venerdì 28 maggio 2010

Ho vissuto un giorno da leone!”

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«…I’ve lived a day as a lion!»

Prologo
Avevo 15 anni quando uscito che fui dall’orfanotrofio, mi resi subito utile a zio Francesco restaurandogli un’antica poltroncina, alla quale la donna di servizio, non poco maldestra, era riuscita a spezzare una gamba. Dopo avermi liquidato con 250 lire, importo sufficiente all’acquisto di un biglietto per l’ingresso al cinematografo, aggiunse qualcos’altro. Un’agenda prodotta per la banca di cui, lo stesso, ne era direttore.
«Di queste agende» disse «ne vengono realizzate poche dozzine bastanti ad omaggiare una ristretta Casta Gattopardiana». Disse proprio così, “Casta Gattopardiana” e devo pensare che fosse la Jet Society degli anni ’50.
L’agenda si presentava solenne, raffinata, esclusiva, e sicuramente utile per coloro, tra i quali certamente non potevo venire annoverato, ne avrebbero saputo fare il giusto impiego. Profumava di pelle conciata. A centro sulla copertina, a carattere in oro, vi era impresso: Anno Santo 1950. In basso, Nazareno Gabrielli. Stupito ed ammirato, la rigiravo fra le mani.
«Che cosa ne faccio io di questa agenda.» gli chiesi.
«Le agende stimolano a scrivere,» disse «inventati delle storielle e le butti là dentro, quando sarai nonno li racconti ai tuoi nipotini! Oh!, se non ti piace mica devi prenderla per forza! Io me ne sto privando per fartene omaggio!»
Nella mia memoria conservo ancora l’immagine dello sfondo alle sue spalle: la grande bookcase luccicante di argenti e cristalli. Se fossi un pittore non avrei difficoltà a rappresentare quei ricordi su di una tela!!
«Sì, che mi piace! Intendevo dire che è molto importante, e nelle mie mani la trovo sprecata!» risposi, annusando a pieni polmoni quell’odore di scarpe nuove mai calzate. La tenni rinchiusa nella sua custodia di flanella per oltre un decennio. Quando un giorno presi la decisione d’imbrattare le sue pagine.
Negli anni ’60 prestavo, già, sevizio presso l’Avis Autonoleggio e, per esplicito desiderio di un’Agenzia di viaggi, mi era stato affidato un particolare turista straniero, e da un Hotel di Palermo lo stavo trasferendo ad un altro di Catania, laddove per motivi di lavoro si sarebbe fermato per alcuni giorni. Durante il viaggio mi sono accorto che parlava discretamente bene la mia lingua, ma quando si trattava di sostenere qualche dialogo un po’ più impegnativo sfoderava la sua ineccepibile conoscenza della lingua di Guy de Maupassant. Quando una sera, prima che lo lasciassi in albergo, mi chiese:
«…Che cos’è che scrive, la vedo da giorni con quell’agenda in mano.»
«Sto rivedendo la bozza di due miei racconti nei quali narro alcuni episodi di quando ero monello di strada.» risposi.
Rimasi lusingato dalla sua richiesta. Avrebbe desiderato leggerne uno.
E mentre gli porgevo l’agenda, feci presente che la mia calligrafia era poco comprensibile. Lui dopo aver sfogliato velocemente qualche pagina, scosse il capo in disaccordo con quanto avevo appena affermato. La mattina successiva nel restituirmela, dichiarò:


