Breve prologo
Considerato d’aver colpito nel segno questo genere di narrativa autobiografica, perché non buttar giù un altro racconto laddove non ho alcuna remora nel dover menzionare i nomi effettivi dei diversificati personaggi! Soprattutto avendo vivi nei ricordi i nominativi dei protagonisti e i corrispettivi luoghi. A fronte di quanto suesposto anatomizzo qualcosa dentro me che m’incoraggia a proseguire non correndo il rischio di dover brancolare nel buio cercando la trama e capitombolare sotto gli affabili preconcetti di alcuni amici lettoti i quali sostengono che colui che scrive abbia vissuto più di una vita. Ciò anteposto dedico questa mia pagina di “storia” alla scrittrice Ilaria Ferramosca, che in un suo commento ha lasciato scritto: “La tua vita reale, per quanto romanzata, è sempre un lungo avvincente racconto. Regalacene ancora di nuovi!”
* * *
Era d’estate. Da giorni si girava la scena del ballo con l’intero Casting in full immersion. Regista, produttori, attrici, attori, figuristi, sceneggiatori, costumisti e tecnici di ogni genere, erano a Palermo. La grande industria del cinema si era data appuntamento a Villa Boscogrande.
Erano circa le 18.00, ed ero in loco per andare ad incontrare, e ricondurre a Villa, l’attore americano Burt Lancaster nel ruolo del Principe Don Fabrizio di Salina, come pure:
Capelli arruffati,
forti sopracciglia,
grandi moustaches
aggettanti, folte
barbette, e niente
pizzo, erano sue
naturali
caratteristiche.
Ad eccezione,
quindi, di quel
necessario strato
di cerone, il volto
dell’attore cowboy,
– di cui si era detto
che mai sarebbe
riuscito nel ruolo
dell’aristocratico
Siciliano di metà
‘800 – non
necessitava di
particolari trucchi.
E, non ci si crederebbe, ma mentre
l’orchestra erapronta sulla pedana
a scaldare gli strumenti,lui scherzava
con tecnicie produttori:avvinghiato
al paletto di un lampione,si esibiva
– da innato trapezista – in alcuni
spericolati quanto impegnativi
esercizi ginnici. Quando ad un cenno
di Visconti si recò nelsuo camerino.
Pochi minuti dopo tornava indossando
il suo frack e l’enorme tuba, che
copriva parte della fronte, pronto
percalarsi nel ruolo solenne e nel
contempo austero del Gattopardo.
A fine lavoro, non importa chi
presenziasse, lo si vedeva in Jeans e T-shirt.
«Domani sarà una giornata molto intensa e lunga, soprattutto per te “Jany”.»disse lui sulla via di ritorno verso casa. Dandogli del Principe gli risposi che era quello il mio compito: assisterlo per tutto il perdurare della realizzazione del film. Ed è bene puntualizzare che ero stato io per primo che, avendolo incontrato all’aeroporto, l’avevo salutato conferendogli il suddetto appellativo. E da allora l’intero Cast l’onorò con questo titolo nobiliare da lui benaccolto. Era più plausibile che desse tempestivo ascolto a colui che l’aveva chiamato Principe, e non a chi lo chiamava Mr. Lancaster.
Proseguì dicendo che tutto il giorno era stato tormentato da un’incessante emicrania, e si riprometteva di prospettarmi ciò che aveva in mente la mattina del giorno seguente: sabato, il fine settimana, giorno in cui il ronzio delle cineprese avrebbe taciuto fino al lunedì mattina. Ci separammo dandoci appuntamento in Villa per le ore 09.00.
Lo trovai nell’antica scuderia, trasformata in palestra, laddove su di un ring, conforme a quella disciplina sportiva, faceva a cazzotti con entrambi i suoi due figli. E quando i due ragazzi, se pur protetti da casco da boxe, venivano giù dal ring esausti, lui era lì pronto a lanciare la sfida allo “sparring partner” di turno, dicendo “come next!” (sotto a chi tocca) Alla mia vista si arrestò alcuni minuti per darmi le direttive da seguire quel giorno:
Ore 10.00 recarsi a Punta Raisi per dare la necessaria assistenza a due giovani donne, e condurle a Villa.
