venerdì 2 ottobre 2015

Il pescatore della Luisiana

      
Breve prologo.

Avevamo preso il largo per una battuta di caccia al tonno rosso.
Quando ci siamo visti accerchiati  da un branco di delfini. All’inizio pensammo che erano stati attratti dall’odore del cibo, Ma presto, attraverso le loro vocalizzazioni, ci rendemmo conto che chiedevano aiuto. Non esitammo a seguirli, e a debita distanza notammo uno strano luccichio: un cane di grossa taglia, da circa otto ore, trainava qualcosa che ci lasciò senza fiato. Avvertita la capitaneria di porto, ci venne subito incontro, ma per lo sfortunato, nulla si poté fare per ridargli la vita Il resto lo saprete leggendo il mio racconto autobiogra- fico…
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Amante della pesca subacquea, con muta ed erogatori d’aria, era divenuta consuetudine, oramai, andare a trascorrere una settimana di vacanza in compagnia della mia girl friend, nelle acque pescose che bagnano l’Isola di Linosa. Ed è accaduto proprio nel ’62, che abbiamo consolidato stretta amicizia con un pescatore del luogo. L’anziano Ingegnere scapolone, non più operoso per raggiunti limiti di età, il quale aveva costruito con le sue mani un’imbarcazione modello gozzo in frassino marino e con quello sfidava anche le grosse mareggiate pur di mangiare il pescato del giorno. Mi risuonano, ancora, alle orecchie le sue parole: “Bisogna dare sempre la prora al vento ricordalo, figliolo!...”
Ad anni pari, invece, era sua tradizione recasi negli States, nello Stato della Louisiana, nella fattispecie, e bearsi della vicinanza del fratello minore e di un imprecisato numero di nipoti. E per non arrugginirsi, sosteneva, era di prassi dedicare lunghe giornate alla pesca. Laddove si pesca alla grande o non si pesca…
“… Se un giorno doveste venire in America, veniteci a trovare”. Aveva detto quella sera, mentre seduti in trattoria, - non curante del rumore - succhiava la testa di quella orata cotta al sale…
Alcuni anni dopo, ottenuto un impiego con relativo trasferimento in USA, siamo andati a trovarlo.
L’ospitalità dataci è stata imbarazzante, a dir poco… Famiglia agiata quella americana, abitava nello Stato della Louisiana, a Port Athur, nel Golfo del Messico, in un piccolo centro non molto distante da Pasadena.