«Li ho letti entrambi, e li ho trovati suggestivi. Faccia una bella raccolta, quando si ritirerà dal lavoro li faccia pubblicare, avrà il successo che merita».
Il suggerimento spassionato datimi anni prima da zio Francesco e quest’altro da un turista straniero, oggi danno quella sensazione che dopo oltre mezzo secolo qualcosa stia per concretizzarsi. Animato da quella teoria, ho espresso un pensiero che da alcuni giorni mi si agitava nella mente:
«Maestro! Perché alla Sua veneranda età va ancora in giro per il mondo ad assolvere ai Suoi impegni di lavoro, anziché passeggiare per i Boulevard della Sua amata Parigi?»
«Que ce que vous voulez mon vieux! Que je reste chez moi pour attendre la mort!!»
È del Compositore Igor Stravinskij, di cui vi ho parlato. Il quale, amante del nostro Paese, volle che le Sue spoglie mortali riposassero nel Cimitero di San Michele, a Venezia.
Oggi leggendo i polizieschi di Andrea Camilleri, meditando su quell’incedere in vernacolo siciliano, mi è venuto spontaneo chiedermi: È così che si scrive, oggi! Se è questa la maniera di scrivere, anch’io sono capace di cimentarmi nella realizzazione di un libro. Ed ecco che custodisco sette miei manoscritti in una “pen drive da 4Gb.“
Oltre a quegli incontri casuali avuti con dei personaggi descritti nei miei cenni autobiografici inseriti nel sito culturale “Operanarrativa,” me n’è sfuggito qualcuno di cui gradirei parlare in questo mio sesto racconto. Mi auguro vorrete ancora tributarmi la stessa fiducia ad oggi accordatami. Leggetelo, non vi deluderà!
  * * *
Quando nel lontano 1963, il romanzo di Tomasi di Lampedusa dal titolo “Il Gattopardo” prese il via per la realizzazione del film, fu lo scrivente a fare da guida all’attore americano Burt Lancaster, alias “don Fabrizio di Salina”.
Il protrarsi del “ciack si gira”, durato quattro mesi, mi trasformò nell’ombra del succitato attore, dandomi l’opportunità di conoscere l’intero Casting, tanto per citarne alcuni: Luchino Visconti, Alain Delon, la Cardinale, la Morelli, Paolo Stoppa, Romolo Valli etc. Sarebbe poco deferente non tener conto della famiglia del protagonista e i suoi ospiti che, provenienti da diverse parti del mondo, m’impegnavano in qualunque ora del giorno ad incontrarli in aeroporto e trasferirli nella sua dimora. Molti furono i festeggiamenti di fine settimana ai quali parteciparono personaggi del Cast e No.
Assiduo frequentatore presso la Villa settecentesca, presa in locazione con la correlativa servitù, era l’inseparabile amico Kirk Douglas, (sì, papà di Mikael) nota Star Hollywoodiana. Fra Kirk e lo scrivente nacque una non indifferente simpatia che più tardi, pungolato da determinate rettitudini, mi dispensarono per suo esplicito desiderio dal chiamarlo Mr. Douglas, accorciando le distanze con Kirk, come d’altronde lui chiamava me Johnny. (Jani)



