Turiddu Giuliano, gli altri ed io…
(In cerca della verità)
Breve prologo
Erano trascorse da poco le ore 23.00, di quale giorno ha poca rilevanza. Abbandonato sulla mia poltrona con aria indifferente, saltavo da un canale televisivo all’altro in cerca di non so che... Quando attratto dalla presenza di Carlo Lucarelli, interrompo senza perplessità lo zapping sulla RAI.
Lo scrittore, giallista, stava narrando le imprese memorabili di un uomo vilmente trucidato, tale: Salvatore Giuliano, alias il “bandito” di Montelepre, protagonista della nostra storia contemporanea in terra di Sicilia, caratterizzata, si sa, da eventi truci e macchiati di sangue. Quel nome, i luoghi e gli avvenimenti in corso di narrazione mi hanno condotto indietro negli anni.
Alla circostanziata verifica dei fatti, il bandito non fu tanto “Turiddu Giulianu”, né tanto meno i suoi picciotti, quanto coloro che assetati di nuovo potere politico, nell’intento di volere arrestare l’espansione dilagante del Partito Comunista isolano, gli vollero armare il braccio affinché, con condannabile violenza, ne contrastasse l’ascesa.
Continuo a chiedermi: ma è questa la maniera di far politica?
Mi vado convincendo sempre più che:
“U cumannari è megghiu du futtiri!!!”
* * *
Come già accennato in alcuni miei precedenti racconti, nel quinquennio 1945/50, ero stato accolto presso l’orfanotrofio Salesiano San Filippo Neri di Palermo.
Era estate, e come sempre in questo periodo, i Salesiani conducevano i loro allievi in montagna non distante da Palermo. Una sorta di colonia estiva per quei pochi che impossibilitati a tornare a casa, vuoi perché non l’avevano, vuoi perché nessuno li aspettava, restavano all’interno dell’orfanotrofio a dare calci ad un pallone o a cimentarsi in una primitiva pallacanestro. Un nuovo gioco per noi italiani, ricevuto in eredità dalle Truppe Americane.
La singolare accoglienza dataci dai Benedettini l’anno precedente, fece sì che l’estate del 1949 quei 40 ragazzi trascorressero la loro vacanza estiva in quei luoghi di pace e frescura, dove l’afa generata dal solleone veniva mitigata dalla fitta pineta che circondava l’Abbazia Benedettina di San Martino delle Scale, distante dal capoluogo siciliano non più di una trentina di chilometri.
Il programma delle gite messo a punto dai Salesiani, prevedeva una discesa al mare, ad Isola delle Femmine. L’acqua verde trasparente ed invogliante, il sole e la sabbia benefica, erano le componenti ideali per temprare i corpi di noi ragazzetti, sostenevano i devoti a Don Bosco.
Il percorso da seguire, a piedi, era roccioso, impervio e spaventosamente brullo. Quando tutto andava bene, nel senso di non incorrere in imprevisti incidenti fisici, tipo storte o lussazioni alle caviglie, ci si impiegava circa tre ore. Si partiva di buonora con tascapane a tracolla e dopo una stancante giornata di mare, distrutti dalla spossatezza, si faceva ritorno per l’ora di cena.
Ma quel primo mercoledì di luglio, accadde qualcosa d’imprevisto: il sottoscritto, essendosi esposto un po’ troppo ai raggi solari, si era preso un’insolazione – secondo le insindacabili diagnosi del tuttologo don Falzone – con conseguente febbre da cavallo.
Sicché l’ora di rientro venne posticipata di un paio d’ore. Quando infine ci mettemmo sul cammino di ritorno, il sole era già tramontato da un pezzo e presto scese la sera.
Al buio non si riusciva più a seguire il percorso dell’andata, e pertanto fu facile smarrirsi fra gli intricati sentieri. Che poi, detto con franchezza, non esistendo nessuna segnaletica, ci si orientava con alcuni particolari: un ciuffo di ginestre qui, una radice d’erica che fuoriusciva da una roccia spaccata lì.
Una certa attenzione andava anche riposta ai cespugli ed alle fenditure che, come ci veniva costantemente ricordato, potevano esser rifugi di rettili a volte anche velenosi. Meglio tenersi alla larga.