Ore 14.00, incontrare l’amico Paul Newman e signora a Villa Igiea, ed effettuare un rilassante giro di città.
Alle ore 18.00, Sharp, recarmi al porto di Palermo, molo Santa Lucia, e attendere l’arrivo dell’Ammiraglio Comandante la Portaerei Coral Sea, ancorata al largo delle acque costiere e condurlo in Villa.
Successivamente fare ritorno in albergo, chiedere di Mrs. and Mr. Newman e portarli in Villa.
Per ultimo, a fine cena, riaccompagnare la coppia Newman in Albergo, e l’Ammiraglio allo stesso molo dell’incontro.
Ulteriori mansioni anche più impegnative di queste, me n’erano state affidate, sia da lui che dalla signora Lancaster; di conseguenza non avvertii nessun patema d’animo. Ma sapendo che mia moglie era, da qualche giorno, alla fine dei nove mesi di gravidanza, stavo un po’ in apprensione. Tuttavia il “Principe” n’era a conoscenza e, per suo suggerimento, i miei erano venuti in possesso del numero telefonico di casa Lancaster. Il quale, egocentrico come era, aveva dato ordini che nessuno, nemmeno i suoi familiari tenessero occupata quella linea telefonica.
Alle ore 10.30 avevo già incontrato le due “Young ladies” (come le aveva definite Don Fabrizio) ed ero sulla via di ritorno. Una delle due signore era di madre lingua francese, come d’altronde lo confermava il nome datomi: Magalie. Bionda, alta dal viso d’angelo e dal corpo statuario. L’altra, di lingua italiana, semi vuota, ma dotata di quel fisico da letto. Florida, carnosa. Giunonica.
Dopo la consueta domanda che era quella di volere sapere la distanza che separa l’aeroporto della città, mi chiese se parlassi la lingua inglese, le risposi con un cenno del capo che dava ad intendere più no che sì. Ma era questa la mia strategia: lasciarle nel dubbio, darle ad intendere che d’inglese non parlavo una sala parola. Devo ammettere che sono stato carogna quella volta! Ma nonostante il loro fascino erano indisponenti, e sicuramente io avevo dato loro la stessa impressione. Ciò contemplato risposi in questa maniera:
«Considerato che siamo entrambi italiani, e parliamo la stessa lingua, che utilità ci sarebbe, da parte mia, essere a conoscenza della lingua inglese».
La mia interlocuzione fu così sciocca da non meritare risposta. Tacquero per una manciata di secondi, indi diedero inizio ai loro gossip in lingua inglese, dicendo peste e corna su uno dei nostri migliori attori. Non amo scendere nei particolari, soprattutto per non dare nessun indizio al lettore che potesse condurlo al legittimo personaggio del quale stavano malignando da diversi minuti. Ma un’ultima voce, probabilmente nota a voi lettori, fu quella che Burt Lancaster, pur avendo avuto più di una moglie, era bisessuale. La notizia buttata là a brucia pelo, non poco mi scandalizzò.
Per voler essere sincero, non mi diedero quell’impressione da catalogarle fra le aspiranti attricette cercate da Visconti. Ma con i tempi che corrono, oggi potremmo distinguerle con l’aggettivo-sostantivo: “Escort”.
Fra un pettegolezzo e l’altro, giungemmo a Villa. Il Principe, in attesa del nostro arrivo, passeggiava pensieroso lungo il patio, laddove secoli prima si arrestava la carrozza dei nobili. Volendo fare un raffronto con un antico dipinto, – osservato anni prima nei saloni del Palazzo Lampedusa sito a Palma di Montechiaro – il Don Fabrizio della celluloide non differiva molto dall’autentico Principe di Salina. Il quale nel venirci incontro, lasciò trapelare il suo inesistente entusiasmo nell’accogliere le due “vamp”. Indi rivoltosi allo scrivente disse festosamente:
«Congratulations, Johnny!!!»
«What for, Don Fabrizio!?» Risposi io, ricambiando al sorriso.
