martedì 27 luglio 2010

Turiddu Giuliano, gli altri ed io....

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Turiddu Giuliano, gli altri ed io…
(In cerca della verità)

Breve prologo
 
Erano trascorse da poco le ore 23.00, di quale giorno ha poca rilevanza. Abbandonato sulla mia poltrona con aria indifferente, saltavo da un canale televisivo all’altro in cerca di non so che... Quando attratto dalla presenza di Carlo Lucarelli, interrompo senza perplessità lo zapping sulla RAI.
Lo scrittore, giallista, stava narrando le imprese memorabili di un uomo vilmente trucidato, tale: Salvatore Giuliano, alias il “bandito” di Montelepre, protagonista della nostra storia contemporanea in terra di Sicilia, caratterizzata, si sa, da eventi truci e macchiati di sangue. Quel nome, i luoghi e gli avvenimenti in corso di narrazione mi hanno condotto indietro negli anni.
Alla circostanziata verifica dei fatti, il bandito non fu tanto “Turiddu Giulianu”, né tanto meno i suoi picciotti, quanto coloro che assetati di nuovo potere politico, nell’intento di volere arrestare l’espansione dilagante del Partito Comunista isolano, gli vollero armare il braccio affinché, con condannabile violenza, ne contrastasse l’ascesa.
Continuo a chiedermi: ma è questa la maniera di far politica?

Mi vado convincendo sempre più che:

“U cumannari è megghiu du futtiri!!!”
 
* * *
Come già accennato in alcuni miei precedenti racconti, nel quinquennio 1945/50, ero stato accolto presso l’orfanotrofio Salesiano San Filippo Neri di Palermo.
Era estate, e come sempre in questo periodo, i Salesiani conducevano i loro allievi in montagna non distante da Palermo. Una sorta di colonia estiva per quei pochi che impossibilitati a tornare a casa, vuoi perché non l’avevano, vuoi perché nessuno li aspettava, restavano all’interno dell’orfanotrofio a dare calci ad un pallone o a cimentarsi in una primitiva pallacanestro. Un nuovo gioco per noi italiani, ricevuto in eredità dalle Truppe Americane.
 La singolare accoglienza dataci dai Benedettini l’anno precedente, fece sì che l’estate del 1949 quei 40 ragazzi trascorressero la loro vacanza estiva in quei luoghi di pace e frescura, dove l’afa generata dal solleone veniva mitigata dalla fitta pineta che circondava l’Abbazia Benedettina di San Martino delle Scale, distante dal capoluogo siciliano non più di una trentina di chilometri.
Il programma delle gite messo a punto dai Salesiani, prevedeva una discesa al mare, ad Isola delle Femmine. L’acqua verde trasparente ed invogliante, il sole e la sabbia benefica, erano le componenti ideali per temprare i corpi di noi ragazzetti, sostenevano i devoti a Don Bosco.
Il percorso da seguire, a piedi, era roccioso, impervio e spaventosamente brullo. Quando tutto andava bene, nel senso di non incorrere in imprevisti incidenti fisici, tipo storte o lussazioni alle caviglie, ci si impiegava circa tre ore. Si partiva di buonora con tascapane a tracolla e dopo una stancante giornata di mare, distrutti dalla spossatezza, si faceva ritorno per l’ora di cena.
Ma quel primo mercoledì di luglio, accadde qualcosa d’imprevisto: il sottoscritto, essendosi esposto un po’ troppo ai raggi solari, si era preso un’insolazione – secondo le insindacabili diagnosi del tuttologo don Falzone – con conseguente febbre da cavallo.
Sicché l’ora di rientro venne posticipata di un paio d’ore. Quando infine ci mettemmo sul cammino di ritorno, il sole era già tramontato da un pezzo e presto scese la sera.
Al buio non si riusciva più a seguire il percorso dell’andata, e pertanto fu facile smarrirsi fra gli intricati sentieri. Che poi, detto con franchezza, non esistendo nessuna segnaletica, ci si orientava con alcuni particolari: un ciuffo di ginestre qui, una radice d’erica che fuoriusciva da una roccia spaccata lì.
Una certa attenzione andava anche riposta ai cespugli ed alle fenditure che, come ci veniva costantemente ricordato, potevano esser rifugi di rettili a volte anche velenosi. Meglio tenersi alla larga.
Di tanto intanto ci imbattevamo in qualche segnale di cristiana civiltà.
Arrivati ad un crinale (simile ad uno dei tanti passati sulla via dell’andata la stessa mattina), l’orologio di don Falzone segnava le ore 22.00, avemmo la perfetta consapevolezza di esserci persi. Il buio pesto non c’era certo d’aiuto!
Presa dal panico la nostra giovane guida, compattò il gruppo invitandolo alla preghiera. Con l’aiuto del buon Dio, avremmo ritrovato il sentiero. A causa della mia congenita fragilità e della febbre altissima, io non mi reggevo in piedi. Poco dopo, rischiarata dalla luna piena provvidenzialmente apparsa da dietro le nuvole, vedemmo la striscia di terra battuta. Avemmo la netta sensazione che Maria Ausiliatrice, avesse ascoltato le nostre preghiere e le avesse prontamente esaudite.

Dopo questa inattesa, quanto necessaria, sosta, riprendemmo il cammino che presumibilmente ci avrebbe condotto verso casa. Immaginavamo che da lì a poco avremmo dovuto iniziare la discesa per poi affrontare l’altra collina. Ricordo che don Falzone guardando le stelle ci garantì che stavamo andando in direzione Sud-Ovest. Ma questa sua dichiarazione se ad alcuni suscitò timida ilarità, in altri rafforzò la convinzione d’esserci smarriti ben conoscendo le cognizioni astronomiche del nostro mentore che, suo malgrado, non erano le stesse di quando sedeva alla tastiera di un organo. Le sue note facevano vibrare qualsivoglia Duomo.
«Cantiamo.» disse risoluto, intonando il Nabucco di Verdi, da lui fattoci imparare.
Trascorsa mezz’ora eravamo ancora tutti concentrati ed affannati a cantare: “Oh Signore dal tetto natio”, ancora Verdi!!!. Eravamo così doloranti e stremati, io in particolare ancora febbricitante, che il canto più indicato da intonare in quello specifico stato di cose, sarebbe stato lo “Stabat Mater dolorosa.“ Quando un paio di uomini armati di lupara c’intimarono l’alt, ci ammutolimmo. Uno di loro rivoltosi al salesiano, in testa alla fila indiana, disse con tono perentorio:
«Vinissi cu’ mmia!!» Don Falzone lo seguì come comandato e fu condotto in un casolare dove venne trattenuto per buoni 20 minuti. Io bruciavo dalla febbre e, tremante dal freddo, mi accovacciai appoggiandomi ad una roccia, sollevato dal suo tepore. E nonostante il colore della mia pelle fosse come quello di un’aragosta lessata, non vi nascondo che di quel calduccio ne provai grande beneficio.
L’uomo armato sentendomi lamentare mi chiese se stessi male, gli risposi che avevo la febbre molto alta e freddo in tutto il corpo.
Frattanto fece ritorno il religioso in compagnia di un uomo. Questi indossava una canottiera bianca, pantaloni infilati dentro gli stivali, l’inevitabile coppola e la doppietta alla spalla a canne giù. Accanto a lui, un uomo magrissimo, con baffi sottili ad incorniciare il labbro superiore, reggeva per l’estremità della canna una grossa mitragliatrice.
«…Senti chi fai, Gaspare! sella un cavaddu e accompàgna sti picciriddi dda ssutta, o’ Crucifissu. Ahhh! A chi cci sì, pigghia n’aspirina miricana e n’anticchia d’acqua pir dariccìlla a ‘stu picciriddu, ca sta pigghiannu focu...» (Senti cosa fai, Gaspare! Sella un cavallo e accompagna questi ragazzini là giù, al Crocifisso. Poi prendi un’aspirina con un sorso d’acqua per somministrarla a questo ragazzetto che sta per prendere fuoco…facendo allusione alla febbre alta. N.d.A.)
«Cca’ c’è l’aspirina, zu Turiddu!» Disse quell’uomo che mi aveva chiesto se stessi male. Gaspare non aprì bocca. Appoggiò l’arma ad un masso, andando in direzione del casolare. Pochi minuti dopo fu di ritorno tirando per le redini un cavallo sellato. Vi saltò in groppa, e rivoltosi all’uomo in canottiera gli disse:
«Pròjimi ‘u ferru, Turiddu!!» (Porgimi l’arma, Turiddu. Riferendosi alla mitraglia.

…Quando giungemmo all’Abbazia era notte fonda e molti dei frati in attesa del nostro arrivo passeggiavano a mani giunte per i lunghi corridoi. Bisogna riconoscere che si presero all’istante cura di me cospargendo il mio corpo con un unguento a base di erbe aromatiche preparato da loro stessi. Fui successivamente avvolto in un telo di lino traendone immediato sollievo.
La domenica mattina, in chiesa per la messa, ringraziammo il Signore che aveva messo sul nostro cammino quel gruppo di pastori in transumanza…
 
* * *





Di anni ne trascorsero tanti, almeno così mi parve. Prestavo servizio all’Avis Autonoleggio. Quel pomeriggio mi era stato affidato il compito d’incontrare un noto personaggio dello spettacolo: Peppino De Filippo.
Caricatolo a Villa Igiea, mi chiese di condurlo presso un fornito negozio di fiori. Lì, commissionò un fascio di ottanta rose rosse.
Saldò per contanti e chiese un cartoncino con busta, dove formulare gli auguri per la signora Biondo, artista, proprietaria dell’omonimo teatro, che proprio quel giorno compiva i suoi 80 anni.
Mentre il Signor De Filippo, impegnato a scrivere gli auguri di rito, il fioraio tolse dal mucchio una banconota da 5.000 Lire, provando a porgermela di soppiatto. Lo fulminai con lo sguardo, dando ad intendere che non era quello il luogo né momento giusto.
Lui assentì, e con un mulinante giro dell’indice, parlò tacendo… (ci vedremo dopo, intendeva dire).
L’artista inserì il cartoncino dentro la busta e chiese al negoziante i tempi di consegna, dando come indirizzo quello dell’anzidetto teatro.

«Il tempo di confezionarli… non più di mezzora.» rispose il fioraio, congedando il cliente con un’affabile stretta di mano.
Usciti che fummo dalla bottega, il Maestro chiese di un Bar dove poter degustare un buon caffè, invitandomi a fargli compagnia.
Lo condussi in un antico e rinomato locale, dove soltanto i caffè-dipendenti osavano accedere. Ne rimase entusiasta, e una volta fuori, disse:
«Grazie, guagliò! Me ne avevano parlato a Napoli di questo localino!!»

Ebbene sì…! Da quei 12 beccucci venivano strizzati 3.000 caffè al giorno. Mi era stato garantito da uno dei ragazzi.