Quando all’allestimento del film i coniugi Lancaster lasciarono la Sicilia, posso garantirvi che un pezzo del loro cuore rimase in quell’Isola. Lo stesso dicasi dell’amico Kirk, il quale porgendomi un suo biglietto da visita aggiunse:
«If some day you’ll come to America, don’t hesitate to give me a call!!»
(Se un giorno venissi in America, non esitare a telefonarmi N.d.A.)
Orbene! Come già fatto cenno nel precedente racconto, nell’aprile del ’68, fui assunto all’Ente Nazionale Italiano per il Turismo di Roma. A fronte delle ristrettezze economiche di quegli anni, principale causa l’impennata dei prezzi sugli affitti, con l’aggiunta della propria moglie e due figli a carico, optai come molti colleghi per il trasferimento all’estero. Alcuni anni dopo, convalidato il Ruolo Unico, ed essendo in possesso di quei requisiti richiesti dal Regolamento Organico del Personale: “titolo di studio, esperienze all’estero e conoscenze lingue,” ottenni il trasferimento per gli States con destinazione Chicago. Città questa dallo skyline più bello d’America e il Michigan Lake, oltre che navigabile, è sì grande da non scorgere la sponda antistante e, per buttare là un termine di paragone, atto a poter contenere l’intero territorio svizzero.
Amante del Jazz e della vela quale altra città, nello stato dell’Illinois, avrebbe potuto soddisfare le mie ambizioni!! Come di dovere mi recai nelle Sedi delle Istituzioni Italiane per porgere un saluto al Console e a tutti i Delegati. Alcuni giorni dopo ero lì, “full immersion” dietro il banco informazioni a contatto con il mio pubblico.
Era una tarda mattina di fine settimana, quando un signore parlandomi al telefono mi disse che dovendosi recare a Palermo, quale sarebbe stata la maniera più sbrigativa per raggiungere Bagheria. Gli risposi d’acchito che dal Terminal di Viale della Libertà, poteva servirsi di collegamenti ferroviari, o di un’auto presa a noleggio, ma la cosa più veloce sarebbe stata quella di pigliare un taxi.
«How far is Baarìa from the Air Terminal?»
«Circa 15 miglia» risposi. Chiese se disponevamo di una carta stradale, e in quel caso inviargliela presso la sua sede amministrativa. Dopo aver fatto richiesta del suo indirizzo, diedi conferma dell’immediato inoltro. Soddisfatto del servizio ottenuto mi chiese con chi aveva avuto a che fare. Risposi che ad aver accolto le sue richieste era stato Gianni D’Amico.
«What did you say!!» rispose con tono stupito.
«Yes!, you have been speaking to Gianni D’Amico!»
«Are you meaning that your family name is Di-ei-em-ai-si-o?!»
«That’s for sure, Sir!!» esclamai, dando conferma di quanto detto.
«I’m Gianni D’Amico as well!» disse lui ridendo di gusto.
La conversazione si prolungò per ancora pochi minuti, indi mi chiese se avessi potuto attendere ancora mezz’ora e saremmo andati a consumare il lunch insieme. Accettai, e lo attesi passeggiando sui larghi marciapiedi della Michigan
Ave., là all’ingresso del Wrigley Building, sede dei magnati del chewing gum, per chi conosce Chicago. E nel rispetto dell’orario fissatomi giunse in loco alla guida di una Ferrari Testarossa.



Cinquantenne, (?) alto, fisico asciutto, affettato, ma cordiale. Dopo una calorosa stretta di mano, mi condusse in un popolato locale e ordinò due pepati Nottingham. Nel rendermi partecipe che era un imprenditore dell’industria dolciaria, aggiunse che lo scopo della sua partenza per Palermo era quello di fare rivedere Bagheria all’anziana madre; non esitando un solo istante ad estendere anche a me l’invito al party, il quale si sarebbe tenuto in onore dell’ottuagenaria signora il weekend a venire. Apprezzai quest’altro invito mostrando la mia gratitudine. E poiché abitava a Winnetka, mi diede garanzia che qualcuno sarebbe venuto ad incontrarmi. Abbigliamento casual, mi aveva raccomandato.
Era fine maggio, la temperatura oscillava fra gli 85 e i 90 Fahrenheit, e il consistente tasso di umidità prodotto dalle acque del lago, rendeva il respiro soffocante e greve. Ma era questo il clima estivo di Chicago. Decisi d’indossare pantaloni in cotone bianco, camicia e mocassini, ma senza calze.
L’appuntamento con chi sarebbe venuto ad incontrarmi era stato fissato, ad una certa ora, accanto al Sweet Water Restaurant and Bar, sulla North Rush Street, laddove al decimo piano avevo trovato un confortevole appartamento meublé.
Quando in fondo a quella strada deserta, vidi profilarsi un’auto rossa. La stessa che due giorni prima era stata guidata da Mr. John D’Amico.
Questa volta, però, il conducente era di sesso femminile. Indossava una canottiera bianca, (reggiseno-esente) con su stampigliato “sex therapy”, ero così imbarazzato che non sapevo dove posare gli occhi, concentrandomi – con scarso successo – a distogliere il mio sguardo dal suo procace davanzale.
«My name is Kelly! Nice to meet you, Gianni.» disse lei lasciando il posto di guida, ed eseguendo un gesto con la mano che stava ad indicare: a te il volante.
«Nice to meet Kelly.» Risposi io ricollegando quel “No problem” detto da Mr. D’Amico, allorquando sulla Michigan Avenue, complimentandomi di quel gioiello di macchina, avevo esclamato “non ho mai guidato una Ferrari!”
Non ero sprovveduto per quel tipo di guida, avevo già condotto delle macchine sportive, oltre 3.000 di cilindrata, ma ciò non tolse che l’adrenalina contenuta nel mio organismo, scatenasse una sì forte scarica ormonale da avere un quadro esatto di quel corpo femminile totalmente nudo. Una Ferrari è sicuramente una Ferrari, ragazzi!! E le “cose belle” sono fatte per essere ammirate…
La velocità massima consentita sull’autostrada era di 65 miglia/h, si rese semplice mantenere mansueto quel “cavallino rampante”, La sua progressione era veramente straordinaria, e inserire le merce sembrava di stare su di un aereo, vista la tecnologia del cambio di cui era provvista. Mi ha dato l’impressione di essere in pista con un motore alle spalle. Non lo nascondo, ma in quei momenti percepii il mio ego gongolare.