«From a quarter to ten you became to be daddy. Run home to your bambino.» (dalle dieci meno un quarto sei divenuto papà. Corri a casa dal tuo bambino). Esplosi dalla gioia. Guardai in viso le due signore colte da tangibile imbarazzo. E, strizzando un occhio, dissi loro:
«I’m sorry! I talk only American, not English!!» Il Principe era così felice come se fosse stato un suo nipotino ad essere venuto alla luce, e sarebbe stato davvero un profeta se fosse riuscito a penetrare nello spirito di questa mia frase. Ma loro, avendo presente ciò che avevano detto lungo il tragitto, non erano stati assolutamente in grado d’evitare la stoccata. Il famiglio fu lesto a prendere i due borsoni ed accompagnarle ai piani superiori. Venti minuti dopo avevo fra le braccia un pargoletto di kg. 4,200 portato alla luce dalla nonna paterna.
Alle ore 14.00 “Sharp”, (come il Principe era solito puntualizzare) ero a Villa Igiea ad incontrare, con la mia limousine, le due star del cinema: i coniugi Paul Newman e Joanne Woodward, famosi nel pianeta terra per loro lunga carriera cinematografica. E nel tendermi la mano disse:
«Are you Gianni D’Amico the real one!?» risposi che ero Gianni D’Amico, ma non ero sicuro di essere quello vero che loro erano in attesa d’incontrare.
«Yes, you’re!!» disse lui, mostrandomi una foto fra due religiose scattata alcuni mesi prima, la cui didascalia sottostante recitava: “Your man in Palermo.”
Difatti la Palermo che vollero visitare, era stata quella piuttosto panoramica. E la parte esterna di alcuni monumenti. Non so se sia il caso di sottolinearlo, ma quando accennai loro dei 6.000 metri quadri di mosaici d’oro zecchino custoditi nel Duomo di Monreale, non mostrarono molto interesse nel volerli vedere. Altrettanto dicasi del Santuario della Patrona di Palermo sito sul Monte Pellegrino.
Intraprendemmo la discesa dal lato Nord Occidentale, la strada panoramica, per intenderci meglio. Giunti all’ultimo dei tornanti mi chiese di fermarmi per ammirare la vista sul golfo di Mondello, ed immortalare quella più unica che rara veduta su delle diapositive .
Tornati in macchina mi domandò se sul litorale vi fossero degli impianti sportivi di tiro a volo. Risposi semplicemente con un sì! Lo sentii parlottare sottovoce con la moglie, non riuscendo ad acchiappare il filo del loro breve discorso. A quel punto fu lei ad alzare il volume della voce dicendo:
«Tell him!» Formalizzandosi nella maniera più illogica, espresse il desiderio di volere andare a visitare quella struttura. Pochi minuti dopo mi abbracciai con il cugino Giacomo D’Amico, (don Giacumìnu) custode factotum di quel complesso di elementi.
Alla proposta avanzata dal noto attore, che era quella di voler partecipare al torneo, gli fu detto – con tangibile, quanto sofferto, rammarico – che a conclusione della gara mancava circa un’ora, ed era in corso la finalissima dei campionati Regionali di tiro al piattello. Tuttavia nulla ostacolava che a fine gara si sarebbe potuta fare una breve replica tra un paio di amici. Lessi nello sguardo di Mr. Newman l’esultanza d’essere stato riconosciuto. Ma quello che maggiormente stava apprezzando, era l’elevato senso d’ospitalità innata nei siciliani. La coppa dalle spocchiose dimensioni venne assegnata a don Totò D’Amico, incontestabile vincitore di svariati trofei, arcinoto fuoriclasse olimpionico.
Frattanto avvenne una bonaria contesa fra coloro che misero a disposizione di Mr. Newman la loro doppietta. Tutti fucili di alta precisione, e tutti di marca tedesca.
Nella maniera in cui l’attore americano imbraccio “a scupetta”, e appoggiò il calcio nell’incavo della spalla e alla guancia, diede subito ad intendere che era qualcosa in più che un semplice dilettante.
Quando sommessamente fece notare che il calcio di quel fucile era lungo, furono in tanti ad estendere il braccio e mettere a disposizione la loro arma. La cosa prese l’aspetto autorevole quando l’ospite cercò con chi competere, furono in molti a tirarsi indietro, a quel punto fu lo stesso Paul a interpellare don Totò. Così lo chiamò in quel frangente.