… In cima ai gradini del noto teatro, rivestiti per l’occasione da una passatoia rossa, il signor De Filippo era atteso da una marea di gente…

* * *
Non avevo fretta di andare a ritirare la provvigione che offrivano i commercianti a noi “couriers”. Rimandai la riscossione ad una futura occasione.
Una mattina passando da quel negozio, mi sentii chiamare.
Una stretta di mano, quattro chiacchiere davanti ad un cappuccino caldo cosparso di cacao, intascai la banconota. Solo al momento di accomiatarmi, notai che il fioraio era elegantemente vestito. Ad uno sguardo più attento, restai colpito dai suoi occhi freddi e profondi e dal brillante al dito mignolo della mano sinistra.
La stessa mano che, dopo aver centrato con gesto calcolato e meticoloso il nodo della cravatta, mi pose sulla spalla indirizzandomi una frase che mi lasciò non poco sorpreso:
«Nella vita non tutti possiamo fare tutto, ognuno di noi ha bisogno dell’altro. Se domani avesse bisogno d’aiuto, non esiti a venirmi a trovare.»
Più che del contenuto, inequivocabile dimostrazione di potere, rimasi meravigliato dal perfetto italiano.

«Ne terrò conto.» fu la mia risposta.
Ad ogni modo ne dedussi che quell’uomo dallo sguardo glaciale aveva una certa stima di me.
L’occasione di aver bisogno del signor Nino non tardò a presentarsi. Una telefonata mi metteva a conoscenza di una circostanza affatto gradita. Messa giù la cornetta, feci strada per il suo negozio.

«Andiamo al bar.» disse, mentre girava dalla parte opposta una placca con su scritto: ”TORNO SUBITO”. Gli accennai che ad un mio zio acquisito era stata rubata la sua nuova auto Station Wagon, stracolma di valige contenenti sofisticate attrezzature elettroniche di provenienza americana.
Non si scompose!
Mi chiese d’acchito il numero di targa, il colore della vettura, l’ora ed il luogo dove era avvenuto il furto, ed un recapito telefonico, indi mi congedò con un’ammiccata pressoché rassicurante.

Trascorsa non più di mezz’ora dall’incontro, un familiare mi comunicò che ero stato cercato da un certo signor Nino. Vista l’importanza del favore chiesto, avvertii un certo un brivido alla spina dorsale.
Gambe in spalla, e percorsa a razzo via Napoli, raggiunsi Piazza Florio luogo prescelto per l’incontro. Il dialogo fu breve e moderato nei toni.
«Si rechi da solo in Via La Masa, all’ultimo vicolo a sinistra, al numero 4 vedrà un grande portone. Là, dentro il cortile del palazzo, troverà la macchina di suo zio con le chiavi inserite nel cruscotto. Attendo la sua conferma.»
Mi accomiatai con una deferente stretta di mano.
Giunto nel luogo suggerito, non potei non vedere il gigantesco portone accostato. Non transitava anima viva.
Nessun testimone che con finta aria distratta registrasse i miei spostamenti. Non vi nascondo che la mia tensione era tangibile. Mi misi alla guida della vettura e, messo in moto, imboccai in uscita lo stesso portone che qualche secondo prima avevo attraversato a piedi. Scesi dall’auto, richiusi il portone e mi dileguai per i vicoli del quartiere, dove sarebbe stato più probabile incontrare un alieno che un poliziotto.

Feci ritorno dal tipo per dargli la conferma d’aver preso possesso dell’auto. Stavo per tendergli la mano per la robusta stretta, quando il signore dagli occhi di ghiaccio, disse con enfasi:
«Posso chiederle un favore?» Non vi nascondo che ebbi un momento di panico.
«Certo!» risposi, temendo il peggio…
«Le dispiace sbottonarsi il polso sinistro della camicia e mostrarmi l’avambraccio?» Avendo temuto che potesse chiedermi di fare fuori qualcuno, la domanda mi risultò di grande sollievo e, tolta dunque la giacca, sbottonai il polsino mostrandogli ciò che aveva chiesto. Sorrise con senso di soddisfazione.

«Non mi ero sbagliato!» esclamò «È dal primo momento che ha messo piedi in questo negozio, con Peppino De Filippo, che mi chiedo dove ci fossimo già incontrati! Lei si ricorda di me!?» e ciò chiesto, sfilata la giacca, tolto il fermapolso d’oro dalla manica sinistra della sua camicia, mostrò il neo identico al mio.

«No! Con tutta sincerità non ricordo d’averla, mai, incontrata!!» fu la mia sorpresa risposta.
«Sono quel Nino che 8 anni fa, sulle montagne di Montelepre le ha somministrato una compressa di aspirina, affinché le andasse giù quella febbre da cavallo. Quella notte eravate 40 ragazzi e un prete, avete rischiato grosso, mi creda, signor Gianni! Io ero di sentinella in uno dei quattro fronti, e quando vi udii cantare capii immediatamente che si trattava di ragazzi e mi affrettai ad allertare tutti gli altri uomini affinché non aprissero il fuoco».
Rimasi atterrito, era stata questa la ragione per cui don Falzone ci aveva fatto cantare!?, dissi fra me.
«In tutto questo, che cosa c’entrano i nei ai nostri avambracci?!» incalzai con riguardo.
«Quando Turiddu chiese a Gaspare di portare un sorso d’acqua, fui io ad andare a prenderla nel casolare, e lei mi ha seguito. Si ricorda? Ed è stato lì, che al lume di candela ho notato il suo neo esattamente gemello al mio. Ne restai sorpreso e turbato».

Mi narrò come e perché Turiddu aveva ucciso un carabiniere. Mi parlò di Gaspare, cugino e luogotenente di Giuliano e della ferocia di un Generale della Benemerita, che a Castelvetrano volendo simulare un conflitto a fuoco contro loro, uccise con una raffica di mitragliatrice un uomo già morto.

Volle raccontarmi, infine, dell’Avvocato De Maria, conferendogli il triste epiteto di avvocaticchio. “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Era solito dire Turiddu. Nel senso che i nemici sapeva chi erano e come poterli fronteggiare, gli amici (nel suo caso) furono quegli esseri falsi, ambigui, che davanti gli sorrisero, ma lo colpirono alle spalle.
Quindi soltanto Dio poteva difenderlo.
E per concludere, fu così che quella notte, su quelle alture monteleprine, perdemmo l’orientamento: una volta attraversato il binario, nelle vicinanze di Giardinello, era necessario girare subito a sinistra e percorrerlo parallelamente per circa 200 metri, e da lì seguire la vecchia mulattiera. Noi, invece, attraversata la strada ferrata eravamo andati dritto per la trazzera che conduceva ad altri paesi.

Anni dopo, nell’accompagnare un gruppo di turisti stranieri a Selinunte, ho avuto modo di vedere il cortile dov’era stato inscenato il conflitto a fuoco. Ripetute volte, ebbi l’occasione di condurre dei giornalisti italiani a “Muncilebbri”, chiedendo un incontro con la madre di Turiddu, ma senza che riuscissero a cavare un ragno dal buco. L’anziana donna non mostrò mai il suo volto alla stampa.

… Turiddu Giuliano, tumulato in una squallida tomba senza neppure una croce simbolo della cristianità, né il caratteristico lumino sepolcrale, cadde nell’assoluta indifferenza per quasi un decennio.

Da quel giorno, ogni qual volta i miei “tour” mi portavano in zona, non mancavo di depositare un fiore su quella tomba ingiustamente trascurata.
Talvolta il fiore era accompagnato da una sentita preghiera. L’ultima volta che, al cospetto di quella sepoltura, espressi la mia prece fu nella primavera del 1968, quando lasciai definitivamente la mia Sicilia alla volta della capitale.

Epilogo
Il lettore si chiederà il perché di tanta riconoscenza verso Turiddu. Bene! Sono trascorsi 61 anni, oramai, e tengo a voler precisare quanto segue:
Nessuno quella notte, – nemmeno il prete, uomo saggio – gli aveva fatto richiesta di un’aspirina, ma lui me l’aveva somministrata...

Nessuno gli aveva chiesto di sellare il suo cavallo e farci accompagnare al trivio Crocifisso. Ma lui si adoperò…

Nessuno gli aveva fatto preghiera di offrirci una pagnotta. Ma lui la fece dividere in 40 e più fette che, famelici com’eravamo, divorammo strada facendo…

E, ancora, nessuno gli aveva suggerito d’avvolgermi in una coperta e mettermi in groppa al cavallo, raccomandandomi di tenermi saldo al cinturone dell’uomo a cavallo. Ma lui era stato ben soddisfatto d’averlo suggerito...

Sarebbe tempo che quei responsabili ancora in vita – e ve ne sono, anche se decrepiti – ponessero una mano sulla loro coscienza e trovassero il coraggio civile e morale di confessare tutta la verità, senza più mezze bugie, dicendo semplicemente: Sì! C’eravamo anche noi!!!

Non è scandaloso aver una verità oggi e una domani.
È dei saggi cambiare le opinioni. Scandaloso è non averne mai…
Ad maiora!! gd.


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Manifesto in ricordo della strage di Portella della Ginestra, località dove il primo maggio 1947, furono uccisi numerosi socialisti e comunisti che si erano riuniti per festeggiare la festa dei lavoratori.

La strage è attribuita al bandito Salvatore Giuliano e alla sua banda, ma tutt’ora restano numerosi dubbi sul coinvolgimento di membri del governo e dei servizi segreti italiani
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sabato 29 maggio 2010

"Welcome to Palermo, Sir!!"


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Mancavano una manciata
di minuti alle ore 10.00
di quel tremendo venerdì
2 giugno del '44.

Il sole era alto e, sotto
i miei piedi nudi,
l'asfalto manifestava,
già, il suo arrogante
calore.


Io ero lì, e non per caso, mi ero recato alla "Taverna
del Tiro", grande spiazzo sterrato adibito ad autoparco
relativo alla VI Divisione Fanteria U.S.A. in forza a
Romagnolo.
Un sobborgo, questo, di tremila anime, situato a Nord-Est
del capoluogo siciliano. Ero andato a consegnare una divisa,
sulla quale erano state apportate determinate modifiche.
Questa uniforme, - guarnita di Alamari, Medaglie e Croce di
guerra al valor militare - faceva parte al corredo dell'Ufficiale
più alto in grado: il Colonnello George R. Pitcairn.
Feci in modo di prendere dei contatti con il mio "amico" sergente
maggiore Vincent Rizzuto, al quale consegnai il prezioso fagotto
ancora caldo dal ferro da stiro. Oggi lo definiremmo, senza alcun
dubbio, un eccellente lavoro sartoriale eseguito da mia madre.
Pochi minuti dopo fu di ritorno con una banconota fra le dita,
dicendo: «keep the change!!» Seguì, come di rito, un'affrettata
carezza sui miei capelli arruffati, resi verosimilmente biondi
dalla salsedine.
Ma prima d'allontanarmi misi a sicuro quel biglietto verde in una
tasca interna dei pantaloni, e continuai a bighellonare in giro
per alcuni minuti.
Quando fiutai nell'aria d'essere cercato con lo sguardo.
Seguì il solito gesto che m'invitava ad avvicinarmi.
Gli corsi incontro.