Winnetka, distante 80 Km, con le sue Ville da milioni di Dollari, era lì ad attenderci. Johnny era in piedi accanto a sua madre. Diedi un saluto generale agli ospiti, e mi accostai all’anziana donna dandole un bacio.
«Queste sono per lei.» dissi, porgendole un fascio di rose rosse.
«Tu poi parrari cu’ mmia madri in sicilianu.» Disse il figlio americanizzando la pronuncia di quella frase. Mentre mi ero accorto che della lingua siciliana, Kelly ne biascicava quanto io di quella finnica: pressoché zero.
Fra una portata e l’altra di quel pantagruelico buffet, l’anziana donna mi parlò tanto della sua infanzia. Ma ciò che maggiormente mi colpì, fu nel sentirle dire:
«’Ntrà sta terra, figghiu miu, nun è facili truvàri la filicità e quannu la trovi nun havi prezzu!» (In questa terra, figlio mio, non è facile trovare la felicità, e quando la trovi non ha prezzo. N.d.A.) Come d’altronde nel corso del party mi aveva esternato la stessa Kelly.
La ragazza poteva avere fra i 25 e i 28 anni – era figlia unica di John e della sua seconda moglie. Mentre una coppia di gemelli, che senza sosta saltavano addosso al loro papà, erano gli ultimi eredi concepiti da Johnny con la sua terza moglie, che non ebbi occasione d’incontrare.
Alcune ore dopo, al calar del sole, accompagnato da Kelly per i campi da golf, ebbi modo di osservare le ricchezze di quella famiglia, e feci un raffronto con la
Villa di JR, personaggio dalla lunga serie – soap opera – Dallas, dall’elevato share televisivo, deducendone che la residenza di Mr. D’Amico, nascosta fra una fitta vegetazione di salici piangenti e sequoia secolari, edificata ai bordi di un lago, e incorniciata da una autentica pista da formula uno, non aveva nulla da invidiare a molte altre Ville, i cui proprietari risultavano essere Stars Holliwoodiane. E li, soppesando le parole della longeva donna, mi resi conto quanto l’America fosse davvero la terra delle opportunità.
Nel frattempo, al disopra dei lampioni che illuminavano quello sfarzoso ambiente, era calata la sera.
Erano circa le due del mattino, quando il lungo intrattenimento celebrato in onore della signora Rita, vivacizzato da ricche libagione di ottimi vini d’annata, ma soprattutto dall’esibirsi del noto cantautore Paul Anka, volse alla fine.
«Se vuoi fermarti a dormire qui puoi farlo, non sussistono problemi, abbiamo alcune camere riservate ai nostri ospiti.» disse Kelly «altrimenti Papà ti farà accompagnare a casa tua da qualcuno». Colto un po’ dal plausibile imbarazzo, devo pur ammetterlo, scelsi la seconda proposta. Circa un’ora dopo ero letto fra le braccia di Morfeo.
Nel corso di quel triennio ci siamo rivisti altre volte, sia con Johnny e la signora Rita che con Kelly. Difatti era stata proprio lei ad avermi invitato a visitare le Cascate del Niagara, e per deduzione la breve sosta a Cincinnati per rendere visita all’Avvocato Pitcairn. Argomento, questo, trattato nel mio primo racconto, se bene ricordate.
* * *