Non era la prima volta che mi recavo in quel Club e, da maleducato figlio di cacciatore, imbracciando “a scupètta” del cugino James avevo frantumato alcuni piattelli. E proprio in quel contesto avevo imparato tante cose. A titolo d’esempio, un calcio troppo lungo costringe l’atleta a portare la spalla indietro causando maggiore difficoltà nel centrare i bersagli sinistri, mentre se il calcio è troppo corto invoglia automaticamente la spalla a venire in avanti dando scarsi risultati nel cogliere i piattelli destri.
Un’altra cosa era da tener presente, è che i bersagli fissi o mobili, sono posti in posizioni e a distanze sempre diverse, e il punto strategico della pedana ha il suo ruolo determinante, nel senso che se il tiratore non prende l’esatta posizione non si ottengono ottimi risultati. Mi accorsi che Paul Newman queste cose le sapeva, e per come mi sono accorto io da profano, si sono accorti tutti gli altri incalliti tiratori. Sui volti dei quali si leggeva: “pòviru don Totò, a scummissa è persa!”
Si aggiudicarono 12 piattelli ciascuno del tipo frangibili. Mr. Newman indossava un gilet con imbottitura sulla spalla sinistra, cedutogli da un partecipante alla precedente gara. I primi due tiri furono di prova. Entrambi, sparando due cartucce su di ogni piattello, ne avevano fatto polvere più che cocci. La signora Newman, per gustarsi quei momenti laddove la tensione sarebbe stata manifesta, prese posto in tribuna, fra gli scommettitori. Ambiente scurrile, questo, spesso blasfemo, costituito esclusivamente da maschiacci. Ma da quel momento, mai prima dall’ora, seppero contenersi dallo sconfinare nella metodica scalmanata condotta, esibendo nei confronti dell’unica donna l’ineccepibile contegno da veri galantuomini. Ero meravigliato. Stupefatto.
Nell’avvicendarsi ai tiri, ambedue avevano frantumato a primo colpo il proprio piattello. Mancava il decimo colpo, l’ultimo. Il cugino Totò lo spacca in due con la seconda cartuccia, un colpo da maestro! Come se avesse ordinato ad un paio palline di staccarsi dalla rosa e colpire il bersaglio in quel modo. Era stato un gesto cavalleresco, il suo, volendo concedere allo sfidante la possibilità di farlo vincere..
La Star, con entrambi i colpi, manca di netto il suo clay pigeon (piccione d’argilla) onorando con quest’altro gesto il padrone di casa. Uno show da non dimenticare. Strinse la mano a tutti, ringraziò e chiese il conto.
«Quale cooonto, signò Nuuuman!!» dissero in molti «È stato un onore averla qui con noi.» Prese da tasca una banconota verde con due zeri, e porgendola a don Giacomino disse:
«For the boys!!»
Fui curioso di sapere chi erano tutte quelle persone che si sentirono onorati dalla presenza dell’attore americano, e lo chiesi al cugino James. Lui stando un po’ in campana, disse sottovoce:
«Cci voli tantu a capirlu, cucìnu! Sunnu i patrùna da Sicilia!!…» (ci vuole tanto a capirlo! Sono i proprietari dell’Isola)
Li ricondussi in albergo. Strada facendo Mrs. Newman fece rilevare le cifre a quattro zeri puntate dagli scommettitori. Nelle ultime due poste gli zeri divennero cinque. “Fortunatamente non erano Dollari!” Disse. Dando a quell’ambiente l’esatta definizione: “la Cage aux folles.”
Attesi che si docciassero per poi condurli in Villa. Erano in abito scuro per la cena di Gran Gala offerta dal Principe ad una ristretta élite palermitana.
L’appuntamento con l’alto ufficiale, al molo Santa Lucia, era stato fissato per le ore 18.00, avevo poco più di un’ora a mia disposizione. Effettuai una “volata da rally” in direzione di casa mia per coccolare il mio cucciolotto. Il quale attaccato al tettone della sua mamma non mi si filò per niente… Tuttavia restai là ad ammirarlo estasiato. Era un angioletto sceso dal cielo per me. Poi satollo e gonfio in viso, allentò la presa e l’ebbi dormiente fra le braccia. Avevo 27 anni e la sua mamma 19. Lo venerammo.