Di tanto intanto ci imbattevamo in qualche segnale di cristiana civiltà.
Arrivati ad un crinale (simile ad uno dei tanti passati sulla via dell’andata la stessa mattina), l’orologio di don Falzone segnava le ore 22.00, avemmo la perfetta consapevolezza di esserci persi. Il buio pesto non c’era certo d’aiuto!
Presa dal panico la nostra giovane guida, compattò il gruppo invitandolo alla preghiera. Con l’aiuto del buon Dio, avremmo ritrovato il sentiero. A causa della mia congenita fragilità e della febbre altissima, io non mi reggevo in piedi. Poco dopo, rischiarata dalla luna piena provvidenzialmente apparsa da dietro le nuvole, vedemmo la striscia di terra battuta. Avemmo la netta sensazione che Maria Ausiliatrice, avesse ascoltato le nostre preghiere e le avesse prontamente esaudite.
Dopo questa inattesa, quanto necessaria, sosta, riprendemmo il cammino che presumibilmente ci avrebbe condotto verso casa. Immaginavamo che da lì a poco avremmo dovuto iniziare la discesa per poi affrontare l’altra collina. Ricordo che don Falzone guardando le stelle ci garantì che stavamo andando in direzione Sud-Ovest. Ma questa sua dichiarazione se ad alcuni suscitò timida ilarità, in altri rafforzò la convinzione d’esserci smarriti ben conoscendo le cognizioni astronomiche del nostro mentore che, suo malgrado, non erano le stesse di quando sedeva alla tastiera di un organo. Le sue note facevano vibrare qualsivoglia Duomo.
«Cantiamo.» disse risoluto, intonando il Nabucco di Verdi, da lui fattoci imparare.
Trascorsa mezz’ora eravamo ancora tutti concentrati ed affannati a cantare: “Oh Signore dal tetto natio”, ancora Verdi!!!. Eravamo così doloranti e stremati, io in particolare ancora febbricitante, che il canto più indicato da intonare in quello specifico stato di cose, sarebbe stato lo “Stabat Mater dolorosa.“ Quando un paio di uomini armati di lupara c’intimarono l’alt, ci ammutolimmo. Uno di loro rivoltosi al salesiano, in testa alla fila indiana, disse con tono perentorio:
«Vinissi cu’ mmia!!» Don Falzone lo seguì come comandato e fu condotto in un casolare dove venne trattenuto per buoni 20 minuti. Io bruciavo dalla febbre e, tremante dal freddo, mi accovacciai appoggiandomi ad una roccia, sollevato dal suo tepore. E nonostante il colore della mia pelle fosse come quello di un’aragosta lessata, non vi nascondo che di quel calduccio ne provai grande beneficio.
L’uomo armato sentendomi lamentare mi chiese se stessi male, gli risposi che avevo la febbre molto alta e freddo in tutto il corpo.
Frattanto fece ritorno il religioso in compagnia di un uomo. Questi indossava una canottiera bianca, pantaloni infilati dentro gli stivali, l’inevitabile coppola e la doppietta alla spalla a canne giù. Accanto a lui, un uomo magrissimo, con baffi sottili ad incorniciare il labbro superiore, reggeva per l’estremità della canna una grossa mitragliatrice.
«…Senti chi fai, Gaspare! sella un cavaddu e accompàgna sti picciriddi dda ssutta, o’ Crucifissu. Ahhh! A chi cci sì, pigghia n’aspirina miricana e n’anticchia d’acqua pir dariccìlla a ‘stu picciriddu, ca sta pigghiannu focu...» (Senti cosa fai, Gaspare! Sella un cavallo e accompagna questi ragazzini là giù, al Crocifisso. Poi prendi un’aspirina con un sorso d’acqua per somministrarla a questo ragazzetto che sta per prendere fuoco…facendo allusione alla febbre alta. N.d.A.)
