalla quarta marcia inserii la terza, udii il motore ruggire, sembrava che chiedesse d’affondare l’acceleratore. Cosciente della sincronizzazione del cambio, effettuai un ultimo doppio débrayage che mi consentisse di portare l’albero motore oltre i 3.000 giri, per inserire con maggior sicurezza la seconda marcia, imballando paurosamente il meccanismo tanto da scuotere la scocca.
Mi accorsi che era presente e con tutta la sua superba potenza. Lì affondai a tavoletta dando di sterzo per tagliare quanto più stretta la curva. In quegli attimi percepii il volante senza molta consistenza con il fondo stradale. Mi resi conto che stavo abbordando la curva sulle due ruote di destra.
Fui tentato di dare una lambita al pedale del freno, ma sarebbe stata la nostra fine, l’auto avrebbe perso la forza centrifuga avvitandosi su se stessa come un aereo nelle sue evoluzioni acrobatiche.
Il resto è facile intuirlo: non sarei qui a raccontarlo, né voi lettori a leggerlo!! Il sangue freddo che mi ero imposto d’avere, in quella particolare situazione, era riuscito a mantenere imperturbato il mio stato emotivo.
Devo ammettere, tuttavia, che il vento che soffiava da levante era stato provvidenziale, poiché è stato anche grazie a lui che per quel principio aerodinamico si è potuto verificare, l’auto nel fendere l’aria aveva creato una parete resistente su cui appoggiarsi.
Giungemmo alla sede del partito trovando molti esponenti bighellonare per strada. Accarezzai il pannello di comando nella maniera in cui lo si fa sul collo di un purosangue, e nell’azzerare il sistema udii un rumore metallico, una sorta di nota standard emessa dal diapason, provenire da sotto l’avantreno…
Lui scese dall’auto con il volto cadaverico, ficcò due dita dentro il colletto della sua camicia facendoli girare intorno al collo, e dopo avere stirato la pelle sotto il mento, esplose in una risata isterica, ribattendo:
«Lei me l’ha fatto di proposito, per farmi ricuperare quei due minuti persi al semaforo, facendomi correre il rischio d’esser colto da infarto.»
«Mi rincresce, signor Presidente! Ho provato ad immedesimarmi negli impegni che Ella si accolla per me, ignorando che fosse cardiopatico.»
Un grande scrittore, (Pirandello, forse) lasciò detto: “anche l’uomo più umile di questa terra, una sola volta nella vita, ha i suoi cinque minuti d’orgoglio.”
… Tirai su i pantaloni per le pieghe e mi chinai sotto l’auto per rendermi conto cos’era accaduto. Si arrossisce per vergogna e s’impallidisce per paura. La barra d’accoppiamento, lato destro, poggiava sopra un selcio con il bullone tranciato. Gli organi di direzione avevano ceduto. Non so se devo attribuirlo ad un miracolo. Non fui in grado di ipotizzare alcuna teoria che potesse dimostrare la mia gratitudine alla nobiltà di quel bolide. Mi recai al vicino Bar a bere un caffè e chiamare il carro attrezzi.
«A Già, hai dato dda magnà a Dracula! ammazza quanto sei anemico!!, bévete mezza fojietta quanno magni, te ritrovo cor viso bianco carta!!» disse Arnaldo.
Mi tornarono in mente le bravate che facevamo una dozzina di mezze teste sedicenti piloti, che nell’abbordare la curva del Viale d’Ercole, nel Parco della Favorita, avrebbe vinto – un pacchetto di sigarette – colui il quale, a velocità cronometrata, sarebbe riuscito ad acchiappare per il collo una bottiglia piena d’acqua posta a fine curva. Furono in tanti quelli che diedero lavoro ai carrozzieri, altri invece distrussero l’auto di papà. La smettemmo quando uno di noi, “stuntman” da strapazzo, andò a schiantarsi contro un Benjamin lasciandoci la pelle. Da allora venne detta la curva della morte.
…Ricorrente l’inaugurazione della BIT di Milano, quel giorno, era atteso dalle più alte autorità regionali: disposi l’auto blu ministeriale in un’area riservata ai “Big” e, come da sua esplicita richiesta, mi premurai ad accompagnarlo per i vari passaggi interni. Camminavo alla sua sinistra, quando in fondo ad un corridoio vidi un nutrito gruppo di persone che lo attendevano. A tuttoggi non mi sento affatto responsabile dell’antipatico quanto deprimente equivoco di cui stavo per divenire protagonista, ma con elevate probabilità era d’attribuirsi ai miei 181 Cm. di altezza, contro la sua non più di 160. Pertanto venni scambiato per il Presidente. Notai che alcune autorità d’ambo i sessi mi vennero incontro per la consueta stretta di mano. Fui lesto a dir loro che non ero io la persona importante da riverire, bensì il distinto signore in doppio petto alla mia destra. Non sono in grado di stabilire chi dei tanti si sia buscato il cazziatone. Ma di certo c’è che la gaffe era stata colossale.
Alcuni giorni dopo, in un Palazzo del ‘500 del centro di Roma, fu ospite Frank Borman, Comandante della missione Apollo 8, che insieme agli altri due Astronauti, James Lovell e Bill Anders, avevano sorvolato per la prima volta la superficie lunare. Il convegno, in onore del Colonnello Borman, durato alcune ore, si era concluso con un semplice rinfresco nello stesso giardino del palazzo.