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…Era la terza mattina consecutiva che, i miei amici americani ed io, uscivamo per una battuta di pesca. Era l’alba di un fine settimana di metà giugno degli anni ’70, ed erano circa le ore cinque. C’eravamo staccati dal molo Sud Ovest di Port Arthur, e navigavamo, in direzione Sud, a cavallo del 90° parallelo longitudinale di Greenwich.
Il mare sembrava una tavola. Calmo come l’olio! La tipica bonazza, e quando si è fatto pieno giorno abbiamo notato che il cielo era azzurro e libero da foschie, con temperatura poco superiore alla media stagionale. Davo potenza ai motori e stavamo navigando a circa dieci nodi l’ora, mentre da sottocoperta si percepiva già il piacevole profumo di uova al bacon e caffè.
Quando abbiamo perduto di vista la terra, avevamo navigato più o meno per 13 miglia, ho azzerato i motori e mi sono portato a poppa.
Maureen, proprietaria della barca, moglie di uno di loro, ad un tratto ci ha invitato a girare il collo e guardare in direzione Sud-Est. Seguendo la sua imbeccata abbiamo notato con stupore un branco di delfini dirigersi velocemente verso noi. Il gruppo nuotava velocissimo a pelo d’acqua, con dei guizzi ritmici alti circa due metri: quello scenario non poco ci ha incuriosito.
 In un paio di minuti siamo stati attorniati da un imprecisato numero di intelligenti mammiferi con i quali, inizialmente, abbiamo provato a dividere la nostra colazione.
Ma è sembrato che non gradissero ciò che noi gli stavamo offrendo, e continuavano a rimanere fuori dall’acqua in perfetta verticalizzazione, emettendo dei suoni comunicativi, diversi nel volume e nella durata, a noi non molto familiari, non erano gli stessi che spesso udiamo negli acquari, via! Abbiamo pensato ch’erano stati attratti dall’odore del cibo, invece dopo averli accarezzati e salutati, sono ripartiti nella direzione medesima da dove erano venuti. Percorso meno di un miglio, e vedendoci ancora fermi sul posto dove ci avevano incontrati, hanno fatto velocemente ritorno verso di noi, circondando nuovamente la barca, sembrava quasi volessero saltarvi dentro emettendo altre forme di vocalizzazioni.
A quel punto Maureen non ha avuto più dubbi; l’esperta in materie ittiologiche ha chiarito subito l’enigma, spiegandoci che questi mammiferi hanno diversificate vocalizzazioni, che rappresentano i loro modi di comunicare, ma in quel caso era evidente il loro nervosismo poiché, oltre ad urlare, sbattevano fortemente la coda emettendo vibrazioni dalle mascelle, mentre quando sono contenti,..spiegò Maureen, lanciano una sorta di “cinguettio.” Il branco ripartì, a gran velocità, verso la medesima rotta, e ci siamo resi conto che c’invitavano a seguirli, ma nel raggio di alcune miglia, verso il mare aperto, non si scorgeva anima viva .
Abbiamo lasciato perdere di far colazione e, dando potenza ai motori, abbiamo seguito la loro scia. Secondo il solcometro di bordo del nostro cabinato, stavamo navigando a oltre 25 nodi. Terry, una delle signore, ci ha fatto notare un paio di delfini, che fiancheggiavano il natante, erano più lenti. Guardando con la coda dell’occhio, mi sono accorto che erano seguiti dai loro piccoli, ci è sembrato corretto diminuire la velocità, quando a circa mezzo miglio, notiamo qualcosa che emetteva un intermittente luccichio.
Accorciate le distanze, scorgiamo una sagoma piatta che avanzava verso di noi con un certo spostamento dell’acqua a tutti quanti familiare, ad un tratto tutto è divenuto chiaro: un cane nuotava affannosamente, trascinandosi dietro un uomo per il bracciale del suo orologio. Giunto nelle nostre vicinanze, ha mollato la presa lasciandoci senza fiato.
L’uomo teneva legato al petto un neonato, inserito in un marsupio porte-enfant. Essendo a dorso nudo e in pantaloni bermuda, non ho esitato un solo istante a tuffarmi e andargli incontro. Sfibbiato il marsupio, e preso in braccio il piccino, l’ho dato in mano a Maureen, la quale, stringendolo a sé, ha dato inizio ad accurati massaggi in tutto il corpicino; mentre colui che scrive si è dato all’inseguimento del cane, che aveva intrapreso la via di ritorno.  
“Ma per andar dove?” ci siamo chiesti tutti quanti.
Il bambino, sentendosi mosso, ha emesso dei vagiti ed è stata una liberazione per tutti noi, il pigiama a tutina che indossava era quasi asciutto, poiché il suo corpicino aveva galleggiato fuori la superficie dell’acqua, e chi sa per quanto tempo! Con l’aiuto degli altri due uomini, abbiamo issato a bordo il corpo inerte del trentenne, e abbiamo provato ad esercitare un massaggio cardiaco, ma invano, si era subito notato che quel corpo aveva raggiunto da un bel po’ il rigor mortis.
Frattanto imbarchiamo la bestiola: un meticcio a pelo corto, un probabile incrocio fra un Labrador ed un Pit-bull, un cane dal torace possente e gli arti muscolosi, sporco all’inverosimile.
Dopo aver caricato a bordo e ben rifocillato l’eroico quadrupede, vediamo i delfini prendere il largo fra i loro lunghi e festanti cinguettii.