Mancavano 20 minuti alle ore 18.00. Frugai nei cassetti di alcuni mobili di casa in cerca di una bandierina a “stripes and stars” trovandola esattamente nel posto in cui pensavo che fosse, la inserii nel foro predisposto, sul parafango anteriore della limousine e nel rispetto dell’orario, ma soprattutto del personaggio da incontrare, arrestai il motore al molo prestabilito.
Giunse puntuale a bordo di una grande lancia sventolante la bandiera statunitense. Indossava la sua divisa di un bianco candido stracolma di Alamari, Medaglie e Croce di guerra al valor militare, con l’aggiunta di oltre Greche cucite alle maniche della giacca, a me affatto note. L’uniforme della Marina Militare mi aveva sempre affascinato, ma non ero mai stato tanto vicino con un sì alto Ufficiale di Marina, per il quale ero stato riconosciuto un uomo affidabile. Cinquantenne bel fisico. Indossava grandi occhiali da sole un po’ nascosti dalla visiera del berretto. Sedette dietro, e poiché gli strapuntini erano stati chiusi, stese le gambe appoggiando i piedi su uno di questi. Giungemmo a Villa. L’incontro con il Principe fu molto cordiale, con pacche sulle spalle da veri amici. Mi appartai con l’auto sotto la luce di un lampione, e diedi inizio, per la terza volta, alla lettura del romanzo di Tomasi di Lampedusa: "Nunc et in hora mortis nostrae. Amen".
Si era fatta circa l’una, quando incominciarono a venir fuori i primi ospiti. Riconobbi l’anziana, Principessa Ganci, Nobile titolare dell’omonimo Palazzo, il Vescovo di Palermo. E tanti altre personalità di spicco che io non conoscevo. Ma nessuno del grande Casting, aveva presenziato a quella serata di gala.
Vidi i coniugi Newman intrattenersi in piacevole conversazione con l’Ammiraglio Hayward. Deducendone che sarebbero tornati alla loro residenza con un unico transfert. E così accadde. Fu lo stesso Principe, mentre apriva gli sportelli dell’auto a suggerirmi d’accompagnare per primi i coniugi Newman a Villa Igiea, e successivamente il suo amico Ammiraglio all’imbarcadero.
Il trasferimento verso Villa Igiea richiese pochi minuti. Fu lo stesso Ammiraglio ad aprire la portiera alla Diva. E risedutosi in macchina, esclamò fra sé:
«Great people, great evening, gorgeous food!» poi rivoltosi a me disse:
«Do you speak English?»
«Couple words, with American accent!» risposi, lasciandolo interrogare.
Alla mia risposta interloquì dicendo che già erano più di due, le parole dette. Chiese il mio nome subissandomi di domande, ma soprattutto dove avevo imparato l’accento americano, gli spiegai che durante la guerra ero cresciuto fra i (G.I.), al che ci trovò da ridere. E considerato che il nostro stare insieme stava per concludersi, espressi un mio ambizioso desiderio: qualcosa che agognavo da alcuni lustri. Poter… poter visitare la sua portaerei! Lo vidi d’un botto divenir serio, rispondendo in questa maniera:
«Come mi giustifico di fronte a 4.104 marinai, d’avere un civile a bordo? Su questa nave hanno messo i piedi soltanto i Reali di Grecia. Non saprei proprio sotto quale ottica fare leva. Mi dispiace!»
«Quella d’aver salvato la vita ad un Generale Americano.» risposi. Stavolta non ci trovò nulla da ridere. Eravamo giunti al pontile. Mi salutò con una calorosa stretta di mano. Al chiaro di luna, ebbi modo di seguire la scia spumeggiante della scialuppa e attesi che giungesse sottobordo.
Si erano fatte oltre le due di quella domenica mattina. Mi chinai dentro la culla e baciai il mio piccino, rimboccai la copertina e mi ficcai sotto le fresche lenzuola senza che Maria Adelaide, stanca dal travaglio del parto, avesse avvertito il mio ritorno. Poco dopo destatasi per allattare il bebè, mormorò: “che cosa ci fai tu qua!” Le risposi che ero appena tornato dal lavoro.
…Erano circa le 10:00, quando squillò il telefono. Udii mia moglie dire:
«Is sleeping!»
«Sono sveglio!» dissi «ho ascoltato tutto, chi mi cerca!»
«È il tuo amico Principe!»
«Chi, Burt Lancaster?»