Avevo nove anni, e ribattezzato con il nick name little Johnny,ero divenuto la mascotte di quella caserma. Mi accostai a Vincent, e lo sentii parlottare affrettatamente con un suo commilitone: il caporale maggiore Jimmy Soldano.Entrambi proni sul cofano motore di una grossa "Jeep", studiavano una carta topografica della città, in cerca di una località da raggiungere, nota con il nome: "Settecannoli". Ma il percorso tracciato con il dito mignolo, era contestabilmente lungo.
Occorreva portarsi fino a Sant'Erasmo, oltre il ponte dell'Oreto,quindi, risalire per la Via Tirassegno, e riprendere la strada parallela alla Via Messina Marine, cioè il Corso dei Mille all’altezza del pastificio Virga.(per coloro i quali conoscono Palermo) Fu lì, che il sergente maggiore mi chiese:«Do you know any short cut, Johnny!» risposi loro, che percorrendo la Via Salvatore Cappello, stradina in terrabattuta che, a tuttoggi, costeggia l'antica chiesa San Giovanni dei Lebbrosi, a meno di un chilometro sarebbero stati in zona Settecannoli.

Il doversi recare d'urgenza in quel luogo, mi spiegò uno dei due,sarebbe stato utile a rifornire di carburante uno dei due grossi automezzi con a bordo 40 uomini che, provenienti d'Agrigento e diretti a Trapani, era rimasto inspiegabilmente in panne.

Accettato il mio suggerimento, in meno che si descriva, la grassa Jeep venne caricata con dei fusti contenenti del carburante per quei due Dodge canadesi, provvisti di motori con carburazione a benzina. Fui invitato a montare su di un terzo del sedile posteriore della Jeep, reso più alto da alcune taniche. Non esitai un solo istante a saltarci dentro e prendere posto. Non era la prima volta, d'altronde, e non sarebbe stata l'ultima.

. Il passaggio a livello che delimitava
. quell'area militare era aperto,poiché
. guasto, e un treno merci proveniente
. da Corleone carico di cereali e ovini,
. stava eseguendo lentamente lo scambio
. binari, ai fini di deporre le sue merci
nei dovuti silos e ovili, siti nella non lontana stazione.
Il caporale Soldano si era messo alla guida dell'automezzo, quando decise di dare gas al motore della sua Jeep, ed evitare l'attesa della manovra successiva che il ferroviere guardingo, e con il busto fuori dalla sua cabina, stava per effettuare.
A quel punto il pericolo divenne tangibile, e non seppi resistere di urlargli:
“Don't do it!!...”
A tuttoggi non riesco a rendermi conto cosa esattamente accadde, mi trovai sbalzato fuori dalla jeep, dolorante con il culo per terra.E a distanza di una decina di metri, inerte e con gli occhi sgranati, stetti ad osservare cosa stava per accadere.
Il robusto paraurti della locomotiva, agganciò la parte sinistra in basso della Jeep, facendole effettuare un testa-coda, e nel contempo schiacciò la tanica fissata alla Jeep, la quale detonò.
Tutto divenne fulmineo. Le fiamme si propagarono sugli altri 16 serbatoi, e accadde ciò che non avrei mai previsto. Ad alimentare maggiormente quell'inferno contribuì con certezza il carbone fossile stivato in basso al locomotore.Quando giunsero i Vigili del Fuoco, null'altro poterono fare che spegnere le ultime fiamme e spalare mucchi di ceneri fumanti.
Ma da quelle ceneri ridotte in fanghiglia nulla, ad eccezione di due carcasse di orologi da polso, emerse che potesse accertare la presenza di resti umani.
Terrorizzato mi nascosi fra la folla, e da lì – senza aver versato una lacrima – feci ritorno a casa.




Era trascorso oltre un ventennio, da quel fattaccio. Ottenni un impiego presso l'AVIS Rent-a-Car. Durante il periodo della bassa stagione turistica, prestavo servizio in aeroporto, addetto alla consegna, al ritiro e chiusura dei conteggi delle auto date in noleggio. Indossavo la mia divisa: pantaloni blu, giacca rossa e la patacca all'occhiello con il logo dell'azienda americana: WE TRY HARDER. Durante quei mesi, aprile-settembre, considerati alta stagione, venivo destinato ad altro servizio:
alla guida di pullman gran turismo con 54 posti, o di lussuose autovetture, accompagnavo dei gruppi, o singoli turisti, quasi sempre stranieri, in giro
per la Sicilia e il Continente.Era metà settembre del 1965. Il clima era ideale con temperatura gradevole; e lungo le strade statali di tutta la Regione il profumo dei gerani, delle ginestre, e degli oleandri in fiore, dava diletto al turista amante della storia e delle antichità del nostro paese. Quando Mr. Joe Arcidiacono, direttore della nota azienda, convocatomi nel suo ufficio mi affidò una copia di anziani turisti di nazionalità americana, dicendo:«Mettiti a disposizione di questa coppia VIP,lui è un Generale in pensione, dicono che sia molto esigente, prendi la nuova Mercedes con aria condizionata, chilometraggio illimitato, tempo illimitato.
E' la Richichi Travel Bureau, che fa esplicita richiesta di te.Fammi fare bella figura.»



Il foglio di servizio, firmato Vincenzo La Mattina, recitava: Full credit to Mrs. and Mr.George Richard Pitcairn, seguiva il nome dell'aeroporto, la data del loro arrivo e il numero di volo AZ proveniente da Roma. Il pomeriggio del giorno successivo, alle ore 18.00, diedi loro il "welcome to Palermo".Pochi minuti dopo fu lo stesso Mr. Pitcairn ad aprire lo sportello dell'auto alla propria moglie, acendola accomodare in quell'abitacolo che odorava di nuovo.
Mi ero presentato, ma ebbi il sentore che sapessero, già, il mio nome e cognome, e non appena ci fummo mossi, mi venne posta una inusuale domanda:

«Qual è quella cittadina che si scorge dall'alto, a stretto contatto con la pista di atterraggio?» risposi che si trattava di due cittadine separate dalla Strada Statale 113, distinte con i nomi Cìnisi e Terrasini.

«Oh!!!!!» esclamò lui, «I remember those little agricolture villages.»
Ebbi tutta l'impressione che il dialogo stesse per avere un seguito, e mentre Mrs. Pitcairn accendeva la sua seconda sigaretta, gli chiesi se avesse già messo piedi in Sicilia. «Yea, sure!!! I have been in Sicily quitea few times.»rispose lui con marcato accento del Mead West. E proseguì asserendo che, durante l'occupazione
delle truppe alleate, era stato un triennio in Sicilia, a capo della VI armata con i gradi di Colonnello, con dislocamento a Palermo, in zona "Romagh-nolo".
Un brivido gelido, sottile, come quello di vederti una scala reale all'Asso di cuori servita di mano, mi pervase il corpo rendendo la mia spina dorsale pressoché paralizzata.



Ma presto mi riebbi acchiappando la realtà con entrambe le mani, chiedendogli se ricordava quella collisione fra un treno merci e la Jeep americana con due uomini a bordo. Udii un silenzio religioso che durò un'eternità, che diede adito a pensare che
mi ero un po' troppo sbilanciato. Quando parlò la signora, dicendo:«John is talking to you, George!!»
Aprì ancora una volta bocca e con tono mesto vennero fuori due nomi:
«Vincent "Rissuro" and Jimmy "Soldeno". Poor guys!!»Fu la signora, ancora una volta, a parlare, sollevando la domanda:«How do you know that, John!?» Diedi chiarimenti, asserendo che proprio quel dì ero presente in loco per consegnare la divisa al colonnello. Lui scosse il capo ed annuì.



Frattanto eravamo giunti al Grand Hotel Villa Igiea, laddove la coppia era stata prenotata, Il giorno successivo volle recarsi sul luogo dell'incidente. Esisteva poco in verità, la strada ferrata era stata divelta.

Il tempo e l'incuria avevano fatto il resto per rendere l'ambiente pressoché irriconoscibile, ma sulla parete alle sue spalle si leggeva a malapena la dicitura "Military zone no trespassing". Lui, dando uno sguardo indagatore al fatiscente Palazzo Fileccia, focalizzò il punto esatto e parlò dello spiccato senso del dovere dei due graduati.
Non c'era nulla da eccepire circa i riflessi del caporale Soldano, la tempistica era il suo forte, ed era il più bravo stuntman dell'Esercito statunitense, istruttore di mezzi pesanti, e mai fatalista, aggiunse con un certo orgoglio.
L'errore era d'attribuirsi ad una strana coincidenza: nel momento in cui il caporale pigiò fortemente sull'acceleratore, per fare guizzare l'auto, le due ruote anteriori, dotate di trazione, si trovarono sulla coppia dei binari di scambio, ed avvenne lo
slittamento dei pneumatici, così la Jeep rimase inchiodata su se stessa. L'impatto fu minimo, come si rilevò dalle lamiere, ma sufficiente da comprimere il serbatoio, in dotazione all'auto, perennemente pieno. La scientifica deliberò che l'esplosione era stata causata dalla fuoriuscita di un frammento di carbone ardente caduto dalla vaporiera.

Si vociferò, anche, che a bordo della Jeep vi fosse un ragazzetto di circa 9 anni, ma nessuno potè confermarlo, e nessuna famiglia ne fece richiesta. Rimase un mistero ancora irrisolto!!

Allora mi accostai maggiormente a loro e, in tono minore, confermai la tesi dell'uomo, dando l’avallo che le due ruote anteriori avevano causato molto fumo e un forte stridore. Mi ascoltarono inebetiti, interrogandosi a vicenda con lo sguardo. Il mio stato emotivo divenne talmente elevato che ebbi la sensazione di trovarmi una seconda volta in quell'inferno.

Infine trovai la forza d'animo di dire: "il agazzetto chiamato little Johnny, che voi credeste arso vivo, è qui a discutere con Voi".«For heavens' sake!!...» esclamò l'anziana donna con entrambe le mani sulla bocca.«Oh my God!!..» aggiunse lui, provando a spingere dentro i suoi lucciconi. Quando posto il suo braccio destro sulla mia spalla, mi strinse fortemente a sé. Intensamente scossi e ammutoliti lasciammo quel luogo.



Di anni ne trascorsero tanti altri, ed ebbi modo d'incontrarlo un paio di volte a Roma.Nel 1978, facevo parte allo Staff dell'E.N.I.T. e fui inviato a Chicago per lavoro, durante un lungo weekend trascorso a Cleveland, (Ohio) in prossimità delle Cascate del Niagara, Kelly ed io, maturammo l'idea di fare una capatina a Cincinnati, antica residenza dei Pitcairn. Raggiunto l'esatto indirizzo, bussai al portone di quella grande casa, che per stile - ma in misure ridotte - dava una vaga idea del museo parigino "Le Louvre".

Fu il figlio, l'Avvocato George R. Pitcairn Junior, ad aprirci la porta. Ci ttendeva poiché l'avevo chiamato al telefono il giorno precedente.

Fu molto accogliente. Stringendoci la mano mi avvidi quanto caloroso era stato il benvenuto datoci.

Ci fece accomodare in un vasto salone e ciarlammo per un po'. Mi avvidi che sapeva tutto di me. Nondimeno mi promise che, quanto prima, si sarebbe recato presso la cineteca di Stato in cerca del cortometraggio che immortalava quei tragici momenti.


Indi mi diede l'amara conferma, che George Richard - omettendo il cognome e i vari titoli accademici e militari - era scomparso 8 giorni prima della mia visita, e non era il caso, precisò, che m'incontrassi con la vedova Pitcairn, poiché affetta dal
morbo di Alzheimer non mi avrebbe riconosciuto. Pochi minuti dopo ci accomiatammo.
Mi risedetti al posto di guida e, non mi vergogno a dirlo, 35 anni dopo, irruppi in un pianto dignitoso.