La bestiola, dopo averci annusato uno per uno, è andata a posizionarsi in punta alla prua, puntando lo sguardo laddove il cielo si congiungeva con le acque dell’Oceano.
Abbiamo avuto la netta impressione che quel cane fosse abituato alla vita di bordo. Terry si era accorta che dal suo collare pendeva una piccola capsula di metallo, l’ha svitata e ne ha estratto fuori un bigliettino, sul quale si leggeva a chiare lettere: Ashley. Crew of Delaware ESSO tank oil.
Abbiamo virato di bordo, puntando a tutta potenza la prua verso Port Arthur. Sentendo piangere di nuovo il bambino, ci siamo resi conto che stava bene, ma aveva sicuramente fame. Avevamo dello zucchero giù in cucina, nient’altro che questo per poterlo sfamare. Per iniziativa di Maureen, abbiamo preso alcune zollette e una la volta le abbiamo inserito dentro un fazzoletto pulito, imitando una sorta di primordiale ciucciotto, e dopo averlo imbevuto d’acqua tiepida glielo abbiamo dato a ciucciare.
Dopo aver consumata la quinta o la sesta zolletta, ed una giusta quantità di acqua, ha sorriso teneramente e stremato, forse dal viaggio, ha preso sonno fra le braccia di Maureen, la quale, dopo averlo ben lavato gli ha messo addosso un improvvisato pannolino, poi dopo averlo avvolto in una coperta, lo ha  lasciato riposare.
Di quanto accaduto era stata avvertita, tempestivamente, la Guardia Costiera, la quale ha fatto in modo d’inviare un’ambulanza all’imbarcadero. Al nostro arrivo, il medico ha riscontrato che il bambino aveva non più di quattro mesi, lo ha trovato principalmente in ottimo stato, ma un tantino disidratato, suggerendo il ricovero in ospedale per le analisi di routine.
Più tardi, al crepuscolo, seduti in veranda di fronte ad un calice di un bianco secco locale, ci siamo chiesto le ragioni di questo inconcepibile dramma. Ma proprio allora qualcuno bussò alla porta... Era un loro amico, Sceriffo Federale di quel luogo, in compagnia della propria moglie, il quale dopo aver preso posto si è versato il suo buon calice di vino, invitando gli astanti ad elevare i bicchieri, e dopo aver pronunciato il fatidico “a saluti pir cent’anni”, ne ha bevuto alcuni sorsi, si è schiarito la voce e, come da talk show, ha dato inizio al dibattito.
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…Il cadavere dello sfortunato, era stato immediatamente identificato dalla polizia di New Orleans, nella persona del titolare di un Super Market, sposatosi con una delle sue commesse, il loro matrimonio “riparatore” era naufragato pochi mesi dopo. 
Dir si vuole, inoltre, che la prima furibonda lite - fra i giovani sposi - sia accaduta all’aeroporto, in partenza per la sospirata luna di miele, mandando a ramengo il rituale viaggio. 
A separazione avvenuta, il giudice aveva affidato il neonato alla tutela della madre, a condizione che il genitore potesse tenerlo un giorno a settimana: il sabato. Le acque si erano apparentemente quietate, quando la genitrice, senza dir niente al papà del bambino, s’imbarca su di una nave da crociera diretta alle Bahamas, laddove la donna era nata, sottraendo il bambino all’ex marito per un fine settimana.
Ma “un’amica”, avendola vista salire a bordo, lo avverte dell’iniziativa presa dalla giovane madre. Lui, temendo il rapimento della propria creatura, fa giusto in tempo ad imbarcarsi, mentre la nave stava per salpare, portando con sé un borsone con dentro ciò che gli era necessario. Successivamente, presso il commissario di bordo, acquista un regolare biglietto in cabina di lusso, così facendo dà la conferma di non essere uno squattrinato! La stessa sera, mentre la moglie stava a cena, adducendo un pretesto attendibile, fa in modo di farsi aprire la porta della cabina assegnata alla propria moglie, e lì attende il suo arrivo. Pervaso dalla collera, non esita a narcotizzarla facendo uso di un nebulizzatore. A notte fonda la imbavaglia legandola immobile al letto e mette in atto il suo folle progetto. Prende il piccino, lo avvolge in una coperta, lo insacca nel marsupio, affibbiandolo bene a sé, ed eludendo la sorveglianza dei marinai di turno, si reca in veranda, che a quell’ora sicuramente deserta. Attende il momento propizio e si cala in mare con una lunga fune che teneva nascosta dentro il suo borsone.
Sicuramente aveva preso accordi con qualcuno, che con una buona barca sarebbe andato a riprenderlo sottobordo! Ipotesi questa, sostenuta dalla polizia e dalla guardia costiera! Era presumibilmente accaduto che il padre rapitore del bambino, preso dal forte panico nel non aver visto il soccorritore, per causa della forte emozione sia stato colto da malore, ed il suo cuore abbia cessato di pompare. 
Quella sera sulla stessa rotta − distante un’ora dalla nave passeggeri − navigava una grossa petroliera della Standard Oil, salpata dalle raffinerie di Baton Rouge, laddove aveva effettuato la sua sosta per bunkeraggio, dirigendosi successivamente a Boston sulle coste atlantiche. Ed è lì che, sicuramente, entra in azione quel coraggioso quadrupede. Avendo visto o sentito qualcosa: forse il pianto del piccino, si è lanciato in mare, ed afferrato l’uomo per la cinghia di metallo dell’orologio, incomincia a nuotare verso la terra ferma.., quella che la petroliera aveva lasciata poche ore prima. Fattosi giorno, entrano in azione i delfini. Si presume a lume di naso che la bestiola abbia nuotato ininterrottamente per circa sette/otto ore.
Il seguito è facile intuirlo: il personale di servizio deve, come tutte le mattine, governare le cabine, ed ecco che trova la donna legata ed imbavagliata, la quale, dopo essere stata liberata, racconta l’accaduto al commissario di bordo, che immediatamente diffonde la notizia via radio alla più vicina guardia costiera.
Il resto è risaputo. Il bambino viene restituito alla sua mamma e inizia la caccia all’uomo, orientata verso colui che avrebbe dovuto incontrare in mare il folle “James Bond.” Identificato, più tardi, in uno dei suoi migliori amici. Potenziale concorrente, titolare di un altro super mercato, al quale il defunto padre del piccino aveva sottratto la ragazza sposandola.
Questi gli dà ascolto, dicendogli che tutto era facilmente realizzabile. Ma lo ha detto solo per fargli spregio e non premeditando una vendetta, ha sostenuto successivamente in tribunale.
In realtà lo sciagurato aveva lasciato in mare padre e figlio, rischiando di farli morire entrambi assiderati.
Il giudice ha preso in considerazione che il padre del piccino era morto per arresto cardiaco, non per annegamento o assideramento, e ha chiuso il processo infliggendogli sei anni di reclusione e lo sborso di un’elevata cauzione. Inseguito si è appurato che il quadrupede era stato restituito al legittimo padrone.
Infatti la guardia costiera ha avvertito il Comandante della Delaware, chiedendo di rintracciare il marinaio che teneva in custodia il cane Ashley. Il marinaio, nel viaggio successivo, è venuto a ritirarselo e in presenza del Governatore dello stato della Louisiana, la bestiola è stata decorata dallo stesso Governatore con una medaglia d’argento infilata al collare, e su quel foglietto trovato rinchiuso nella capsula è stato aggiunto: National Hero...