“Le onde emotive spengono l’intelligenza.” È così che, quand’è necessario, lo scrittore Salvatore Parlagreco porta a termine un suo capitolo. In effetti, non fu facile dare un colpo di spugna e cancellare dalla mia mente l’incontro avuto con quella famiglia, soprattutto con Kelly, ragazza da non sottovalutare anche per il suo quoziente intellettivo. Continuare a restare inerte era qualcosa che mi faceva sentire sul serio senza cervello. Ma l’occasione per dimostrare ai D’Amico le virtù cavalleresche di colui che scrive, non tardò a presentarsi.
Una mattina di piena estate i cartelloni pubblicitari, sparsi per l’intera Chicago, propagandavano in maniera martellante una campagna promozionale a favore di un’associazione medico-scientifica, la quale si occupava della ricerca e la cura della distrofia muscolare, che inesorabilmente colpiva alcuni bambini dello Stato dell’Illinois. Sponsor Ufficiale, una grande Star di Hollywood: tale Kirk Douglas. Per raggranellare un bel po’ di Dollari da devolvere a codesta associazione, era stata avviata una sottoscrizione, a numero chiuso, per partecipanti ad una gara di ballo dalla durata “no stop” di 30 ore; i cui costi per coppie, particolarmente selezionate, erano accessibili ad una certa Élite.
Mentre per un pubblico, anche questo, di un certo fior fiore il biglietto d’ingresso costava 100 Dollari procapite. Considerato che una cena in un buon ristorante era poco inferiore, la suddetta cifra lasciava un po’ riflettere. Ma Mr. Douglas contava sulla qualità più che la quantità. Non ci pensai più di tanto e deliberai l’acquisto di un paio di biglietti (con tariffa al pubblico) votando Kelly come mia partner, ciò ponderato decisi di sentirla per sapere i suoi impegni presi per quel fine settimana otto giorni a venire. In quello stesso istante squillò il telefono e, per un fattore prettamente telepatico, me la sono trovata dall’altro capo del filo.
Lei venuta a conoscenza dell’anzidetta iniziativa, ed essendo distante dal luogo laddove veniva effettuata la vendita dei biglietti, mi esortava a prenotare due posti a nome D’Amico, con il corrispettivo acquisto dei biglietti, s’intende.
«Cerca di far presto,» mi raccomandò «poiché non sarà facile poter avere accesso a questo incontro istituito a scopo di beneficenza; soprattutto se lo sponsor, come dicono, sia davvero Kirk Douglas. Purtroppo papà è anche fuori sede, altrimenti gliel’avrei passato a lui la patata bollente. Come tu sai in questi casi influisce molto la persona e la carica che riveste.»
«Mi stavo dando da fare, poiché avrei il piacere d’incontrare una persona molto influente.» dissi io.
«Hai trovato una partner!?» interloquì lei.
«Sì, una certa Kelly, titolare di un negozio di abbigliamenti, figlia di un ricco imprenditore dalla megagalattica Villa posseduta a Winnetka». Proruppe in una risata. Facendo leva sulle quattro iniziali I.G.T.B. senza alcun se né ma, ottenni i due biglietti.