Circa un anno dopo, ricevetti una lettera con affrancatura assicurata, tramite la quale venivo informato che l'erede Pitcairn aveva preso visione di quel breve documentario. Tutto era tangibile, descriveva, il rogo in piena evoluzione, il sopraggiungere dei V.V.F., l'addensarsi della folla incuriosita, arginata dalle forze dell'ordine americane e italiane, la rimozione di mucchi di ceneri melmose, ma sullo sfondo sfocato nemmeno l'ombra di un ragazzetto di 9 anni che indossasse dei calzoni corti.

La lettera racchiudeva, inoltre, un assegno bancario non trasferibile di un certo "spessore", con le seguenti parole d'accompagno: "Mio caro amico, grazie per l'eccellente lavoro apportato al perfezionamento delle mie uniformi. Fare questo gesto era un mio recondito desiderio, ma purtroppo non ho fatto in tempo ad estinguere il debito"". All the best!!.
La lettera, invece, recava la firma di: George R. Pitcairn junior. Attorney Lawyer.

Questa cronistoria – non poco stringata – erompe da un sinistro realmente accaduto, romanzato forse al 10%. E alla salvaguardia della privacy di quella famiglia, ho preferito fare impiego di cognomi fittizi.

Cordialità, Gianni D’Amico



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”Fuggirono lasciandolo accostato”

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Riano, 27 maggio 2009
Nato nel 1935, in un fatiscente quartiere periferico a nord-est di Palermo, noto come il Sant’Uffizio, a soli 8 anni ero anagraficamente il più piccolo, ancorché il più industrioso, audace e indiscusso leader di un ristretto gruppo di monelli.
Per bocca degli anziani, si era diffusa la voce: “stannu trasennu ‘i Miricàni”.
Non era facile per noi piccirìddi di otto, massimo dieci anni, capire chi fossero questi Miricàni, e come, dove e perché stessero entrando.

Esigevamo spiegazioni dalle nostre mamme, che a volte ne sapevano meno dei figli, e che riuscivano a darci risposte sempre molto evasive.
Qualcosa di più sapeva la nonna di Benedetto, potendo ella contare parentela con una dozzina di persone emigrate negli Stati Uniti.

La risposta dataci dall’anziana donna Cecilia, fu decisamente convincente. Difatti, con fare saggio e autorevole, chiarì:
«…gli americani sono coloro venuti a liberarci dai tedeschi, sbarcando sulle coste Sud Orientali dell’isola». Poi tacendo alcuni secondi e, in preda ad un forte attacco di (apparente) dolore, con i lineamenti alterati in una smorfia animale, aggiunse:
«Sono soldati eroici e generosi.
Laddove arrivano danno sempre da mangiare alla popolazione civile, e non maltrattano mai i bambini come usano fare i tedeschi!»
Non stavamo nella pelle, eravamo elettrificati!!
L’impazienza per l’atteso incontro con i nostri benefattori era tangibile e la spiegazione ebbe l’effetto di acutizzare la percezione che noi ragazzini avevamo dell’antipatico oppressore tedesco.
Volendoci riflettere, i calci nel sedere e, più in generale, i maltrattamenti che i tedeschi ci riservavano quotidianamente, erano la logica conseguenza della nostra impertinenza con cui chiedevamo insistentemente cibo.

La prima parola che imparai in lingua tedesca era stata scheiβe incoscientemente rivolta allorquando vedevo la gamba del milite protesa verso il mio fondoschiena.
… Ero tornato da scuola e, svogliato per com’ero, dopo aver velocemente ultimato i miei compiti relativi alla terza elementare, avevo raggiunto gli amici 'nto bàgghiu, a dare calci al pallone.
Un pallone consunto, un po' afflosciato, ma più di tanto non gli si poteva chiedere poiché a gonfiarlo ulteriormente avremmo rischiato la fuoriuscita di uno o più “diverticoli”.

A quei tempi ci si accontentava. C’è da dire che il nostro gruppo era da considerarsi fortunato, poiché altri ragazzetti giocavano con un pallone fatto di stracci che, a colpirlo di testa, si rischiava davvero il trauma cranico!
Erano circa le tre del pomeriggio, quando i fratelli D’Angelo vennero ad avvertirmi che stavano trasennu 'i Miricani.
Dalla campagna dove ci trovavamo, ci precipitammo verso il mare, sulla statale 113, sbucando di fronte lo stabilimento balneare Petrucci. A circa 300 metri, all’altezza del noto Ristorante Spanò vedemmo uno spettacolo del tutto nuovo ai nostri occhi. Noi conoscevamo soltanto il rombo dei bombardieri, lo stridere delle sirene d’allarme e la deflagrazione delle bombe lanciate sulla nostra Palermo moribonda.
Come dimenticare quel bombardamento a tappeto nel maggio del ’43 di cui a tuttoggi restano cicatrici nel centro storico sdirrubbàtu?
Ma quella volta si diffuse l’informazione che molti bombardieri scaricarono il loro peso di morte al largo delle coste, poiché quei piloti avevano origini (e coscienza) siciliane.

Tre imponenti tanker, avanzavano a rilento occupando l’intera carreggiata della statale 113. Il primo, posizionato al centro, era affiancato da altri due che, arretrati di un paio di metri, formavano una sorta di gigantesca lancia appuntita a copertura di una Jeep con a bordo un alto ufficiale super decorato.
Alla destra e alla sinistra dei cingolati un centinaio di uomini, pesantemente armati, procedeva con passo felino ancorché appesantiti da spaventose mitragliatrici.
Le donne terrorizzate alla vista di un simile scenario di guerra correvano in casa e sprangavano le persiane. L’immagine era il vero preludio di battaglia che da li a poco sarebbe esplosa.
Noi piccirìddi, forse una dozzina in tutto, li seguivamo rasenti ai muri delle case, nell’illusione che, in caso di spari, saremmo stati protetti.
Ad un segno di chi comandava la colonna, questa si arrestò. Si ebbe l’impressione che qualcosa di sospettoso fosse stato avvistato. I lunghi cannoni dei carri posizionarono la loro mira all’unisono, puntando un invisibile bersaglio distante un centinaio di metri. Sembravano tre cani da caccia puntare l’unica lepre. Quando un breve fischio, con due dita in bocca, emesso da uno dei marines, ruppe quel silenzio religioso, il nostro respiro si fermò.
Il fischio fu seguito dal gesto della mano che m’invitava (non ebbi dubbi che fossi proprio io il destinatario del segnale) ad attraversare lo stradone. Accorsi coraggiosamente saltando come una gazzella, andando in direzione di colui che mi aveva chiamato.
Questi facendomi da scudo con il suo corpo, mi parlò in perfetto dialetto siciliano, chiedendomi: d’unni sunnu i tedeschi? Alzai il braccio sinistro, e stendendo l’indice in direzione del bunker dissi: ddah dintra sunnu ammucciàti!!
In quel preciso istante un indefinito numero di grosse mitragliatrici nemiche sputò fuoco dalle strette feritoie del rifugio blindato. La fulminea risposta della pesante artiglieria dei carri, centrò in pieno la mezza sfera di cemento armato mimetizzata sotto vecchi mobili in disuso ed altro ciarpame, facendola esplodere come se minata dall’interno.
All’esaurirsi degli echi delle esplosioni, il silenzio fu totale. Silenzio di morte!
Il giovane marine mi ripescò da sotto la ruota del cingolato dove una sua provvidenziale spinta mi aveva fatto ruzzolare quando i tedeschi avevano aperto il fuoco e dopo avermi passato una gomma da masticare come gesto di gratitudine, invitò tutti quanti noi ad allontanarci, poiché il rischio in quell’area era molto elevato, disse.



Disubbidienti come solo i ragazzini di strada sanno essere, noi non gli demmo ascolto, e dopo aver masticato e inghiottito la gomma, proseguimmo insieme affiancati ad un pesante automezzo, e non distanti dalla jeep, ammiravamo estasiati quell’uomo dalle variopinte decorazioni di guerra.
Mentre avanzavamo lentamente a pari passo con la colonna, venivamo invitati ripetutamente ad allontanarci.
Ci separava metà larghezza di strada, quando ci accorgemmo che ad un blocco di cemento, staccatosi con esplosione del pillbox, stava accasciato un soldato tedesco con il volto intriso di sangue senza mostrare segno di vita.
Quando ebbe la jeep ad una distanza di circa tre metri, questi inserì qualcosa in bocca strappandola verso l’esterno, e simultaneamente la lanciò in direzione della jeep. Il marine che stava in piedi accanto al suo Generale, ghermì a volo quell’oggetto trattenendolo per alcuni secondi, indi lo lanciò su quell’uomo già ridotto in un colabrodo dai mitraglieri che si erano accorti del lancio della bomba a mano.

Il micidiale ordigno gli esplose addosso riducendolo a brandelli.
Guardammo in viso l’alto ufficiale il quale non si era minimamente scomposto, come se quello che era accaduto fosse stata la parte assegnatagli dal regista di un film. Fu proprio lì, che l’Ufficiale alzatosi in piedi sulla jeep, rivoltosi a noi monelli gridò:
go home boys, this's not a game!!
Alcuni di noi, i più ligi, fecero ritorno verso casa. Franco ed io, invece, ripercorremmo a ritroso la strada che conduceva presso la villa abitata da un colonnello della S.S., sempre presidiata da almeno un paio di sentinelle pronte ad avvertirlo dell’arrivo del nemico americano, ma di costui, della sua donna e dei due pastori tedeschi, quel giorno, non esisteva nemmeno l’ombra.
Affaticati ci sedemmo sul muretto di cinta della casa, i cui proprietari erano sfollati in località montane dall’aria salubre e dal cibo genuino, ma principalmente lontani dai raid Statunitensi e Britannici, pronti a fare ritorno, non appena gli eventi bellici sarebbero cessati.
E lì, mentre commentavamo la triste fine del soldato tedesco, appoggiatomi al pesante cancello, lo sentii cigolare aprendosi alle mie spalle. Incuriositi dall’averlo trovato non chiuso a chiave, entrammo nel viale fiorito di roselline bianche, che conduceva alla casa bianca. Era così che la chiamavamo noi ragazzi del quartiere. Percorremmo incuriositi e diffidenti il lungo viale, fino alla rampa di pochi scalini che conduceva alla porta d’ingresso.
Chi non l’avrebbe spinto quel portoncino in quercia per curiosare cosa nascondesse quella palazzina dove aveva fatto residenza un ufficiale Nazista! Questo, contrariamente al pesante cancello in ferro forgiato, si aprì dolcemente come se qualcuno lo avesse tirato dall’interno. Paura e stupore ci colsero. Ci guardammo smarriti.
«È permesso? C’è qualcuno?» chiedemmo, aspettando un chi siete? Cosa volete? Tutto tacque, si sentimmo quasi autorizzati ad entrare. Non esitammo. Ogni cosa era nuova per noi; ci introducemmo direttamente in un salone arredato con dei mobili lussuosi, tanti divani e comode poltrone, tappeti e quadri antichi dai soggetti mistici, messi l’uno a contatto con l’altro, adornavano una grande parete. Rimanemmo inchiodati lì ad ammirarli, ricollegando quei quadri a molti altri che avevamo visto nelle antiche chiese della città. Da una vecchia cassapanca venivano fuori decine di colli di bottiglie di alcolici. Sopra un gran tavolo, più basso dei divani, vi erano bicchieri semivuoti, alcune bottiglie dimezzate, sigarette di diverse marche, e dei portacenere che contenevano mozziconi di sigari e sigarette con il filtro imbrattato di rossetto. Su altri mobiletti e sul pavimento, erano impilati dozzine di libri dalle copertine gialle che illustravano scene di delitti dai titoli a noi incomprensibili.
Improvvisamente udimmo uno strano rumore non ben distinguibile, un misto tra uno starnuto strozzato, il soffiare di naso o il più verosimile, quello causato da una flatulenza. Ce la facemmo sotto dalla fifa, e scappammo a nasconderci immediatamente dietro un divano posizionato al centro del salone e nell’attesa di altri eventuali rumori. Eravamo tesi e all’erta.
Seguì lo stesso gracchiare più lungo, spezzato in due tempi e ancora parole mozze, incomprensibili. Allora capii. Portai l’indice sulle labbra e con l’altra mano feci cenno di ascoltare. Respiravamo appena temendo di fare rumore, poi vidi sul volto di Franco quell’espressione rassicurante che voleva dire ho capito anch’io! Mi alzai muovendomi felinamente verso la camera da letto.
Guardai dalla soglia della porta pensando di trovarmi di fronte alla nonna agonizzante, seduta sul letto con quattro cuscini dietro la schiena, ma in realtà non era proprio così che andarono le cose. I nostri timori erano semplicemente giustificati dal fatto che eravamo in casa altrui a spiare e mettere le mani ovunque…