Ad maiora.

(Gianni D’Amico)


Dedicato a Te Lady Anne…
                            

mercoledì 30 settembre 2015

Un giocattolo di cui furono in tanti a dire pazzesco!!

  
“… Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e cano- scenza” (Dante, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)                                                                                            

*
Sì…! Ne è passata d’acqua sotto i ponti. Chi può, mai, negarlo…!!!                                   
Spesso, più che sporadico, durante l’inverno, dopo aver fatto i miei compiti, andavo a rinchiudermi in una delle cabine balneari di per- tinenza ai Petrucci; e ivi rintanato, ammiravo l’elegante volo dei gab- biani che sospinti dall’impetuoso grecale restavano surplace pronti a sferrare l’attacco all’ingenuo pesciolino travolto dal mare in tempesta.
A parte l’airone, stupendo piumato dall’apertura alare stimabile in cm. 170 e l’albatro con quella sua di tre metri e mezzo, non è da sottova- lutare il gabbiano comune con una lunghezza corporea che va dai 40 ai 60 cm, e un'apertura alare dai 98 ai 105 cm, da me considerato il volatile più affascinante che madre natura abbia potuto creare.
Ed era su questo pennuto che venivano concentrati i miei studi allo scopo di costruire e far decollare un minuscolo aereo senza motore.
Progetto, questo, che dovetti rimandare per circa un quinquennio, cau- sa il mio essere stato accolto in un orfanotrofio Salesiano.