«Cca’ c’è l’aspirina, zu Turiddu!» Disse quell’uomo che mi aveva chiesto se stessi male. Gaspare non aprì bocca. Appoggiò l’arma ad un masso, andando in direzione del casolare. Pochi minuti dopo fu di ritorno tirando per le redini un cavallo sellato. Vi saltò in groppa, e rivoltosi all’uomo in canottiera gli disse:
«Pròjimi ‘u ferru, Turiddu!!» (Porgimi l’arma, Turiddu. Riferendosi alla mitraglia.
…Quando giungemmo all’Abbazia era notte fonda e molti dei frati in attesa del nostro arrivo passeggiavano a mani giunte per i lunghi corridoi. Bisogna riconoscere che si presero all’istante cura di me cospargendo il mio corpo con un unguento a base di erbe aromatiche preparato da loro stessi. Fui successivamente avvolto in un telo di lino traendone immediato sollievo.
La domenica mattina, in chiesa per la messa, ringraziammo il Signore che aveva messo sul nostro cammino quel gruppo di pastori in transumanza…
* * *
Di anni ne trascorsero tanti, almeno così mi parve. Prestavo servizio all’Avis Autonoleggio. Quel pomeriggio mi era stato affidato il compito d’incontrare un noto personaggio dello spettacolo: Peppino De Filippo.
Caricatolo a Villa Igiea, mi chiese di condurlo presso un fornito negozio di fiori. Lì, commissionò un fascio di ottanta rose rosse.
Saldò per contanti e chiese un cartoncino con busta, dove formulare gli auguri per la signora Biondo, artista, proprietaria dell’omonimo teatro, che proprio quel giorno compiva i suoi 80 anni.
Mentre il Signor De Filippo, impegnato a scrivere gli auguri di rito, il fioraio tolse dal mucchio una banconota da 5.000 Lire, provando a porgermela di soppiatto. Lo fulminai con lo sguardo, dando ad intendere che non era quello il luogo né momento giusto.
Lui assentì, e con un mulinante giro dell’indice, parlò tacendo… (ci vedremo dopo, intendeva dire).
L’artista inserì il cartoncino dentro la busta e chiese al negoziante i tempi di consegna, dando come indirizzo quello dell’anzidetto teatro.
«Il tempo di confezionarli… non più di mezzora.» rispose il fioraio, congedando il cliente con un’affabile stretta di mano.
Usciti che fummo dalla bottega, il Maestro chiese di un Bar dove poter degustare un buon caffè, invitandomi a fargli compagnia.
Lo condussi in un antico e rinomato locale, dove soltanto i caffè-dipendenti osavano accedere. Ne rimase entusiasta, e una volta fuori, disse:
«Grazie, guagliò! Me ne avevano parlato a Napoli di questo localino!!»
Ebbene sì…! Da quei 12 beccucci venivano strizzati 3.000 caffè al giorno. Mi era stato garantito da uno dei ragazzi.
… In cima ai gradini del noto teatro, rivestiti per l’occasione da una passatoia rossa, il signor De Filippo era atteso da una marea di gente…
* * *
Non avevo fretta di andare a ritirare la provvigione che offrivano i commercianti a noi “couriers”. Rimandai la riscossione ad una futura occasione.
Una mattina passando da quel negozio, mi sentii chiamare.
Una stretta di mano, quattro chiacchiere davanti ad un cappuccino caldo cosparso di cacao, intascai la banconota. Solo al momento di accomiatarmi, notai che il fioraio era elegantemente vestito. Ad uno sguardo più attento, restai colpito dai suoi occhi freddi e profondi e dal brillante al dito mignolo della mano sinistra.
La stessa mano che, dopo aver centrato con gesto calcolato e meticoloso il nodo della cravatta, mi pose sulla spalla indirizzandomi una frase che mi lasciò non poco sorpreso:
«Nella vita non tutti possiamo fare tutto, ognuno di noi ha bisogno dell’altro. Se domani avesse bisogno d’aiuto, non esiti a venirmi a trovare.»
Più che del contenuto, inequivocabile dimostrazione di potere, rimasi meravigliato dal perfetto italiano.
«Ne terrò conto.» fu la mia risposta.
Ad ogni modo ne dedussi che quell’uomo dallo sguardo glaciale aveva una certa stima di me.