…Nella casa di campagna della nonna paterna di Franco esisteva una radio chiamata “mobile bar”, peraltro poco distinguibile da un altro mobile che custodiva al suo interno una macchina per cucire di marca “Singer”. Arredavano entrambi una specie di sala “multy hobby” con annessa cucina dove un paio di galline chiocciavano chiamando i loro pulcini.
Alla sedicente radio, ultimo ritrovato della tecnologia dell’epoca, saltuariamente prendeva lo schiribizzo di gracchiare, a quel punto bisognava sintonizzarla sulla giusta banda azionando la seconda manopola da destra. Tale operazione si rendeva necessaria per l’ascolto di un programma di operette e canzoni napoletane cantate da Beniamino Gigli, di cui nonna Michela era incantata. “Stativi zitti, picciriddi, ca’ sta cantannu l’amuri miu”
La parte interna di questo più unico che raro capolavoro dell’ebanisteria in stile Littorio, di gran moda in ogni casa ben arredata, era tutta rivestita con specchietti a mosaici. La parte superiore, composta da due spesse mensole di vetro con bordi lucidi, serviva d’appoggio per alcune bottiglie dalle forme inusuali, ideate probabilmente dal “Principe di Palagonìa” – (Nobile siciliano del ‘700, progettista dell’omonima Villa, sita in Bagheria, meglio nota come Villa dei Mostri. N.d.R.) –
contenenti liquori dai diversi colori e gusti, comunemente detti “rosòliu fattu ‘n casa.”
Sempre nella parte interna del mobile, appesi agli sportelli, stavano capovolti dodici piccoli bicchieri a calice, lì per non essere mai usati, considerate reliquie e preziosa eredità di antenati scomparsi. Mischìni!!

…Vincemmo la paura entrando finalmente in camera da letto e, anziché trovarci di fronte la vecchietta malata che tossiva, c’imbattemmo in uno strano marchingegno grande quanto la cassapanca di nonna Michela, dal quale provenivano raschi e starnuti misti a parole d’idioma incomprensibile!

Una cuffia ed una lunga antenna completavano lo strano attrezzo. Provammo invano ad interrompere il frastuono toccando qua e là tutte le manopole e pulsanti. Infine, abbassando casualmente una levetta, riuscimmo a farla tacere.



Demmo uno sguardo all’arredamento, e la nostra attenzione venne attratta da un gran ritratto incorniciato di nero ed appeso sulla testiera di un letto raffigurante un uomo dallo sguardo austero e capelli cosparsi di brillantina. Nel largo margine bianco sottostante (o passe-par-tout, se vogliamo) si evidenziava con chiarezza la scritta: “DER FÜHRER”.



Trasmetteva più terrore questa immagine che il gracchiare della radio o la deflagrazione delle bombe, alle quali avevamo ormai fatto abitudine.
La nostra curiosità venne solleticata da un grande armadio alto fin sotto il soffitto, con uno specchio al centro e due ante laterali. L’aprimmo: abiti da donna a sinistra e d’uomo a destra e fra questi, alcune uniformi d’ufficiale nazista: pastrani, vestaglie, stivali, grandi borse e tant’altro.
Tornammo sui nostri passi dove avevano intravisto una cucina. Sentivamo i morsi della fame poiché entrambi avevamo saltato la “merenda…” se si esclude la gomma da masticare che avevo ingoiato poco prima.


Nella ghiacciaia trovammo del burro e tanto latte, da uno sportello dei pensili, vennero fuori delle gallette rinsecchite custodite dentro una scatola di metallo, in altri contenitori rinvenimmo del pane di segala e di frumento che, dopo essere stato spalmato di burro e marmellata, andò a riempire i nostri capientissimi stomaci. Buon latte fresco accompagnò lo “spuntino”.
Continuammo ad esplorare altri ambienti, soffermandoci ad osservare una lettiga d’infermeria. Dalla parete di fronte pendevano un paio di camici bianchi, con delle svastiche agli occhielli, che diedero conferma che ad abitare in quella casa era una coppia di tedeschi uno dei quali sicuramente medico.

* * *
Il giorno successivo, avendo marinato la scuola, fummo in tre a proseguire l’accurata ispezione. A noi si era aggregato anche Melino.
A colpire la nostra insaziabile curiosità fu stavolta una casetta in fondo al giardino sul retro, seminascosta da rampicanti e foglie di campanule in piena fioritura. La malridotta porticina era legata da un filo di ferro che attraversava i due occhi a vite ricoperti di ruggine.
Consci dei rischi, ma al contempo osservanti dei miei suggerimenti, decidemmo di aprire il portoncino. Il nostro più grande timore, oltre ad un imprevisto per quanto improbabile ritorno dei legittimi residenti, era quello rappresentato dai saccheggiatori, che se ci avessero trovati lì ci avrebbero considerati pericolosi concorrenti e dunque puniti all’istante.
Proponemmo, quindi, di portare via tutto ciò che sarebbe stato buono da mangiare. Fu qui che i pareri risultarono contrastanti, finché non fu deciso che il lancio di una moneta, rinvenuta presso la radio, avrebbe scelto per noi. La sorte favorì Melino.
«Si fa così!» disse, togliendo il filo di metallo e tirando la porticina a sé.
Nove grosse casse di legno si presentarono ai nostri occhi! Decidemmo dunque di passare all’apertura del “tesoro” non prima di aver dato fondo alla dispensa, ormai ridotta a poco pane nero, salumi piccanti ed il latte residuo dal pomeriggio del giorno prima.
Faceva caldo a quell’ora del giorno, e le pance erano così inopinatamente piene che forte fu la necessità di sdraiarci sotto il pergolato. L’arsura causata dagli insaccati, e dal sole a picco, richiese acqua, tanta acqua. Grosso errore!
Cominciammo ad accusare forti disturbi al ventre, il respiro si fece corto e stare in quella posizione, il dolore aumentava. Ci alzammo.
Comprendemmo la situazione quando notammo un pezzo di pane, precedentemente rinsecchito, ora gonfio a dismisura, in fondo al lavandino della cucina. Erano bastate poche gocce a gonfiarlo, figuriamoci i nostri stomaci!. La paura ed il senso di nausea fecero precipitare gli eventi: ci ficcammo due dita in gola e ci liberammo dal doloroso frutto della nostra ingordigia.
Infine esausti ci abbandonammo all’ombra del folto pergolato e prendemmo sonno.
Rinfrancati dal riposo e sollecitati da un calcio di Franco riprendemmo il programma interrotto dallo “incidente di percorso”.
…Accatastate l’una sull’altra, a formare un grosso cubo, giacevano nove casse. L’idea di aprirle ed appropriarci del contenuto ci dava grande emozione. La parte frontale di ognuna di esse mostrava il classico simbolo con il quale si indicano gli esplosivi. Due parole scritte a grandi lettere cubitali precedevano il simbolo: AKTUNG GRANATEN. Paurosamente intuitivo!



Facemmo leva inserendo la lama di una falce sotto le fascette di lamiera che avvolgevano la cassa, le quali cedettero senza particolare sforzo. Sollevammo il coperchio incernierato e rimuovendo la paglia a copertura, trovammo ciò che l’immagine impressa sulle casse prometteva: bombe a mano color verde a forma d’ananasso.
Le altre otto casse contenevano razzi luminosi, cordite e munizioni per carabine di precisione. Armamenti abbandonati dalle truppe tedesche, presumibilmente a causa di una fuga improvvisa.
Credemmo opportuno portare via soltanto le tre casse di razzi che, furbescamente, vendemmo ad un robbavicchiàru ambulante, don Giosuè.
Questi, secco ed allampanato, era padre di numerosi marmocchi. Ogni mattina con il carrettino trainato dal fedele asinello faceva il giro completo della borgata nella speranza di recuperare quei pochi oggetti che, rivenduti ad altri disperati, gli avrebbero garantito denaro a sufficienza per sfamare la famiglia.
E così ogni giorno, fino a quando non trovò l’oggetto che gli avrebbe consentito di fare un bel po’ di soldi: una grossa mina anti-nave, quelle a forma di riccio, spiaggiata pochi giorni dopo l’invasione delle truppe americane.
Noi ragazzi ci prestammo persino a dargli una mano a caricarsela sulle spalle. Tragica fu l’idea di don Giosuè di riposarsi qualche centinaio di metri più avanti. Poggiata a terra la mina, alcuni detonatori vennero innescati. L’esplosione fu devastante. Di don Giosuè si ritrovarono parti anatomiche ancora settimane dopo. Il moncone di una gamba fu rinvenuto sul terrazzo di Palazzo Petrucci, circa dieci metri dal livello strada.
... Da un sopralluogo effettuato alcuni giorni dopo, alla “casa bianca” , notammo con stupore che la grossa Jeep Mercedes non esisteva più. E con essa, erano sparite le rimanenti casse e tutto ciò di utile che racchiudevano quelle mura. I quadri, soprattutto.