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Fugge irreparabilmente il tempo
… Ne venni fuori, cinque anni dopo, forgiato, tornito, alesato e abile a far suonare la campana, come sostenne don Trazzera, mio maestro, salesiano laico. Con l’aver espresso quel suo pensiero, era chiaro il concetto: io sarei stato in grado di provvedere a me stesso, mentre all’interno di quelle mura erano i salesiani che, alle 12.30 di tutti i giorni, suonata la campana provvedevano a sfamare ben 240 orfani…
… Per l’intera durata di quel lustro, il progetto di far volate un piccolo aereo sospinto dai venti, aveva preso forma nella mia mente.
Era necessario, in primo luogo, avvalermi della materia prima: il legno. Della tipologia di alcuni legni e della loro biodiversità, durante quei cinque anni di scuola, ne avevo acquisito non poca consapevo- lezza. Era essenziale, tuttavia, avvalermi di un tronco morbido, sfi- brato, senza nodi, quindi, ma soprattutto leggero. 

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Ciò ponderato, la mia scelta cadde su tre tipi di legni: il canfora, il tiglio e il massello di Balsa, ideale, questo, per il modellismo e gal- leggianti da pesca. Ma dove sarei andato a trovare un tronchetto, considerato che tutti e tre le specie sono degli alberi esotici dalle non ordinarie dimensioni. Mi attaccai ad un telefono pubblico e chiesi del mio maestro, don Totò Trazzera. Mi è doveroso avvalorare che mi diede ascolto con peculiare coinvolgimento chiedendo alcuni giorni di tempo.

Il raggiungimento di alcuni traguardi, avevano preso nella mia mente forma e determinazione. A parte quei possenti bombardieri americani e britannici che volando ad alta quota nei cieli di Palermo, seminavano distruzione e morte, io non avevo mai visto un aereo a distanza ravvi- cinata. Spinto da questo desiderio, non esitai a salire sui mezzi pub- blici e recarmi all’aeroporto civile Boccadifalco.