L’occasione di aver bisogno del signor Nino non tardò a presentarsi. Una telefonata mi metteva a conoscenza di una circostanza affatto gradita. Messa giù la cornetta, feci strada per il suo negozio.
«Andiamo al bar.» disse, mentre girava dalla parte opposta una placca con su scritto: ”TORNO SUBITO”. Gli accennai che ad un mio zio acquisito era stata rubata la sua nuova auto Station Wagon, stracolma di valige contenenti sofisticate attrezzature elettroniche di provenienza americana.
Non si scompose!
Mi chiese d’acchito il numero di targa, il colore della vettura, l’ora ed il luogo dove era avvenuto il furto, ed un recapito telefonico, indi mi congedò con un’ammiccata pressoché rassicurante.
Trascorsa non più di mezz’ora dall’incontro, un familiare mi comunicò che ero stato cercato da un certo signor Nino. Vista l’importanza del favore chiesto, avvertii un certo un brivido alla spina dorsale.
Gambe in spalla, e percorsa a razzo via Napoli, raggiunsi Piazza Florio luogo prescelto per l’incontro. Il dialogo fu breve e moderato nei toni.
«Si rechi da solo in Via La Masa, all’ultimo vicolo a sinistra, al numero 4 vedrà un grande portone. Là, dentro il cortile del palazzo, troverà la macchina di suo zio con le chiavi inserite nel cruscotto. Attendo la sua conferma.»
Mi accomiatai con una deferente stretta di mano.
Giunto nel luogo suggerito, non potei non vedere il gigantesco portone accostato. Non transitava anima viva.
Nessun testimone che con finta aria distratta registrasse i miei spostamenti. Non vi nascondo che la mia tensione era tangibile. Mi misi alla guida della vettura e, messo in moto, imboccai in uscita lo stesso portone che qualche secondo prima avevo attraversato a piedi. Scesi dall’auto, richiusi il portone e mi dileguai per i vicoli del quartiere, dove sarebbe stato più probabile incontrare un alieno che un poliziotto.
Feci ritorno dal tipo per dargli la conferma d’aver preso possesso dell’auto. Stavo per tendergli la mano per la robusta stretta, quando il signore dagli occhi di ghiaccio, disse con enfasi:
«Posso chiederle un favore?» Non vi nascondo che ebbi un momento di panico.
«Certo!» risposi, temendo il peggio…
«Le dispiace sbottonarsi il polso sinistro della camicia e mostrarmi l’avambraccio?» Avendo temuto che potesse chiedermi di fare fuori qualcuno, la domanda mi risultò di grande sollievo e, tolta dunque la giacca, sbottonai il polsino mostrandogli ciò che aveva chiesto. Sorrise con senso di soddisfazione.
«Non mi ero sbagliato!» esclamò «È dal primo momento che ha messo piedi in questo negozio, con Peppino De Filippo, che mi chiedo dove ci fossimo già incontrati! Lei si ricorda di me!?» e ciò chiesto, sfilata la giacca, tolto il fermapolso d’oro dalla manica sinistra della sua camicia, mostrò il neo identico al mio.
«No! Con tutta sincerità non ricordo d’averla, mai, incontrata!!» fu la mia sorpresa risposta.
«Sono quel Nino che 8 anni fa, sulle montagne di Montelepre le ha somministrato una compressa di aspirina, affinché le andasse giù quella febbre da cavallo. Quella notte eravate 40 ragazzi e un prete, avete rischiato grosso, mi creda, signor Gianni! Io ero di sentinella in uno dei quattro fronti, e quando vi udii cantare capii immediatamente che si trattava di ragazzi e mi affrettai ad allertare tutti gli altri uomini affinché non aprissero il fuoco».
Rimasi atterrito, era stata questa la ragione per cui don Falzone ci aveva fatto cantare!?, dissi fra me.
«In tutto questo, che cosa c’entrano i nei ai nostri avambracci?!» incalzai con riguardo.
«Quando Turiddu chiese a Gaspare di portare un sorso d’acqua, fui io ad andare a prenderla nel casolare, e lei mi ha seguito. Si ricorda? Ed è stato lì, che al lume di candela ho notato il suo neo esattamente gemello al mio. Ne restai sorpreso e turbato».