Kelly, alta 1,76 proprietaria di una Boutique di pregiati capi femminili, con sede nel lussuoso John Hancock Center, sapeva dare gli opportuni suggerimenti sul come saper vestire. Ma chi, quella sera, le aveva consigliato di vestire in quella maniera destinata a pochi!!
Indossava un completo femminile nude look, colore ecru, cucitole addosso, talmente attillato da mettere in risalto le sue forme mozzafiato. Era raro che io potessi guardare gli occhi di una donna a livello dei miei, ma in questo particolare caso dovetti alzarli di alcuni centimetri.
Entrammo in un vasto salone addobbato a festa. Circa un centinaio, o poco più, di coppie, che dietro la maestria di un giovane DJ, si cimentavano già in quell’arduo tour de force.
«What do you like to drink!» le chiesi, dirigendoci verso il bar.
«Martini and Jin for me, what about you!» ho sempre detestato il Jin, sentivo dire che era un gran calcio di mulo inferto ai reni. Optai per una bibita rinfrescante, un long drink, lo storico Bellini, al quale si associò anche lei, e con i bicchieri in mano, tintinnanti di ghiaccio, ci avviammo in zona DJ, che proprio in quegli attimi intonava “Somewhere over the rainbow”.
Non vi furono occhi che non “accarezzassero” le rotondità di Kelly... Ed io, ancor più di lei, ne andai in brodo di giuggiole.
Fu da lì che, indirizzando i nostri sguardi infondo al vasto salone, intravedemmo
un uomo in abiti da Imperatore Romano, il quale sdraiato su dei grandi cuscini in una sorta di triclinio, era attorniato da una dozzina di belle donne negli abiti da Vestali. Nella parete alle sue spalle un gigantesco arazzo, narrava un’impresa eroica di Enea che, rimasto ferito da una freccia, era sorretto dal figlio Ascanio. Sebbene il suddetto arazzo fosse di dubbia fattura, aveva la presunzione di adornare quel locale esattamente come in una scena teatrale.
«In qualche maniera si dovrebbe far vivo la sponsor!» disse Kelly in un discreto italiano. Ma con scarso self control nel non aver saputo mascherare la frenesia d’incontrare la star del cinema, che nonostante avesse avuto l’occasione non aveva saputo distinguerla nel costume di Cesare.
«Stammi accanto, presto ti presenterò una persona amica» dissi io, fuorviandola dal presentarle Kirk Douglas negli abiti imperiali di Numa Pompilio.
Provammo a varcare un’area recintata da un cordone, ai fini di avere un contatto più ravvicinato con l’amico Kirk. Quando un uomo, più largo che alto, ci sbarrò il passo, dicendo:
«Sorry Sir and Meam, no body is admitted in this area.» non prestai attenzione su ciò che gli rispose Kelly, ma udii la risposta del bodyguard:
«No, I can’t!» Lo pregai se poteva passare una mia ambasciata a Mr. Douglas. Accondiscese. Avvicinando la mia bocca al suo orecchio, gli spiegai che ero un suo amico proveniente da Palermo. Aggiungendo “The Leopard”. Il titolo del film lo avrebbe ricollegato al mio nome. Kelly mi chiese che cosa avevo bisbigliato all’orecchio di quell’uomo. Le risposi che presto l’avrebbe saputo.



Intravidi, fra le tante teste delle coppie danzanti, il colossale portavoce chinarsi sull’attore sponsor sussurrargli poche parole all’orecchio, e nel contempo puntare un dito nella nostra direzione che, essendoci mossi, non fu più in grado di identificarci. A quel punto vidi Kirk levarsi dal suo assetto da Imperatore e rivoltosi in direzione della platea urlò:
«Hi “Giani” where’re youuu!!!!!» e frattanto con un semplice gesto eseguito con due dita, comunicò al DJ di sfumare il volume della musica. Un po’ intimidito alzai il braccio per aiutarlo a focalizzare la mia posizione.
Rapita nello spirito, Kelly, fissava attonita quell’immagine. Quando il cordone che circoscriveva quell’area riservata venne fatto calare e avemmo modo di andargli incontro.
Quella sgomitata cordiale inflittami sul fianco, seguita dalla V con due dita dalle unghie smaltate, non proveniva di sicuro dal mio angelo custode... Raggiunto il triclinio tesi festoso la mano per la robusta stretta, e le presentai la mia amica, dicendo:
«Kelly D’Amico».
Lui, invece, allungando lo sguardo verso gli astanti, mi presentò in questa intraprendente maniera:
«Ladies and Gentlemen, this is “Jani Di amico”, Sicilian great friend of mine, descendent from the Gattopardo’s Family. And this is Kelly, his wife».
Era comprensibile che, per causa dello stesso cognome, nascesse il malinteso, in questo caso avrei dovuto omettere il cognome, e dire soltanto Kelly; se avessi agito in questa maniera, forse, non l’avrei indotto a cadere nell’equivoco. Cioè quello d’aver detto: “e questa è sua moglie.” Non sono in grado di saper descrivere quel genere di acclamazioni dirette a noi. Ma furono torrenziali, interminabili, calorosi. E dando il via alla danza, mi diede una gran pacca sulla spalla e parlò dicendo:
«Welcome to Chicago, Sir!!» Quelle stesse parole che avevo pronunciato io nei riguardi di un turista americano, 16 anni dopo una grande Star del cinema, le espresse nei confronti di colui che oggi lo narra.
Si baciò con Kelly, la quale dal dì che era certa di assistere al singolare evento, non stava più dentro la sua pelle. Quel “beauuutiful” udito, sussurrato da alcune “vestali”, non era sicuramente diretto a me…