Il mio stato emotivo nel vedere un aereo della compagnia di bandiera LAI toccare la pista fu insostenibile, avvertii per tutto il corpo una vigorosa scarica di adrenalina, che mi diede la spinta giusta per sapere affrontare e raggiungere anche quello che mi sembrava impossibile. La sosta non si protrasse per le lunghe, giusto il tempo di scaricare bagagli e passeggeri, che ne imbarcò degli altri con destinazione Fiu- micino. Ma in fondo alla pista, proprio sotto i miei occhi, il coman- dante effettuò ciò che, sicuramente, era di comune routine: il corretto funzionamento dei flaps e del timone di coda. Ricevuto l’okay dalla torre di controllo prese il volo con la stessa eleganza di un gabbiano. Feci ritorno a casa avendo raggiunto uno degli obiettivi prestabilitomi: aspetto della fusoliera, l’attaccamento delle ali ad essa e lo snodo del timone di coda.
Alcuni giorni dopo, avvertito dal verduraio fornitore dell’istituto, presi contatto con il mio maestro. M’invitava a recarmi da Scannapieco, il maggiore fornitore di legnami esotici e chiedere del Signor Di Stefano  Il tempo è oro, non rimandare mai a domani ciò che potrebbe esser fatto oggi. Diceva spesso mia madre. Non esitai un solo istante ad incontrare la persona indicatami. In un angolo del magazzino giace- vano accatastati quattro tronchetti di legno balsa dalle dimensioni con- facenti le mie necessità. Fui invitato a sceglierne uno dando rilevante importanza alla loro decennale stagionatura.                          
    “Stanno messi lì da prima che scoppiasse la guerra, né gli ebanisti né i falegnami sanno che cosa farne, è un legno stupido, privo d'interesse, troppo leggero. A te a che cosa serve!?” Risposi che avevo in mente la concretizzazione di un progetto, costruire un aereo giocattolo e farlo volare senza motore. Rise di pancia, esclamando: “è pazzesco!“
Il giorno successivo, nella falegnameria di zio Ciccio Gargano, era stato spogliato dalla sua corteccia e ben sezionato. A conferma di quanto era stato detto dal signor Di Stefano - circa la decennale stagio- natura di quei tronchi di balsa - la segatura prodotta dalla sega a nastro aveva l'apparenza del borotalco: impalpabile. Sbozzai quelle parti che sarebbero divenute le ali e la fusoliera e mi accinsi a dar loro le ap- prossimative dimensioni stimate con quelle di un gabbiano. Il succes- sivo stratagemma fu quello di separare la fusoliera in due parti uguali e nella maniera in cui si taglia uno sfilatino al quale viene tolta la mollica, svuotai le due componenti limitando lo spessore della scocca non superiore ai tre millimetri. Lo soppesai con le mani e mi accorsi che la loro pesantezza non superava quello di un paio di pacchetti di sigarette. Ne gioii. Poi, allo scopo di evitare delle incrinature, centinai il loro interno con delle strisce di seta e incollai i due segmenti. Alcune ore dopo, tolti i morsetti lo mostrai a zio. Il quale dopo averlo girato ripetutamente fra le mani, esclamò: “lo hai svuotato per ren- derlo ancor più leggero, sei imprevedibile!!” Con il pialletto e la lima, prese le auspicate conformazioni. La costruzione delle ali, nella loro intera struttura, (unico pezzo) richiesero molto più tempo e impegno. Le parti soprastanti vennero predisposte un po’ convesse, mentre le parti sottostanti, per un principio di aerodinamica, appresa dal volo dei gabbiani, richiesero d’essere predisponete in forma concava. Nulla doveva essere sottovalutato. Fissai, provvisoriamente, con del cerotto le ali sotto la pancia della fusoliera e provai a lanciarlo ad altezza d’uomo. Il risultato fu non poco deludente. Scese in picchiata, ma ne compresi la ragione: le ali erano state collocate molto in punta alla fusoliera. Era indispensabile farle retrocedere, ma di quanti centime- tri!!! Tolsi l’adesivo e le arretrai di un paio di centimetri. Il secondo test mi stappò un sorriso. Di prove ne effettuai diverse, nell’ultima inserii anche le ali posteriori e il timone di coda, la gioia fu indescri- vibile: lo vidi planare sulle piantagioni di piselli come un autentico aereo.      
 Effettuai i dovuti incastri, ad asola, nella pancia della fusoliera, e bloccai le ali in maniera temporanea, indi caricai al 10% la potenza della molla e collocai il, già, velivolo sulla rampa di lancio. Con un colpo d’ascia troncai di netto il tirante di gomma e l’aereo si librò come sospinto da motori jet. Mi venne la voglia di mandare un urlo di gioia, ma la forte emozione mi consentì a malapena di deglutire. Volò con compostezza a circa tre metri dal suolo per poi planare non oltre 200 metri distante dalla base di lancio. Lo mostrai a zio Ciccio, senza avergli detto del test effettuato. Lo vidi sorridere compiaciuto. E men- tre me lo porgeva formulò questa domanda: “in una scala da uno a dieci, quante sono le probabilità che questo giocattolo possa volare?!” Dieci, risposi. “Pazzesco!!!” Aggiunse. Ma non seppi leggere nel suo pensiero se quel pazzesco era stato detto per la mia tracotanza, oppure per lo stupore di quel geniale giocattolo. Passai all’allestimento e lo dipinsi color bianco con la testa nera, come un vero gabbiano. Era stato levigato come un vetro. Ipotizzai che l’attrito con l’aria sarebbe stato alquanto limitato.