***************


…Eravamo in cinque quel dì di luglio a spaccarci la schiena per raccogliere i pomodori, quando una biscia sgusciò dall’erba secca. La inseguimmo affannosamente e, presa quella che credei essere una grossa zolla, la lanciai contro l’animaletto.
La granata incrostata di fango aveva perso le sue forme e dimensioni.
Finimmo tutti e cinque in un ospedale da campo, adibito per truppe americane. Fui il solo ad subire anestesia. Una grossa scheggia conficcatasi all’altezza dell’inguine aveva reciso la vena femorale.
Non era raro che noi ragazzacci tornassimo a buio fatto. Ma quando, ormai a sera inoltrata, mia madre mi vide tornare a casa quella volta accompagnato da un’ambulanza con targa USA, stava per svenire. Sorprendentemente non mi chiese cosa fosse accaduto. Disse soltanto: “tanto va la gatta al lardo finché ci lascia lo zampino”. Qualunque cosa accadesse, anche la più tragica, trovava sempre un proverbio d’accompagnamento. Quante volte l’ho fatta piangere. Povera madre mia! Ma la veneravo. Anzi: l’adoravo.
Non andò meglio all’ingegnoso Melino qualche giorno dopo. Nel tentativo di dar fuoco ad un pezzo di cordite, gli si incendiò l’intero fascio che teneva a poca distanza. Riportò ustioni di non so quale grado e sarebbe certamente arso vivo se un passante coraggioso non lo avesse provvidenzialmente avvolto con la sua giacca.
Con il senno di poi, posso senz’altro affermare che eravamo degli incoscienti.



Se i miei tre figli mi avessero dato la metà delle preoccupazioni che noi teppistelli di borgata regalavamo ai nostri vecchi, non sarebbero bastati tutti gli psicoterapeuti d’Italia a curare noi genitori esauriti e loro figli corrotti!!
Di contro, nonostante le difficoltà contingenti, la guerra , la fame, la povertà e tutti i pericoli connessi, noi ce l’abbiamo fatta! Non avevamo il facebook, le discoteche, il cellulare, la play station. Veramente non avevamo neanche la paghetta settimanale né la torta al compleanno. Ma ce la siamo cavata. C’è chi è stato più fortunato, chi lo è stato meno.
Franco è diventato un bravo calciatore rosanero di serie A… e pensare che i si allenava con gli scarpini ed un pallone comprati grazie ai proventi del furto dei razzi della “Casa Bianca”!!
Melino, dapprima apprendista pellicciaio, scoprì d’essere un avveduto imprenditore. Oggi dirige e controlla un’azienda con fatturati a 8 cifre.
Non starò infine a tediarvi con la mia biografia. Quella, se ne avete la curiosità, la trovate su www.operanarrativa.com.
Mi sia consentito però chiudere con una riflessione personale.
Nonostante io non abbia rimpianti, ho vissuto solo una modesta parte di quello che avrei più intensamente voluto vivere, e se fosse dipeso esclusivamente da me avrei cercato più intense soddisfazioni. Qualcosa ha remato contro!...
Non mi sono mai sentito però un “ultimo”. Mi sono sempre impegnato per far la cosa giusta. La compagnia di mia moglie, l’affetto dei miei tre figli ed il calore dei miei amici me lo ricordano quotidianamente.

Breve epilogo:
Infine vorrei puntualizzare quanto segue:
non tutti quei ragazzi del Sant’Uffizio, poco più di una dozzina, se ben ricordo, completarono la loro scolarizzazione. Ma soltanto tre ebbero la fortuna di distinguersi:

1 - Monsignor Giacomo D’Amico, (mio fratello) Teologo. Colonnello Cappellano in Polizia, oggi in pensione per raggiunti limiti di età.

2 - Don Pino Pugliesi. Sì, proprio lui, il futuro Santo!! Laurea in teologia.

3 – Prof. Nino Angellotti. Geologo. Detto Gronchi, per la forte somiglianza col il terzo Presidente della prima Repubblica.

A me sarebbe piaciuto laurearmi, ma non ebbi le possibilità economiche, forse nemmeno quelle intellettuali. Tuttavia ebbi la fortuna di conoscere il mondo con un passaporto dalla copertina blu concessomi dalla Farnesina. In compenso si sono laureati i nostri figli.
Oggi mi sento spesso con Melino. L’ho rintracciato dopo oltre mezzo secolo. Potenza del web!!
Non ho notizie di Franco, invece. C’è chi dice che sia andato all’estero chi invece sostiene che si trovi fra i più numerosi.
Recentemente ci si chiedeva con Melino che fine avessero potuto fare le opere d’Arte intraviste quel giorno nella “Casa Bianca” risalenti, con buona probabilità, al periodo Rinascimentale. La tesi comune è che al tempo siano state trafugate da chiese o dagli scantinati di qualche museo.


Ma mentre Melino è dell’opinione che siano state canalizzate sul mercato dell’antiquariato – idea peraltro attendibile – io sono di un avviso del tutto diverso. Per non incorrere nelle sanzioni che il codice penale mi comminerebbe, preferisco tacere. Voi avete qualche idea?
Ad maiora !!
Gianni D’Amico.


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venerdì 28 maggio 2010

”… sei in grado di far suonare la campana!”

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Prologo

Nel rispetto di quelle persone
passate a “miglior vita” e alla
salvaguardia della privacy di
alcune altre presumibilmente
esistenti, eviterò che nel corso
della narrazione vengano
menzionati i loro cognomi,
di conseguenza milimiterò a
sostituirli con dei pseudonimi
degni di fede. La medesima strategia sarà adottata per l’azienda coinvolta, involontariamente, per l’istituto finanziario e, ove possibile, i luoghi in cui si svolsero i fatti. E sebbene il racconto sia limitatamente romanzato, farò del mio meglio per non stravolgere la veridicità di quanto sto per narrare.

Accadde esattamente nel decennio 1950-60. Avevo 15 anni quando, allo scadere dei 5 anni d’accoglienza, lasciai l’orfanotrofio Salesiano Santa Chiara di Palermo.

Il Signor Trazzera, (don Totò) mio maestro, sia di musica che del settore ebanisteria, Salesiano laico per l’esattezza, porgendomi la mano e stringendomela quasi come se si fosse messo d’impegno a staccarmi il braccio, disse:
«Vai Giovanni, sei in grado di far suonare la campana!» con questo intendeva dire che ero in condizioni tali da poter provvedere al mio sostentamento. Quanto da lui asserito, scaturiva dal fatto che erano i Salesiani, con i loro sacrifici, a provvedere al fabbisogno giornaliero di 140 ragazzi.

Un triennio più tardi, risultavo essere ancora minorenne soprattutto per l’anagrafe; e pur avendo superato la prova d’arte sostenuta al cantiere navale del capoluogo in presenza di eccellenti “cabinet makers”, non venni assunto in quanto “under 21”. Frattanto per disporre di qualche Lira ad utilizzo “Argent de poche”, che mi consentisse di poter andare al cinema la domenica sera, davo una mano a zio Tano, piccolo imprenditore del settore armatoriale da diporto, che nell’approssimarsi della bella stagione, eseguiva il comune rimessaggio ai suoi dieci natanti.

Mi verrebbe, quasi, la voglia di elencarne i nomi! Il lavoro consisteva nel dover calafatare accuratamente tutto il fasciame delle barche e poi secondo i criteri prestabiliti dal maestro, fondati nella più rigorosa osservanza di una ben ponderata linea policroma, venivano dipinte ad olio di lino cotto. Sconfinare fra un colore e l’altro, oppure fingere di non aver notato l’inizio di una scolatura di vernice, sarebbero stati guai seri. Esigente per com’era zio Tano, quel lavoro ci teneva impegnati da marzo a metà giugno.
E nel frattempo, Eolo permettendo, prendevo qualche ora di lezione di vela impartitami da Nino, il figlio maggiore. Confrontarsi con i venti, soprattutto misti e le onde frangenti, era il nostro basilare test di coraggio, che più tardi – se pur continuando ad essere maldestro – m’invogliò a progettare e costruire la mia barca: un Beccaccino classico, a deriva mobile, lungo 5 metri, con 14mq. di superficie velica, fra fiocco e randa, s’intende.

Che, detto senza l’ombra della spocchia, fu valutato inaffondabile. E una valida ragione esisteva: l’interno dei gavoni delle sue fiancate, erano zeppe di palline da ping-pong, (una mia eccellente idea) mentre gli altri due gavoni, (poppa e prora) equamente zavorrate, davano al natante l’ottima tenuta di mare senza che venissero alterate quelle leggi imposte dall’idrodinamica: (fendere le acque con minimo beccheggio e zero rollio).
Non era facile per un principiante affrontare da solo il giro di boa, rallentavo troppo l’imbarcazione, soprattutto quando il vento soffiava di bolina e le acque, proprio in quel tratto di mare noto come il “golfo degli angeli”, non facevano sconto a nessuno.
A quel punto era Nino che prendeva i comandi: il quale con sangue freddo disinseriva la deriva e, mollando le sartie del boma, attuava la sua elegante strambata chiudendo
l’angolo a non più di 37/38°. Furono necessarie un paio di ventose stagioni autunnali, affinché io imparassi questo stratagemma.
Nino, con una barca adeguata, sarebbe stato capace di circumnavigare da solo le acque del pianeta. A soli 15 anni, forse, aveva imparato a comandare imbarcazioni da diporto nelle acque agitate dai forti venti, tanto da esser considerato il più giovane skipper del Mediterraneo.

* * *
1956.
Maturai la maggiore età. E allorquando mi pervenne la cartolina relativa al selezionamento per il sevizio militare non ero in Italia, bensì in giro per l’Europa in autostop. Pertanto, tacciato del disonorevole appellativo di disertore, fui ricercato dalle forze dell’Ordine. Quando 45 giorni dopo feci ritorno a casa, non fu piacevole, credetemi, trovare i carabinieri che mi attendevano. Sottoscrissi a malincuore la diffida, in cui mi veniva imposto di recarmi con urgenza presso gli uffici del Distretto Militare di mia pertinenza.

“La notte porta consiglio”, diceva mia madre dandomi il bacio della buona notte quando i miei problemi erano solo quelli della paura del buio. Poi morì mio padre e in orfanatrofio dovetti imparare a farmi consigliare davvero solo dalla notte. Anche questa volta, affinché ascoltassi in maniera inequivocabile il consiglio che mi avrebbe portato la notte, non chiusi tassativamente occhio, meditando come infliggere il necessario scacco matto ad un paio di persone considerate molto affidabili.

Quasi tutte le mattine incontravo, in autobus, un eccellente viaggiatore: un giovane Prete, Sottotenente Cappellano, il quale si recava all’Università degli Studi del capoluogo. Lo attesi nelle vicinanze della fermata dell’autobus, a pochi passi da Piazza Pretoria, e da lì lo vidi sopraggiungere. Lo seguii a passo sostenuto, pari al suo d’altronde, e da quel momento provai a mettere in atto il consiglio portatomi dalla notte. Mi affiancai dicendogli:«Buongiorno signor Tenente, mi chiamo D’Amico, desidererei parlarle.»«Riveste carattere impellente, la cosa?» rispose lui.
«No, no, oserei dire urgente!» volli fargli osservare, non avendo fatto mai impiego dell’aggettivo impellente.

«Ritroviamoci qui alle ore 11,30» rispose, provando a dare uno sguardo all’orologio posizionato in alto sulla parete centrale del Palazzo delle Aquile. Ebbi la piena convinzione che quell’incontro, più che al caso, era d’attribuirsi ad un segno del destino. Puntuale come l’arrivo dei “treni del Duce”, lo vidi uscire dal portone dell’Ateneo. Io ero lì, con quel foglio in mano, ad attenderlo.