«Quale altro Principe conosci, tu!»
Scusandosi d’aver chiamato di domenica, mio giorno di riposo, mi comunicò che alle ore 16.00 Sharp, un marinaio sarebbe venuto ad incontrarmi al solito pontile per condurmi a bordo dell’Air Craft Carrier Coral Sea. Suggerendomi d’indossare giacca e cravatta.
Aldilà della diga foranea mi accorsi che soffiava vento da ponente, ma il giovane lupo, senza che si inimicasse con quel tratto di mare, seppe come raggirarlo. Beccheggiammo quanto dovuto, ma non al punto tale da accusarne malessere.
Conoscevo bene quelle acque. E quando gli suggerii di virare ¾ a dritta, per poi abbordare quella fortezza galleggiante da babordo, sorrise compiaciuto, chiedendomi se fossi uno Skipper. Messo i piedi sullo scalandrone mi girai verso poppa salutando militarescamente la bandiera americana. Seguirono determinati segnali acustici emessi da un fischietto che stavano ad indicare che un ospite stava per salire a bordo.
A livello ponte di comando, una triade di uomini costituenti, forse, il picchetto d’onore, nelle corrispettive uniformi dell’Air Force, Navy e Marines, mi diedero il “welcome on board” invitandomi a seguirli. Mi condussero nello studio del più alto in grado. E lì mi rimisero all’Ammiraglio John T. Hayward.
«Your aspiration has been executed, John! Take a sit!» disse. Indicandomi una sedia.
ro talmente entusiasmato e commosso, da non essere riuscito a dire grazie.
Volle sapere le modalità con cui avevo salvato da sicura morte un Generale Americano. Avvenimento narrato nel mio secondo racconto “Fuggirono lasciandolo accostato.”
Mi diede ascolto sostenendo, infine, che ad occupare Palermo, erano state le truppe del mitico Generale Patton, comandante della VII armata. Bussarono alla porta.
«Get in.» disse lui. Entrarono cinque uomini, due Top Gun e tre Marines. Venni presentato a costoro, dicendo:
«This is John D’Amico. Mr. John D’Amico. A little big Sicilian Hero.» indi, rivoltosi allo scrivente aggiunse:
«Johnny, those five men are D’Amico’s, they could be your potential cousins.» Indi li lasciò accomiatare. Parlammo per pochi minuti ancora, soprattutto io, chiedendogli spiegazioni su tutte quelle Medaglie, Alamari, e Croci di Guerre esposte in una bacheca alle sue spalle. Indi alla mia ultima domanda rispose: che se dovesse appuntarle tutte al petto dovrebbe avere il fisico di “Polyphemus.”
Uno degli uomini costituente il Picchetto d’Onore, mi guidò un po’in giro mostrandomi ciò che gli era stato consentito di mostrarmi. Soprattutto la palestra, la piscina, la piattaforma adibita a campo da tennis e da basket. Per concludere con la cappella e il vasto refettorio idoneo a contenere 4.104 uomini. Per poi essere riaccompagnato al molo Santa Lucia.
Epilogo
Oggi per allestire questo racconto, mi sono dovuto documentare su determinati punti, ma principalmente sul nome dell’Ammiraglio, che detto con tutta onestà non ricordavo. Osservando con grande stupore che alcune delle tante decorazioni che stavano appese alle sue spalle, queste sottostanti, nella fattispecie:
- Navy Distinguished Service Medal.
- Silver Star.
- Legion of Merit.
- Distinguished Flying Cross.
- Air Medal.
le riporta fedelmente Wikipedia. (Google) È doveroso dargliene atto. Una cosa mi ha profondamente stupito: la sua foto, che è verosimilmente quella risalente al 1963.
Meditando sulle parole dette dall’Ammiraglio John Tucker Hayward, che soltanto i Reali di Grecia avevano messo piedi sulla sua nave. Devo dire – con un pizzico d’orgoglio – che anche colui che scrive, venuto dal nulla, ha vissuto il suo giorno da leone.
Per quanto riguarda le due “Young ladies”, non ebbi più opportunità d’incontrarle. Né capire con esattezza qual era stato il loro ruolo in quella serata di gala, ma con un minimo di astuzia riesco ad immaginarlo... E voi!?
Ad maiora!
Gianni D’Amico.
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