Epilogo
La cerimonia riguardante l’assegnazione dei premi, alle tre coppie vincitrici la gara, ebbe luogo il sabato a notte fonda. Dopo di ciò Mr. Douglas invitò a cena un ristretto gruppo di collaboratori. Kelly ed io, – se pur non facendo parte di quel ”Cast” – venimmo parimenti invitati.
Fu ardua la risolutezza di Kelly, che volendo sostenere d’essere mia moglie, inserì una fedina nuziale al suo anulare sinistro, correndo il rischio di essere comunque riconosciuta nella titolare della boutique “Kelly’s Fashion” ma lei mi diede garanzia che raramente si occupava delle PR, bensì era dedita, più che altro, alle sfilate, alla scelta dei capi da indossare, e al settore amministrativo.
Venuta a conoscenza del costo dei biglietti, mi assicurò che se fossero stati distribuiti allo stesso prezzo di quelli venduti ai partecipanti alla gara, cioè 500$, quelle persone privilegiate che ebbero accesso a quello speciale convegno, si sarebbero sottoposti non importa a quale salasso, pur di stringere la mano a Mr. Douglas.
«Correndo il rischio» dissi io «di trasformare questo gesto di beneficenza in un caso parecchio speculativo.» ma lei mi smentì dicendo che: quando le due squadre di basket Chicago Bull e New York Knicks, rivali per antonomasia, disputavano la finalissima, i prezzi dei biglietti di tribuna salivano ignobilmente alle stelle. Le feci osservare che gli incassi di quegli incontri agonistici, raramente venivano devoluti ad opere di beneficenza, da non poter fare, perciò, un termine di paragone. In un certo modo ne convenne, considerando quest’altro caso un’autentica alienazione.
«This is my America!» esclamò, stringendosi nelle spalle.
Tenendo i suoi occhi incollati ai miei, espresse la sua gratitudine e baciandomi furtivamente sulle labbra, ribatté:
«It's better to live one day as a lion, than a thousand years as a lamb».
(E’ meglio vivere un giorno da leone, che mille anni da agnello.)
La vidi deglutire asciutto. Ebbi l’impressione che stesse per reprimere qualche luccicone, indi aggiunse:
«It’s very sad being alone! “Gratsi” Gianni! I’ve lived a day as a lion!»
Vidi un sorriso malinconico apparire sulle sue labbra e i suoi occhi gonfiarsi di lacrime. Ma non seppi mai per quali sensazioni.
Ad maiora!!
Gianni D’Amico.

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1 commento:

  1. Racconti belli, dettagliati scorrevoli, minuziosamente descrittivi in grado di rendere reali le immagini che ci appaiono leggendo i suoi vivacissimi racconti, regalanoci aneddoti ed avventure scritte con ironia ed acutezza degni di essere riprodotti sul grande schermo !!
    Caterina S.

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