«… Qual è il problema che ti affligge?» esordì con tono rassicurante.«Ecco!» risposi. Mentre gli porgevo copia del mortificante documento che avevo sottoscritto il pomeriggio del giorno precedente. Lui lo divorò con lo sguardo e lì per lì aggiunse:
«Beh, cosa vuoi che faccia!?»
«Gradirei, ove possibile, essere esonerato dall’indossare la divisa militare.» risposi.«Dimmi tu con quale pretesto?» «Con una valida giustificazione, più che un pretesto.» ribadii.

«Intanto, per prima cosa, dovrei salvarti dal carcere militare, poiché, a fronte di ciò che si evince da questo documento, risulti essere disertore, e poi vedremo dove arrivano le mie conoscenze. Sentiamo questa tua valida giustificazione!» «Sono orfano di padre a sostentamento di mia madre e due fratelli.» «Sei il primogenito?»
«No, il secondo.»«Niente da fare!, trattandosi di questi casi la legge prevede che sia il primogenito a beneficiare dell’esonero.» «Ma il fratello maggiore si trova in seminario, e non prima di un quinquennio terminerà gli studi di teologia.»


Annuì, rendendosi conto che sotto non c’era del marcio. Tacque alcuni secondi girando quel foglio fra le mani, poi alzando un braccio, compresi che stava per fermare un taxi. Indi rivoltosi al conducente, disse:
«Al Distretto Militare, Via Quintino Sella.» e come in una partita a scacchi lo vidi costretto ad arroccare la torri.Giunti in loco, chiese del Colonnello responsabile di quel servizio, proprio colui il quale aveva apposto la firma su quell’attestato. Venne bene accolto, e mentre io fui invitato a prendere posto in una sala di attesa, lui varcò la soglia della stanza destinata al più alto in grado: il Colonnello D’Amico. Un puro caso di omonimia. Parlarono a lungo.




Uscì accompagnato da un distinto signore in abito civile, al quale fui presentato e, seduta stante, questi mi sottopose una dichiarazione da firmare. Mi avvidi che si trattava di una domanda di esonero. Firmai felice senza esitare un solo istante.
Giù, all’ingresso dell’edificio, chiesi al giovane cappellano quali decisioni sarebbero state adottate circa il mio comportamento trasgressivo accaduto in totale buonafede.

«Si è tenuto conto di questo, principalmente, e come vedi stai tornando a casa.» rispose. Poi aggiunse: «Entro pochi giorni ti perverrà una lettera proveniente dal tuo distretto. Dopo di ciò, gradirei poter conoscere tua madre e i tuoi fratelli.»
Si accomiatò porgendomi il suo biglietto da visita. Notai che il cognome non era siciliano, come non era siciliano il suo accento. Stava di fatto, però, che senza essersi messo sotto scacco aveva preso a cuore la mia supplica.

Pochi giorni dopo, giunse una raccomandata postale con ricevuta di ritorno, con su impresso “MINISTERO DELLA DIFESA, DISTRETTO MILITARE DI PALERMO”. Fu mia madre ad aprirla. Talmente emozionata da non riuscire a leggere il contenuto. Ero stato esonerato dal servizio di leva con la seguente motivazione:
“Per sostentamento di madre vedova, e dei suoi due fratelli”.
Dopo un primo formale incontro tra mia madre e il tenente cappellano avvenuto in Seminario, la signora D’Amico e i suoi tre figli ebbero il piacere di averlo ospite, a cena, nella propria abitazione.
Frattanto vengo a sapere che ero stato cercato da un portavoce del signor Trazzera. Lo chiamai da un telefono pubblico, e da lì mi fissò un appuntamento in centro città.
Era giunta l’ora di far suonare la campana… Don Totò, stava per farmi ottenere un impiego presso una nascente azienda costruttrice di arredo a livello industriale. Avrei dovuto far parte dell’ufficio “Studi e Progettazioni”.

Ero bravo nel disegno: passavo tra i banchi della classe del mio corso per correggere i compiti di quei compagni, che di bio-architettura, tecnologie del legno e i suoi incastri, prospettiva con relativi punti di fuga, di proiezioni ortogonali, e di disegno geometrico, ne masticavano ben poco. Ma alcuni di loro, non molti in verità, erano dei veri artisti nell’ornato, che con le loro matite sanguigne o carboncini, nel corso di quel quinquennio, crearono autentiche opere d’arte. Il fatto di non dover rispettare (nell’uso del bianco) quelle leggi imposte dalla geometria, – materia, questa, che insegna a ragionare – dava loro ampio spazio e maggiore incentivo al loro straordinario estro.

* * *
…Una mattina fu lo stesso signor Trazzera a presentarmi al titolare dell’Azienda. Una grande Società per Azioni, questa, con punti vendita del prodotto finito in buona parte del meridione peninsulare. Notai che gli occupanti quel salone, tutta gente del Nord che indossavano giacca e cravatta, mi vennero incontro dandomi il benvenuto. Dopo un breve colloquio sostenuto nell’ufficio privato del futuro datore di lavoro, disse: «Ecco le tue spettanze.» indi, porgendomi copia del regolamento organico dell’azienda, aggiunse: «Hai dieci giorni di tempo per accettare o rinunciare.»
«Accetto sin d’ora,» risposi in presenza del mio maestro «ma gradirei, in ogni caso, potere usufruire di quei dieci giorni». Assentì inclinando con molta signorilità il capo in avanti.

Mi recai per la confezione del mio primo vestito presso colui che, più tardi, sarebbe divenuto il mio sarto. Uno dei migliori “couturier” della Palermo bene: tale Vincenzo Angellotti. Dell’incontro avuto, quella mattina, ne riferii a mia madre. È superfluo dirlo. Ne rimase commossa e soddisfatta.«Sia ringraziato il Signore!» esclamò «come vedi, la campana di cui parlò il tuo maestro, sembra che stia per suonare.» e come se stesse udendo realmente il suono di una campana, da buona cristiana che era, si segnò.

* * *

Eravamo giunti in prossimità delle festività natalizie. Quando il Commendatore Righi, economo dell’azienda, (persona molto dinamica, ma non più giovane) mi chiese di accompagnarlo in banca per il prelievo delle spettanze mensili e della tredicesima da retribuire ad impiegati e operai di quella intrinseca sede.
E , considerato che l’uomo addetto all’auto di servizio era assente, m’invitò a fare uso della propria auto: una Lancia Aprilia cabriolet, con targa TO, un po’ superata, ma di carrozzeria ancora nuova e con poche migliaia di chilometri in corpo non passava inosservata.

L’Istituto di Credito “SANT’EUSTACHIO” ubicato al centro città, disponeva di un ingresso sul lato posteriore dell’immobile, riservato a quei correntisti che prelevavano delle somme considerevoli. Fu lo stesso economo a suggerirmi cosa avrei dovuto fare: discendere lo scivolo, parcheggiare l’auto, e attendere il suo ritorno. Mi accorsi che ai piani superiori si accedeva attraverso una porticina taglia fuoco, di cui si servivano soltanto coloro i quali erano in possesso della chiave data loro in consegna dalla direzione dell’Istituto di Credito.

Un ristretto numero di danarosi correntisti, quindi. Però mi stranizzò il fatto che la saracinesca che dava accesso al sottostante garage, rimanesse aperta e chiunque avrebbe potuto accedervi e mettere in atto i più malavitosi progetti, come quello, per esempio, di una rapina. Perché no! Pochi minuti dopo fece ritorno dicendo:
«C’è una moltitudine di gente lassù, è preferibile tornare domani all’apertura degli uffici.» Facemmo ritorno in sede.

Quel genere di lavoro era riuscito a trascinarmi, non guardavo mai l’orologio. Presto divenni un impiegato modello. Ma il mio ideale rimaneva sempre il turismo. Aveva la supremazia su qualsivoglia attività. E le domeniche mi recavo nelle chiese o nei musei ad ascoltare ciò che le guide spiegavano ai loro gruppi di turisti, in prevalenza francesi e americani. Appresi molto attraverso quei contatti, di cui più tardi ne trassi grandi benefici. Anche quelli economici.

…Come il dì precedente, l’enorme saracinesca che dava accesso al garage di quella Banca era sollevata. Entrai a passo d’uomo e memore dell’afflusso di auto del giorno anteriore, e di quanto dovetti tribolare per effettuare la manovra d’inversione di marcia, parcheggiai la macchina in posizione avvantaggiata, pronto per uscire.


Pochi minuti dopo, fece ingresso un’auto dei telefoni di stato attrezzata di scale ad innesto fissate sul tetto con delle cinghie. Ne vennero fuori due uomini sulla trentina, i quali indossavano regolare tuta da lavoro.Uno dei due teneva in mano un mozzicone di matita, un metro a bobina e un blocco per appunti. E, seguendo la traccia di un obsoleto impianto, diedero inizio a fare dei rilievi non concedendomi la benché minima opportunità di afferrare una sola parola di ciò che stessero dicendo. Ma qualcosa m’insospettì. Quel tizio che annotava ciò che diceva sempronio, mi era sembrato di conoscerlo.

Io per natura sono un irriducibile fisionomista, e lo raffigurai in Matteo, colui che circa 15 anni prima era il più temuto ladro di polli del quartiere Torrealta, successivamente divenuto topo d’auto. E, per i frequenti reati minori, faceva l’andirivieni dal “Grand Hotel Ucciardone”. C’incontrammo con lo sguardo. Abbassai subito gli occhi.

Non ebbi la certezza che mi avesse riconosciuto, poiché ero sparito dal Sant’Uffizio da oltre un lustro, e inoltre a quel periodo trascorso in orfanotrofio, in aggiunta ad un paio di anni che lui, con molta probabilità, aveva dedicato al servizio militare e, perchè no!, alla forzata reclusione in un riformatorio come Malapena, per esempio, mi autorizzavano a sperare che un così lungo lasso di tempo avrebbe potuto cancellare in lui il ricordo della mia faccia.

Sì, perché non aveva avuto modo di vedermi crescere e io non ero più il ragazzetto che si era salvato miracolosamente dal rogo della “Taverna del Tiro”, mi ero fatto uomo oramai, ed inoltre, alla scaltrezza dei nove anni, avevo aggiunto un po’ d’intelligenza in più e tanta esperienza. Mi accostai a loro e dissi:
«Fra poco da quella porticina uscirà un signore anziano, se cortesemente poteste dirgli che attenda pochi secondi, vado qui all’angolo della strada a comprare una focaccina con le panelle. Volete che ne compri un paio anche per voi?»
«Nenti dumannari e nenti rifiutari!» ma nel modo in cui venni osservato, mi resi perfettamente conto che ero stato individuato “nto frati du Parrìnu”.

Accesi il motore dell’auto e sgommando sulla la rampa, mi portai nelle vicinanze dell’ingresso principale della Banca. Varcai la soglia e andai in cerca dell’economo. Lo trovai in una stanza che inseriva nella borsa diverse mazzette da 10.000 Lire.

Il prelievo era stato eseguito. Avevo fatto appena in tempo ad evitare la rapina.
Feci presente che avevo notato un guasto all’accensione, e sarebbe stato necessario l’intervento di un elettrauto, un lavoretto della durata di circa un’ora; perciò che si servisse di un taxi per fare ritorno in sede. Tale messa in scena sarebbe stata utile a farlo desistere dall’andare giù in garage. Certo non fui così ingenuo di ottemperare alla parola data, cioè quella di andare a comprare le due focaccine per tizio e sempronio. Circa 30 minuti dopo, anch’io feci ritorno in ufficio. Ma lo capirete!, la partita non si era chiusa lì…

«Ch’è successo alla mia macchina?» «Oh, nulla di grave!» risposi, «tutti e sei gli elementi della batteria erano a secco, è stato sufficiente colmare i livelli con dell’acqua distillata, e con una spintarella è stata messa in moto.»