Quando questo volgeva alla fine, vidi a distanza la figura del cosmonauta venire nella mia direzione, era solo, simile evento mi straniò al punto tale da far affiorare in me la legittima domanda: fra tutte quelle autorità presenti al meeting, non c’era nessuno che potesse offrirgli un briciolo di compagnia!? Mi sembrò un gesto affabile andargli incontro per scambiare poche parole. Non ci pensai due volte. Stava rispondendo alla mia domanda, raccontandomi di aver avuto un incontro ravvicinato con un UFO, il quale dopo avere effettuato alcuni giri intorno alla sua astronave, sparì nello spazio alla velocità della luce. Sebbene fossi rapito dalla storia così sorprendente che stavo ascoltando, mi accorgo però che stava per sopraggiungere il mio Capo. Non so la ragione per cui lo facesse, ma il fatto sta che, se pur non ci fosse un valido motivo, andava sempre di fretta. Credetti opportuno rivolgermi a lui dicendo:
«Le presento Mr. Borman!» indi rivoltomi a Mr. Borman, ribadii:
«May I have the pleasure to introduce to you the Italian Government Tourist Board’s Chairman!?» supponendo che, come il Presidente uscente, anche questi parlasse la lingua inglese. Mentre, per quanto mi aspettassi un breve scambio di
opinioni, altro non ebbi che una triste delusione: il Presidente gli strinse la mano, e non proferendo parola alcuna andò a sedersi in macchina.
Il giorno successivo venni richiamato dal Capo del Personale con la pretestuosa insinuazione di inadempienza ai propri doveri. Sostenendo che avrei dovuto presentare il signor Presidente a Mr. Borman, e non come avevo effettuato io da triviale, che avevo introdotto un semplice ufficiale della NASA ad un titolato personaggio politico, nonché Presidente di un Ente di Stato eletto dal Parlamento della Repubblica. Bla...bla…bla.)
«Lei non sa, ancora, che si presenta la persona più autorevole a quella meno autorevole?»
«E quello che ho fatto!» risposi io in tono minore. Riconoscendo l’Astronauta di gran lunga superiore ad un uomo politico di qualsivoglia paese. Decidete voi lettori! Ma qualcuno se lo legò al dito…
* * *
Il quarto evento fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lungo i Viali di Villa Borghese, una brusca frenata fatta per evitare la più che certa collisione con un folle taxista, che per non aver rispettato la segnaletica verticale prima, ed orizzontale successivamente, me lo vidi a testa giù sul sedile anteriore con il viso avvolto nel giornale che stava leggendo. Tuttavia, sia pur ritenendomi totalmente dal lato della ragione, presentai le mie scuse al mio illustre personaggio. Lui dopo aver imprecato, aggiunse:
«Lei guida questa macchina in maniera tale da farmi vomitare.» fu lì che arrestai la vettura ricordandogli con dovuta creanza, ma senza l’ombra del servilismo:
«Il suo parlare è offensivo, signor Presidente. Non mi era stato detto mai da nessuno ciò che ha detto lei, nemmeno quando sulla tortuosa SS/113, alla guida di pullman gran turismo, trasportavo 54 passeggeri. Vuol dire che se dovesse ripetersi non azionerò i freni, così saranno gli altri a poterla raccontare.»
«Stia pur certo che non ci sarà una prossima volta.» rispose.
Un paio di giorni dopo, venni destituito da quel servizio. Al mio posto sedette un nuovo conducente: il portinaio dell’immobile di casa sua. (nulla da eccepire) Chiesi un incontro in presenza del mio rappresentante sindacale, e per tutta risposta tirò fuori una battuta alla quale rise soltanto lui:
«Voi siciliani siete permalosi.» fui tentato di rispondere con un aforisma latino, ma prevalse la regola delle dieci “P” (prima pensa poi parla poiché parole poco pensate producono pene) e scelsi di pensare. Ciononostante, devo ammettere che era un uomo di grande carisma. Lo si deve a lui, difatti, se dopo mezzo secolo dalla fondazione, l’ENIT ebbe il suo organigramma, riconoscendo a quel personale titolato, il ruolo e gli emolumenti dovuti. Vi erano dei funzionari, a titolo d’esempio, che nonostante espletassero mansioni dirigenziali, percepivano la retribuzione da inservienti.
A fronte di quanto suesposto, venni assegnato all’Ufficio Informazioni con degli incarichi appropriati al mio diploma; e da lì ebbe inizio la mia carriera. Devo ammettere con tutta onestà, che mi avvidi di avere realizzato il mio ideale, allorquando con un passaporto dalla copertina blu mi affacciai all’estero.
Un uomo che trovandosi in un territorio straniero (e qui concludo) viene rinvenuto sprovvisto di quell’insostituibile documento, non è altro che un benemerito apolide. Gli può andar pure bene se corre in aiuto la sua sede diplomatica.
Nel caso mio, invece, fu quel particolare tipo di passaporto che mi salvò dal marcire in una lurida cella di un altrettanta lurida galera di un paese dell’Est Asiatico, e se ciò fosse realmente accaduto, non sono del tutto convinto se la nostra sede diplomatica di Bangkok sarebbe corsa in mio aiuto.
Di questo più unico che raro avvenimento vi parlerò in un mio prossimo racconto. Forse l’ultimo.
Ad maiora!!
Gianni D’amico.

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