Mi narrò come e perché Turiddu aveva ucciso un carabiniere. Mi parlò di Gaspare, cugino e luogotenente di Giuliano e della ferocia di un Generale della Benemerita, che a Castelvetrano volendo simulare un conflitto a fuoco contro loro, uccise con una raffica di mitragliatrice un uomo già morto.
Volle raccontarmi, infine, dell’Avvocato De Maria, conferendogli il triste epiteto di avvocaticchio. “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Era solito dire Turiddu. Nel senso che i nemici sapeva chi erano e come poterli fronteggiare, gli amici (nel suo caso) furono quegli esseri falsi, ambigui, che davanti gli sorrisero, ma lo colpirono alle spalle.
Quindi soltanto Dio poteva difenderlo.
E per concludere, fu così che quella notte, su quelle alture monteleprine, perdemmo l’orientamento: una volta attraversato il binario, nelle vicinanze di Giardinello, era necessario girare subito a sinistra e percorrerlo parallelamente per circa 200 metri, e da lì seguire la vecchia mulattiera. Noi, invece, attraversata la strada ferrata eravamo andati dritto per la trazzera che conduceva ad altri paesi.
Anni dopo, nell’accompagnare un gruppo di turisti stranieri a Selinunte, ho avuto modo di vedere il cortile dov’era stato inscenato il conflitto a fuoco. Ripetute volte, ebbi l’occasione di condurre dei giornalisti italiani a “Muncilebbri”, chiedendo un incontro con la madre di Turiddu, ma senza che riuscissero a cavare un ragno dal buco. L’anziana donna non mostrò mai il suo volto alla stampa.
… Turiddu Giuliano, tumulato in una squallida tomba senza neppure una croce simbolo della cristianità, né il caratteristico lumino sepolcrale, cadde nell’assoluta indifferenza per quasi un decennio.
Da quel giorno, ogni qual volta i miei “tour” mi portavano in zona, non mancavo di depositare un fiore su quella tomba ingiustamente trascurata.
Talvolta il fiore era accompagnato da una sentita preghiera. L’ultima volta che, al cospetto di quella sepoltura, espressi la mia prece fu nella primavera del 1968, quando lasciai definitivamente la mia Sicilia alla volta della capitale.
Epilogo
Il lettore si chiederà il perché di tanta riconoscenza verso Turiddu. Bene! Sono trascorsi 61 anni, oramai, e tengo a voler precisare quanto segue:
Nessuno quella notte, – nemmeno il prete, uomo saggio – gli aveva fatto richiesta di un’aspirina, ma lui me l’aveva somministrata...
Nessuno gli aveva chiesto di sellare il suo cavallo e farci accompagnare al trivio Crocifisso. Ma lui si adoperò…
Nessuno gli aveva fatto preghiera di offrirci una pagnotta. Ma lui la fece dividere in 40 e più fette che, famelici com’eravamo, divorammo strada facendo…
E, ancora, nessuno gli aveva suggerito d’avvolgermi in una coperta e mettermi in groppa al cavallo, raccomandandomi di tenermi saldo al cinturone dell’uomo a cavallo. Ma lui era stato ben soddisfatto d’averlo suggerito...
Sarebbe tempo che quei responsabili ancora in vita – e ve ne sono, anche se decrepiti – ponessero una mano sulla loro coscienza e trovassero il coraggio civile e morale di confessare tutta la verità, senza più mezze bugie, dicendo semplicemente: Sì! C’eravamo anche noi!!!
Non è scandaloso aver una verità oggi e una domani.
È dei saggi cambiare le opinioni. Scandaloso è non averne mai…
Ad maiora!! gd.
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Manifesto in ricordo della strage di Portella della Ginestra, località dove il primo maggio 1947, furono uccisi numerosi socialisti e comunisti che si erano riuniti per festeggiare la festa dei lavoratori.-------------------------------
La strage è attribuita al bandito Salvatore Giuliano e alla sua banda, ma tutt’ora restano numerosi dubbi sul coinvolgimento di membri del governo e dei servizi segreti italiani