“Il ferro si batte mentre è caldo”. Da una breve indagine effettuata nel luogo giusto, e al momento giusto, appurai dove abitava Ugo: in zona mattatoio, “‘o macellu”.
Il suo indirizzo, in aggiunta di alcune dritte, mi erano stare date da un sedicente maestro di scuola. Una persona avanti negli anni alquanto ponderata, che mi diede la quasi certezza che Ugo sarebbe strato idoneo a risolvere il problema che si era venuto, indubbiamente, a creare fra lo scrivente e i presunti operai delle linee telefoniche di stato, capaci di mettere in atto le più imprevedibili rappresaglie.

… Mi recai al numero 6 di quel vicoletto ceco suggeritomi dal canuto insegnante, e bussai un paio di colpi con un battente di bronzo a forma di muso di cane mastino. Udii lo “strack” della serratura elettrica azionata dall’interno. Mi presentai dicendo chi ero, e da chi era stato mandato.

«Hahhh!! Trasi! Assettati!» disse, scostando una sedia dal tavolo. Intanto che inserito un tovagliolo da cucina al collo diede inizio al pasto della sera.
«A favorire!» esclamò, mettendosi davanti ad una fondina stracolma di margherite al sugo che ricoperte di caciocavallo davano la vaga impressione dell’Etna innevata.

Gli narrai brevemente qual era il mio problema. Mi ascoltò senza fiatare.
Cinquantenne, single, “lupucuviu” per antonomasia, era una sorta di lottatore di “sumo” che per la corporatura di cui era costituito, – molto più del necessario – sarebbe stato più facile saltarlo che girargli intorno. Si diceva di lui che era cresciuto di pane e risse. In verità il suo cognome non lo si seppe mai, ma di nomi ne aveva una caterva.

Si ricordava di mio padre e dei suoi cugini, – importatori di bestiame – distinguendo, soprattutto mio padre con l’appellativo: “una perla di galantuomo”
Allungatosi i pantaloni mise da parte il nome di battesimo, acquisendo quello di Francesco, indi Ciccio, per gli amici “Ciccineddu” o semplicemente “Neddu”.

Ma per molti altri della sua stessa età era noto come “u suca 'nchiostru”: sopranome, questo, coniato dal fatto che, durante la frequenza alle scuole elementari, che ultimò con diversi anni di ritardo, lo si vedeva sempre con la bocca e le dita imbrattate d’inchiostro.
Da adulto si diceva che si occupasse di compra-vendita, ma in effetti null’altro era che uno sconsiderato ricettatore. Nel frattempo aveva finito d’ingurgitare il suo fumante chilogrammo di pasta asciutta. Poi, dopo aver fatto un rutto animalesco, disse:«Amunì!»
Mise in moto la sua Fiat 1100, andando in direzione Torrealta.
Giunto che fu in un fatiscente caseggiato, bussò ad una porta con su scritto: “portoncino fresco di pittura”. Si udì la voce di una donna, chiedere:
«Cu èhhh!!» il colloquio si svolse grossomodo così:
«Io sugnu, c’è Mattiu?»
«Nohh, me frati Mattiu nu’ c’è, è partutu!»
«Sì!!!, di ciriveddu è partutu.»
«Vossia lu sapi, ca’ me frati fa lu rappresentanti, e nu’ c’è mai a casa. Chi voli di mia!!»
«Fall’affacciàri, ca’ cc’haiu a parràri, cretina.»

Io attendevo poco distante da lì, seduto in macchina, e in base al loro modo di esprimersi, mi sembrò di capire che i due si conoscessero più che bene.

Aprì la porta e venne fuori una donna sulla quarantina, dall’aspetto trascurato, obesa e talmente miope, che nella montatura dei suoi occhiali le erano stati inseriti due fondi di bottiglie. Matteo era in casa, e udendo la voce del rissoso lottatore di “Sumo” venne allo scoperto adducendo un pretesto che non è il caso precisare. Si allontanarono alcuni metri e parlottarono. Io per quanto potei affilai il più possibile le orecchie.

E dal tono concitato con cui parlava mi resi subito conto che il “tecnico della telefonia” era parecchio risentito, poiché dalla sua bocca venivano fuori delle contumelie volte al sottoscritto.

Sentii dire pure: “u pani chi panelli!!… a mia sta pigghiàta pu’ culu!!… Sì l’hav'a pagari!!... l’hav'a pagari com’è veru Diu!!” E molti altri anatemi che non sto a descrivere. Andarono al Bar a bere sicuramente qualcosa, indi si strinsero la mano e tutto finì lì.
Io non facevo parte di quella “casta”, pertanto il “paciere” non ebbe nulla da relazionarmi.
Disse soltanto:
«Fusti servitu, giannuzzu.»
Ebbi terrore di questa frase.
In realtà stavo avendo a che fare con degli incalliti malavitosi.

Ritornando all’amico dell’amico, un maestro di scuola elementare, come anzidetto, gli raccontai dell’incontro.
A dir vero non mi sembrò molto compiaciuto.
«…Questo è un capitolo da chiudere» disse «tieniti lontano da questa gente.
“Nuddu fa nenti pir nenti!!”
Oggi ti hanno fatto un favore, domani pretenderanno averlo restituito.»
«In che maniera!» interloquii «io non sono un malvivente come loro!»
«Ma loro non t’indurrebbero mai a dover commettere un crimine, mettendoti una pistola in mano, ma sono capaci di ficcarti in casa un temuto latitante, costringendoti a dover dire ai tuoi bambini che quello è uno zio.

Ma attenzione, “giannò!,” sarebbero loro ad accollarsi tutte le spese necessarie, anche quelle della pigione. E non è il primo caso, sai! “Tu e to’ mugghèri” vi sentireste di condividere il bagno, anche per un solo anno, con un uomo che non avete mai incontrato?!»
Da quest’ultimo abboccamento ne uscii ancor più inorridito.

Mi ero battuto a spada tratta per evitare che quella rapina fosse stata messa a segno, poiché qualcuno, anche della stessa azienda in cui prestavo servizio da pochi mesi, avrebbe potuto sospettare che fossi stato io a fare da basista.

Epilogo

Era un’afosa serata di un fine settimana d’agosto del ‘60, quando in una gremita pizzeria di uno splendido entroterra collinare, ombreggiato da conifere secolari, m’imbattei in un tizio che dall’aspetto fisico dava l’impressione di essere un lottatore di “Sumo…” mi venne incontro, e stringendomi la mano m’invitò a sedere con lui, – accettai a malincuore, credetemi!, – e dopo alcuni stravaganti, quanto insulsi, convenevoli, bisbigliò al mio orecchio:

«Hai sentito di Matteo?» la cosa mi parve strana, lui oltre ad aver detto “trasi, assettati” che mio padre era una perla di galantuomo, “amunì” e “giannzzu sei stato servito”, non ricordo che abbia detto altro. Tuttavia volendo essere garbato, risposi:«No, che cosa gli è accaduto!?»
Mandò giù d’un fiato un boccalone di birra e dopo essersi asciugato le labbra con il dorso della mano, raccontò che il proprietario di una pizzeria, usciva a notte fonda dal suo locale con il “sostanzioso” incasso del giorno, quando un giovinastro, a viso coperto, gli si parò davanti e con una pistola alla mano gli chiese il portafogli.

L’imprenditore lo vide indeciso, vacillante e lo esortò ad abbassare l’arma, dandogli la garanzia che avrebbe trattenuto per sé i soli documenti e che invece gli avrebbe consegnato tutto il malloppo, ripetendogli con saggia sollecitudine che la vita è un bene prezioso, molto più prezioso dell’incasso di una serata di lavoro.

Il rapinatore fidandosi delle parole paterne dette da quell’uomo abbassò il braccio. L’altro inserì la mano nella tasca esterna della giacca e da lì lo freddò con una pallottola in pieno petto.

«Considerato che Matteo morì sul colpo, com’è vento a sapere lei, don “Ciccineddu”, del dialogo tra lo stesso Matteo e il proprietario della pizzeria!?» chiesi io incuriosito.

«Chi dumanna mi fai, giannuzzu! L’ho saputo dal mio amico che stava per subire la rapina. Vedi, quel signore là in piedi che discute con dei clienti».
La sua risposta era stata ben altro che laconica. Indi atteggiando la bocca a quella di una cernia, aggiunse:
«fici ‘a fini ca’ ci spittava fari.
Stu gran delinquente!!»
Parole dure, le sue, come le pietre, che non mi andarono giù.
Frattanto, insieme ad un gruppetto di amici, arrivò la mia ragazza, anche lei come tutti gli astanti in cerca di una brezza.
Appariva pimpante, radiosa, acqua e sapone. Indossava “quella sua maglietta fina”, più tardi magnificata da Bagloni in un suo motivo… che attirò su di sé “l’attenzione” di non pochi avventori.

Mi separai da quell’uomo con gran senso di sollievo e le andai incontro. Prendemmo posto in un tavolo apparecchiato nelle vicinanze di un roseto, il cui profumo misto a quello della resina dei pini, sembrava che desse maggior refrigerio.

E mentre lei ad occhi chiusi annusava la fragranza di quella particolare frescura, presi in considerazione l’ultima frase detta dal rude mediatore, bisbigliando:
«…Stu gran delinquente!! Il bue dice all’asino cornuto!»

«Come dire da che pulpito viene la predica, no! Con chi ce l’hai, Giò Giò!?» chiese Maria Adelaide ironizzando. Tergiversai parlando subito d’altro, fuorviandola da ogni sua arguta illazione.
Il luttuoso avvenimento appena appreso, mi lasciò non poco turbato. Ne conclusi che la temporanea esistenza su questa terra, di ognuno di noi, ha una ineluttabile fine. Si sa come, quando, e dove si nasce, ma fortunatamente non sapremo mai dove, come e quando si cessa di vivere.


Lo sciagurato Matteo, aveva
finito di riferire “Ciccineddu”,
aveva programmato che dopo questo
“lavoretto” si sarebbe ritirato
definitivamente da quella
attività, e sarebbe convolato
a nozze con Agatina.

Ma non aveva messo in conto
che in quest’ultimo faccia a
faccia, avrebbe pagato con
la vita. Giorni dopo, così,
anche per Matteo suonò la
campana: non quella di cui
aveva parlato don Totò, il
mio maestro, cioè quella
dal suono affrettato e
gioioso che invitava noi
ragazzi a recarci al
refettorio.
Per Matteo ora stava suonando quella dai rintocchi lenti, lunghi, commiserevoli: la campana di Hemingway. "E allora,non chiedere per chi suona la campana.Essa suona per te".

Però nella storia di quel grande romanziere si trattava di una guerra civile e non di infima delinquenza, come in questo caso in cui io, “reductio ad absurdum” mi ero andato a ficcare dentro, sia pure con il mio sano ruolo civile.Ma senza avere avuto la cognizione di quanto ci sarei stato stretto.

Cordialità. Gianni D’Amico © Riproduzione riservata