Era il tardo pomeriggio del 24 giugno. (lo ricordo perché lo associo al giorno del mio onomastico) Il cielo era in maggior parte terso, ma con delle nubi alte cirrostrati e una tenue brezza marina dava un certo refrigerio a quelle anziane donne che, avvolte nel loro scialle nero, ciarlavano a mezza voce standosene sedute sull’uscio delle loro case. Predisposi la rampa di lancio dando una ragguardevole inclinazione: un buon 20%, a mio avviso! Agganciai il duro elastico ad un incavo sottostante l’estremità della coda e, nel dargli un bacio sul muso, gli augurai buon viaggio, indi nella stessa maniera in cui erano stati eseguiti i test, troncai di netto il tirante. La spinta fu tale, che in meno di un secondo percorse quei quattro metri di pista, guadagnando sempre più quota. Non mi fu facile quantificare a che altezza stesse volando, ma sicuramente oltre i 200/250 metri. Presto mi resi conto d’aver perso il mio giocattolo. Era stato risucchiato da quelle masse d’aria, in movimento, meglio note come correnti ascensionali. Pochi minuti dopo quel puntino bianco divenne invisibile. Feci ritorno a casa con l’aspetto di un cani vastuniatu. Passando per il centro abitato, il vecchio Sant’Uffizio, le vecchiette mi salutavano dicendo: Giannuzzu! Pirchì fai sta faccia, oji è lu to’ santu, avissi a éssiri cuntentu…!!!                   
Non appena varcata la soglia di casa, trovai mia madre molto in pena e  senza aver risposto al mio saluto, esordì dicendo: “è venuto a cercarti il signor Di Marzo, ti sta aspettando a casa sua. Che cosa hai combi- nato!?” Nulla che abbia potuto offendere quell’anziano gentiluomo, le risposi. “Vai, renditi utile, lo sai che da quando ha perduto la moglie e rimasto solo come un cane!”
Stavo per bussare alla sua porta, quando la vidi schiudere, sicuramente mi aveva intravisto da una delle persiane retrostanti il cortile interno.
“Trasi, Giannuzzo!” disse, tendendomi la mano per la robusta stretta.
 Senza alcun indugio apri il discorso chiedendomi com’era andato il decollo del mio aereo.
La domanda non poco mi sorprese, come aveva fatto lui a sapere che circa un’ora prima io avevo lanciato il mio prototipo!, tuttavia gli risposi con verità, dicendo che il decollo si era svolto meglio del pre-visto, in compenso l’aereo era andato smarrito. “Seguimi!!” Aggiunse, con il sorriso sulle labbra di colui che la sapeva lunga.
Mi condusse dal lato posteriore dell’abitazione, laddove la moglie era solita sciorinare i panni, e sollevato il lembo d’un lenzuolo, disse: “ecco il tuo capolavoro!.” Giaceva penzoloni, con il muso incastrato fra gli intrecci di fili di una rete che delimitava la sua proprietà.        
Rimasi senza respiro, chiedendogli chiarimenti sul come, quando è perché la sua trasvolata era andata a concludersi proprio lì. Lo estrasse con molto garbo evitando scalfitture e m’invitò a sedere sotto quel patio, dando inizio alla sua rassicurante magniloquenza. 
E mentre con una mano lisciava il dorsale della fusoliera, sostenne che stava per stendere quei panni ad asciugare e con la coda dell’occhio vide la sagoma di un oggetto bianco prendere velocemente quota, la seguì ad occhio nudo fin quando decise di osservarlo con il binocolo. Un antico cimelio austriaco risalente al periodo bellico, tenne a pre- cisare. E mercé a questo strumento ebbe modo di osservare una strana manovra effettuata dal velivolo: una rapida variazione di rotta, che attribuì a due tipi di correnti d’aria che s’incontrano, detti per l’appun- to venti misti.
Il ponentino, originato dal calar del sole, aveva avuto il predominio sulla brezza marina, causandogli un netto mutamento di direzione.
Il resto era facile intuirlo. Scemato il vento di ponente, diede inizio alla discesa, terminando, qui, il suo volo inaugurale. Se non fosse stato per questa minima inclinazione data al timone di coda, chissà dove sarebbe andato a finire.                                                        5

Tirò le somme sostenendo che: “in linea d’aria si era allontanato per il diametro di circa un chilometro, il quale moltiplicato per 3,14, in poco meno di trenta minuti era riuscito a dar forma ad una rozza circonfe- renza non inferiore ai tre chilometri.” E mentre cadenzava la sua forbita maniera di esprimersi, altro non faceva che osservare la car-linga e la parte concava delle ali, ma soprattutto gli incastri ad asola praticati sulla fusoliera, tale tecnologia consentiva di estrarre le ali in qualunque stato di cose. Poi atteggiando la bocca verosimilmente a quella di una cernia, volendo manifestare stupore, metteva le mani ovunque: sul timone di direzione, sulla deriva, sugli stabilizzatori orizzontali ed altre componenti. Ma ciò che maggiormente lo sor- prendeva, in quello specifico caso, era che un ragazzetto di soli 15 anni, sfidando le leggi dell’aerodinamica e i suoi principi di sosten- tamento, era stato in grado di progettare, costruire e far volare un sì complesso capolavoro. Per concludere mi restituì il “giocattolo” escla- mando: “è semplicemente pazzesco!!! Se oggi non conoscessi un Dio adorerei questo aereo!”
                      Ad maiora.
                 (Gianni D’Amico)